Bellezza e servizi, non quartieri-ghetto La sfida degli architetti contro il degrado


Non solo forze dell’ordine e interventi educativi.

Granata (Politecnico): serve promuovere una cultura dello spazio pubblico di cui ognuno si senta responsabile

«Il degrado non esiste in natura, è l’esito ultimo di una serie di infinite rinunce ad agire di fronte ai tanti problemi che affliggono le città: disagio sociale, carenza di servizi, mancanza di manutenzione del verde pubblico, dilazione delle necessarie opere di conservazione degli edifici…». Elena Granata, urbanista del Politecnico di Milano, dopo l’ennesimo caso di violenza esercitata a fine agosto da una masnada su due ragazzine nel Parco Verde di Caivano si sofferma a ragionare sul rapporto tra l’ambiente e questi comportamenti nefasti. È tanto tempo che se ne parla: costruzioni mastodontiche come il serpentone del Corviale a Roma, la rigidità impersonale del quartiere Zen di Palermo, gli edifici-alveare come le Vele di Scampia si sono dimostrati facile ricettacolo di criminalità e sono diventati terra di nessuno dove imperversano bande di spacciatori e sfruttatori. E si può dire che di tali comportamenti infausti sia complice l’architettura?

«Nel caso del Parco Verde – ritiene Sara Marini, professoressa di progettazione alla Iuav – direi che l’architettura è innocente. A differenza delle Vele di Scampia o delle dighe di Begato a Genova, non sono mastodonti ma edifici abitativi di pochi piani, intervallati da spazi verdi. Il problema quindi si presenta come eminentemente di carattere politico, gestionale e sociale. Un quartiere può diventare un ghetto, e questo accade spesso con la gentrificazione, quando i poveri sono espulsi dai centri urbani e relegati nelle periferie. Il Parco Verde di Caivano invece è nato fin dall’inizio come un ghetto dove sono state raccolte famiglie rimaste senza casa a seguito del terremoto del 1980. Sul piano urbanistico sarebbe accettabile, se ci fosse stata attenzione per gli spazi pubblici. Ma questa non c’è stata». Mancano i servizi: fognature adeguate, assistenza medica, scuole, cura del verde, piazze degne di questo nome…

La necessità di servizi pubblici

« Lo diceva anche Le Corbusier – incalza Luigi Fusco Girard, urbanista dell’Università Federico II di Napoli – non basta costruire case, ci vogliono anche i servizi necessari per il benessere dei singoli e per favorire la vita sociale. A Caivano, come in altre zone del Meridione, questi sono stati promessi ma mai portati a termine. È qui che deve intervenire la pubblica amministrazione: ci vuole quell’approccio sistemico che è sempre evocato ma mai realizzato. Perché, mancando questo, si favorisce la marginalità, l’isolamento e il proliferare di atteggiamenti di sfiducia verso la comunità». « E nei quartieri – sostiene Marini – dovrebbero abitare persone di strati sociali diversi. La città non dev’essere divisa in zone ricche e zone povere: ci vuole mixité. Fatti come quelli accaduti al Parco Verde dovrebbero spingere a discutere su come fare “città”, cioè luoghi di convivenza tra diversi, e non “periferie”, che sono zone di emarginazione e disagio. Ci vorrebbe un grande confronto su questo tema. A livello internazionale, perché il problema della gentrificazione è diffuso ovunque: si pensi alle banileue parigine per esempio. Tenendo conto che il verde, invocato quale primaria soluzione per i problemi della città contemporanea, di per sé non è una panacea: va curato e manutenuto, se no degrada e dà un senso di desolazione, come si vede proprio nel Parco Verde».

Ma perché i cittadini non si attivano per migliorare l’ambiente in cui vivono? Vi sono stati interventi, come quelli promossi da Renzo Piano per esempio al Giambellino a Milano o a Marghera, dove le persone sono state coinvolte con discreto successo nel rivedere l’assetto e la vita dei quartieri. « Il fatto – spiega Marini – è che l’interesse delle persone per la cosa pubblica va sollecitato: non nasce spontaneo. Un’ipotesi: le scuole di architettura potrebbero un giorno darsi appuntamento in uno dei tanti quartieri degradati per discutere con chi vi abita su come fare per migliorarli, quali servizi portarci e come ottenerli. A volte basta aprire un bar, o una libreria, o una galleria d’arte per attivare un’attenzione nuova. E se i cittadini frequentano gli spazi pubblici anziché passarci frettolosamente, le attività illecite ne vengono disincentivate».

« Beninteso – nota Granata – in Italia abbiamo tanti esempi di interventi puntuali di grande valore. Penso all’opera di don Antonio Loffredo: nel rione Sanità di Napoli è riuscito a formare un gruppo di giovani che hanno ripulito le Catacombe di San Gennaro e le hanno attrezzate per attività culturali e turistiche. O all’iniziativa “Periferica” di Mazara del Vallo che ha lanciato una serie di opere culturali, ricreative ed educative in Sicilia, coinvolgendo molti giovani anche nella riprogettazione degli spazi urbani. Proposte come queste hanno la capacità di creare cultura e di insegnare a camminare sulle vie della convivenza civile, anche dove sembra che questa sia più difficile».

Dunque vi sono molte iniziative di privati, spesso persone legate alla Chiesa, che vanno in questa direzione. « Anche al Parco Verde – osserva Granata – don Patriciello, il parroco, fa tutto quanto è in suo potere. Ma il quartiere è grande, le persone tante, i problemi radicati: c’è bisogno di aiuto».

Non di sola emergenza

Di fronte a situazioni critiche come quella manifestatasi recentemente si pensa subito alla necessità di rafforzare la presenza delle forze dell’ordine: si affronta l’emergenza, ma questo non risolve il problema alla radice. Bisognerebbe promuovere una cultura dello spazio pubblico che sia tale per cui tutti possano goderne, e di cui ognuno si senta responsabile. « Per questo promuovere la bellezza nelle città – chiosa Granata – è fondamentale. La bellezza smuove gli animi e sollecita gli aspetti migliori delle persone. Ma non va intesa come un fatto esteriore. Sarebbe molto utile che nei quartieri intervenissero giovani architetti pieni di entusiasmo e di idee. Ma questi vanno formati non solo sugli aspetti tecnici, metrici o di facciata: devono essere in grado di comprendere e affrontare i problemi e le difficoltà sociali. Rigenerare un quartiere degradato richiede un profondo conoscimento dell’animo umano, la capacità di comprendere le necessità più vere delle persone, e la disponibilità all’ascolto e al dialogo. Oggi purtroppo le scuole di architettura non offrono tutto questo bagaglio di sapere. Eppure ci sono alcuni esempi di operazioni ben condotte, penso per esempio a un gruppo di giovani urbaniste che sono intervenute nel South Bronx di New York contribuendo a migliorarne il territorio. L’opera da compiere è quella che chiamo del “Placemaker” cioè del creatore di ambienti che invitano alla vita e al benessere sociale». Quindi, quale la ricetta? Secondo Marini è questa: « Evitare la gentrificazione. Favorire la mixité. Diffondere servizi di pubblica utilità. E soprattutto parlare del problema degli spazi pubblici non solo quando accadono fatti criminali o incresciosi. Parlarne perché questa è Politica con la “p” maiuscola: la gestione degli spazi pubblici. Bisogna coinvolgervi tutti, amministratori e cittadini. Passare dalla denuncia in condizioni di emergenza, alla pianificazione di lungo termine. Per trasformare in città quella che oggi è periferia».

Fonte: Avvenire