Astronomia. Il mistero dell’esplosione di Tunguska svelato da una ricerca italiana


La deflagrazione del 1908 che devastò la taiga siberiana fu dovuta all’impatto di un corpo celeste. I frammenti non sono però mai stati trovati, un modello ora prova a individuarli

C’è una traccia che potrebbe finalmente fare luce sul mistero dell’«evento di Tunguska», un corpo celeste che, dopo aver provocato il più grande impatto del quale gli uomini siano stati testimoni, sembra sparito nel nulla. Il 30 giugno 1908 era da poco sorta l’alba, lungo le rive del fiume Tunguska, nella Siberia centrale, nell’allora Impero Russo, quando si verificò quella che viene considerata la collisione del millennio appena passato: un’esplosione da 15 megatoni prodotta probabilmente da un meteorite di circa 50-80 metri di diametro (per dare una idea della potenza, il “botto” è stato superiore al test Castle Bravo effettuato nel 1954 dagli Stati Uniti nell’atollo di Bikini, dove venne fatto detonare un ordigno termonucleare a fusione con combustibile solido). Decine di milioni di alberi furono improvvisamente rasi al suolo dalla terrificante onda d’urto, su un’area di oltre duemila chilometri quadrati.
Grazie a registrazioni sismiche e barometriche dell’epoca (il rumore dell’esplosione si udì fino a mille chilometri di distanza), si conosce con buona approssimazione persino l’ora dell’evento, le 07:14:28 locali. Quello che ancora non si sa è cosa lo abbia causato, visto che a oggi non è stato trovato nessun frammento di questo oggetto celeste. Un oggetto con lo stesso diametro in Arizona, negli Stati Uniti, circa 50mila anni fa, produsse il celebre Meteor Crater e le meteoriti associate sono numerose, mentre a Tunguska di crateri non vi è alcuna traccia.
Così il mistero di Tunguska ha acceso per oltre un secolo l’interesse della scienza e la fantasia, generando le teorie più bizzarre, tra chi tirava in ballo l’antimateria e chi sosteneva si trattasse di un attacco extraterrestre, preludio a un imminente invasione aliena. Ma scartate queste soluzioni, appare assai probabile che a schiantarsi sulla taiga fosse stato un corpo celeste. Potrebbe essere stata una piccola cometa (teoria abbastanza consistente e giustificata dai bagliori e dall’intensità luminosa registrata per molti giorni dopo l’evento), dunque un corpo prevalentemente formato da ghiaccio. Potrebbe essersi trattato sì di un asteroide, ma di quelli “fragili”: non di metallo, come l’asteroide che colpì appunto l’Arizona, bensì di roccia, più frantumabile. Potrebbe anche essere stato di metallo ma con un angolo così radente da “rimbalzare” – o quasi – sull’atmosfera. Oppure, potrebbe essere ancora lì. In attesa che qualcuno lo trovi. E ciò a cui prova ora a rispondere uno studio, condotto da tre astronomi dell’Istituto nazionale di astrofisica, appena pubblicato su Icarus: Mario Di Martino, Giovanna Stirpe e, primo autore dello studio, Albino Carbognani.
«In effetti le testimonianze degli eventi raccolte all’epoca della caduta parlavano di pietre comparse nella foresta subito dopo la catastrofe – spiega Carbognani – purtroppo, la prima spedizione di Leonid Kulik è stata fatta solo 19 anni dopo, e gli eventuali frammenti macroscopici hanno avuto tutto il tempo per essere inghiottiti dal fango della taiga». Insomma, potrebbe valer la pena cercare. Per capire dove, Carbognani e colleghi hanno messo insieme i pochi dati disponibili grazie alle testimonianze storiche e alle numerose campagne scientifiche che si sono succedute da allora: dati come l’azimut della direzione di provenienza, il possibile angolo d’ingresso e l’epicentro dell’esplosione. Poi li hanno inseriti, con tutte le loro incertezze, in un modello messo a punto avvalendosi di un altro impatto, quello del secolo: l’evento di Chelyabinsk del 2013 (la meteora che sorvolò gli Urali e colpì la Russia), per il quale è stato rinvenuto un frammento monolitico con una massa di ben 570 kg e i dati sono abbondanti e molto precisi. Infine, grazie anche alla loro pluriennale esperienza con il progetto Prisma, coronata da un clamoroso primo successo nel 2020 con il ritrovamento della meteorite di Cavezzo, e a un software – ottimisticamente battezzato Meteorite Finder – da loro stessi sviluppato per calcolare il cosiddetto “volo buio” (dark flight) di un meteoroide e delimitarne l’area di dispersione sul terreno, hanno individuato la regione più promettente.
«Dai calcoli risulta che il possibile strewn field di Tunguska si colloca a circa 11 km a nord-ovest dall’epicentro dell’esplosione e ha un’estensione di circa 140 km quadrati. Se ci sono – conclude Carbognani – le meteoriti macroscopiche devono essere sottoterra, perché quando sono arrivate al suolo avevano ancora abbastanza energia cinetica per penetrare il fangoso suolo siberiano. In definitiva il caso Tunguska non è chiuso e potrebbero esserci dei frammenti del che aspettano di essere ritrovati: le informazioni che si potrebbero ottenere chiarirebbero la natura del corpo oltre ogni ragionevole dubbio. Sarebbe la soluzione di un mistero che dura da più di un secolo e che è tempo di risolvere».
Di Davide Re – fonte: https://www.avvenire.it/