Berta: Romiti l'uomo nuovo della Fiat dell'età dell'oro


AGI – Cesare Romiti. L’uomo che passò un quarto di secolo al vertice della Fiat di corso Marconi. Una Fiat incomparabile, che lui contribuì a rendere tale. Il professor Giuseppe Berta, in un colloquio con l’AGI, ricorda il manager che fu protagonista del capitalismo italiano di quegli anni. Cesare Romiti fu nella Fiat dal 1974 al ’98, quando ne uscì a 75 anni dopo la norma ad hoc introdotta dall’Avvocato Agnelli. “Ventiquattro anni che sono stati il periodo d’oro di una vita peraltro molto lunga, quasi secolare – osserva il docente di Storia economica all’Università Bocconi di Milano – possiamo dire quindi c’è un Romiti prima della Fiat e un Romiti dopo. Ma gli anni d’oro di Romiti sono stati indubbiamente quei ventiquattro anni trascorsi al vertice a Torino, quando era ancora in corso Marconi, e coincidono con il punto apicale della Fiat italiana”. 

Da che cosa dipende la fortuna di Romiti? “Innanzitutto dalla sua incredibile tenacia – risponde Berta – era un uomo di una determinazione unica, che esprimeva anche nella postura e nella forma fisica cui teneva molto. Era un uomo duro, tenace, coriaceo”.

Romiti arriva in Fiat agli inizi degli anni ’70, “un periodo di confusione tremenda – racconta lo storico dell’economia – di una Fiat che, diceva lo stesso Romiti, non sapeva neanche la liquidità che aveva in cassa. E allora lui mette mano ai conti. Ma lì c’era chi non gradiva la sua presenza come Umberto Agnelli. I due non si presero per nulla. E c’è inizialmente come alter ego molto pesante, che Romiti non ama, Carlo De Benedetti. In questo frangente alla fine lui riesce a emergere come super manager della Fiat grazie al 1980″.

Nel 1979, prosegue nel racconto Berta, “era evidente oramai che l’industria dell’auto su scala mondiale stava vivendo una transizione delicatissima. E che bisognava ridurre, contrarre l’occupazione. Cosa che si fece in tutto il mondo”. Che in Italia significa innanzitutto piegare il potere sindacale. “Infatti. Potere che da noi è più visibile perché è emerso nell’autunno caldo del ’69 e ha conquistato il potere proprio grazie al peso politico e contrattuale che ha assunto dentro la Fiat”.

Cosa succede allora? “Romiti capisce che la proprietà in quel momento non si può esporre e allora prende su di sé la responsabilità manageriale – spiega – e nell’autunno del ’79 dice ‘Ci vuole una ristrutturazione radicale’. Allora raduna intorno a sé una squadra di manager capaci e giovani, da Cesare Annibaldi a Carlo Callieri, e poi Mattioli sul piano finanziario. Compone una squadra manageriale, dà battaglia al sindacato e vince, come era inevitabile che fosse”. Questo processo di ridimensionamento dei numeri dell’industria dell’auto, ragiona Berta, “passa infatti su scala mondiale”. E tornando a Romiti: “La sua legittimazione, aver vinto lo scontro sindacale e aver contratto l’occupazione nel periodo in cui Fiat Mirafiori, il più importante stabilimento del gruppo, aveva oltre 50.000 addetti, lo fa diventare l’uomo nuovo della Fiat. 

Nell’ultimo quarto del Novecento il volto della Fiat è rappresentato certamente dal grande patron Gianni Agnelli, ma al suo fianco c’è Romiti – prosegue – è una coppia che appare ovunque e in tutti i momenti. Romiti inizia a manifestare l’opinione del gruppo Fiat e la sua in tutte le sedi. In ambito economico e industriale ovviamente, ma anche politico e persino sportivo. La Fiat diventa una sorta presenza che ha una voce su tutti i problemi italiani. Adesso invece – osserva l’economista piemontese – ci colpisce il silenzio. Le imprese negli ultimi venti anni si sono ritratte dalla scena politica. Quelli invece erano gli anni in cui l’Italia e la Fiat contavano qualcosa. Nel 1985 il gruppo torinese si contendeva il primato europeo insieme a Volkswagen: nelle classifiche di vendita un mese era in testa Volkswagen e il mese dopo c’era Fiat, e viceversa. Non dimentichiamo che la Fiat Uno è stata l’utilitaria più venduta in Europa”.

Poi arrivano gli anni ’90, “la gestione di Romiti diventa a quel punto meno brillante. Perché lui comincia a pensare che l’auto sia un problema e che bisogna adottare il modello che in quel momento è in auge in America che è quello dell’impresa conglomerata, un’impresa che ha dentro di sé business eterogenei, diversi. E che tiene su la propria attività grazie all’apporto di questi settori disparati. In Italia significa che ci si dovrà occupare di tutto ancora di più: dalle assicurazioni ai giornali”. E in effetti, a guardarla bene, la Fiat di Romiti è un pacchetto estremamente eterogeneo, dove l’auto ha certamente un peso importante ma non è più il sole attorno cui ruota tutto il sistema.

“Questo porta però a una defocalizzazione e a un declino molto visibile a partire dal 1990 – ragiona l’esperto – Cesare Romiti esce dalla Fiat nel 1998 quando compie 75 anni e perciò lui non vede la crisi. La crisi la vedono in pieno Gianni e Umberto Agnelli, che muoiono all’inizio del nuovo secolo. E che lasciano un gruppo che dubita ormai, nel 2004, della propria condizione di sopravvivenza”. È in questo quadro che arriva Sergio Marchionne, “il quale dà il via a una strategia che è del tutto contraria – spiega Berta – una strategia di apertura internazionale del gruppo e di salvezza agganciando il gruppo alle attività internazionali dell’automobile. È chiaro che Romiti non amasse Marchionne.

Romiti ha incarnato l’italianità della Fiat, quel sentirsi soggetto politico tutto campo che in effetti era”. Sul declino di questo mondo ha pesato la vicenda di Tangentopoli, che ha accelerato una caduta da cui poi non c’è stata più una ripresa. “Uscito con una liquidazione vicina ai 200 miliardi di lire di allora, Romiti non nascose di voler fondare un proprio gruppo imprenditoriale con l’apporto dei figli, ma la cosa non ha funzionato”. Di lui resta vivo il ricordo di quel quarto di secolo passato ai vertici dell’azienda torinese. 

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Fonte: economia agi