L’ultimo Rapporto Itinerari Previdenziali analizza alcune affermazioni ricorrenti sugli importi dei nostri assegni pensionistici, spesso descritti come bassi e poco favorevoli alle donne: mezze verità o luoghi comuni di cui si analizzano solo di rado origine e motivazioni
Michaela Camilleri e Mara Guarino
Oltre la metà delle pensioni è di importo inferiore a 1.000 euro al mese” e “la previdenza sfavorisce le donne, che percepiscono infatti assegni meno generosi rispetto agli uomini”: tra i principali luoghi comuni che trovano spazio nel dibattito pubblico sul sistema pensionistico italiano non mancano quelli riguardanti gli importi delle pensioni. Affermazioni sì diffuse ma che non trovano concreto riscontro nei dati del Casellario Centrale dei pensionati INPS rielaborati dall’Undicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano. La pubblicazione, curata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, dimostra infatti come in realtà queste convinzioni siano scorrette sia dal punto di vista dell’analisi sostanziale sia sotto il profilo di un’adeguata comunicazione dei temi previdenziali, contribuendo a nutrire la sfiducia nel sistema, soprattutto da parte delle giovani generazioni.
Gli importi medi delle prestazioni pensionistiche italiane
Al 2022 l’importo medio della prestazione pensionistica, calcolato sul numero totale delle prestazioni, ammonta a 14.150,40 euro annui lordi, vale a dire circa 1.088 euro lordi al mese in 13 mensilità. Nel dettaglio, su un totale di 22.772.004 prestazioni erogate, quelle di importo fino a una volta il trattamento minimo sono poco meno di 7,5 milioni (7,411 per l’esattezza), ma quanti poi ricevono effettivamente un reddito pensionistico pari o inferiore a 525,38 euro mensili sono poco più di 2.160.451 milioni su un totale di oltre 16 milioni di pensionati. Situazione analoga anche per la successiva classe di importo (da 525,38 a 1.050,76 euro lordi mensili) alla quale appartengono circa 6,838 milioni di prestazioni, cui fanno però da contraltare solo circa 3,757 milioni di beneficiari. Un fenomeno che non deve sorprendere visto che un soggetto può essere contemporaneamente beneficiario di più trattamenti che si cumulano tra loro (ad esempio, una pensione di importo medio-alto e uno o più trattamenti più bassi come indennità di accompagnamento e pensioni ai superstiti) facendo sì che il pensionato si collochi in una classe di reddito più elevata rispetto a quella più bassa in cui si erano posizionate le singole prestazioni.
In particolare, per il 2022, il Rapporto Itinerari Previdenziali stima 1,412 prestazioni per pensionato, il che significa che ogni pensionato italiano riceve in media quasi una pensione e mezza: nel dettaglio, il 68% dei pensionati ha percepito 1 prestazione, il 24,2% dei pensionati ne ha percepite 2, il 6,6% 3 e l’1,2% 4 o più. È quindi vero che le singole prestazioni di importo pari a circa mille euro (per la precisione, fino a 2 volte il TM, pari a circa 1.050 euro), sono circa 14,3 milioni e rappresentano il 62,57% delle pensioni in pagamento, ma per correttezza, ed evitare comunicazioni distoniche, andrebbe sempre chiarito che i soggetti che le ricevono sono meno della metà, poco meno di 6 milioni (5.917.243), circa il 37% del totale pensionati, peraltro in buona parte percettori di assegni totalmente o parzialmente assistenziali, ossia non sostenuti da contribuzione o integrati al minimo.
Tabella 1 – Numero pensioni e pensionati, importo complessivo, numero di prestazioni per pensionato,
importo medio annuo delle pensioni e del reddito pensionistico Tabella 1 – Numero pensioni e pensionati, importo complessivo, numero di prestazioni per pensionato, importo medio annuo delle pensioni e del reddito pensionistico Fonte: Undicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
Ecco perché quando si parla di importi pensionistici, e in particolare se ne fa una valutazione di adeguatezza, sarebbe più opportuno far riferimento ai percettori più che alle prestazioni (spesso oltretutto anche molto eterogenee tra loro per tipologia) tanto che se si calcola l’importo medio della pensione facendo riferimento al totale dei pensionati si sale da 14.150 a 19.975,50 euro annui lordi, pari a circa 1.537 euro pro capite per 13 mensilità (intorno ai 1.262 euro il netto mensile). Eppure, il dato più diffuso da politica e media non è quello sul reddito pensionistico medio per pensionato ma appunto quello relativo all’importo delle prestazioni, con il concreto rischio di confondere i contribuenti e incentivare fenomeni di elusione fiscale: perché – potrebbero ad esempio impropriamente chiedersi i giovani – versare per una vita contributi se poi spettano assegni così leggeri?
Non solo, altro elemento che si tende a non considerare nel calcolo degli importi medi dei singoli trattamenti pensionistici è la natura non omogenea delle prestazioni coinvolte: nel novero degli assegni di importo fino a 2 volte il minimo tendono infatti a prevalere misure assistenziali come assegni sociali, pensioni integrate al minimo, invalidità civili, indennità di accompagnamento o rendite indennitarie Inail, vale a dire prestazioni non sorrette, o sorrette solo in parte, da contribuzione. Viceversa, prestazioni di importo superiore sono solitamente il frutto di nastri contributivi più o meno consistenti. Volendo quindi fare un esercizio utile a verificare l’effettiva adeguatezza delle sole pensioni previdenziali supportate da contributi ed escludendo le prime due classi di reddito pensionistico, il reddito medio dei restanti 10,214 milioni di pensionati ammonterebbe a circa 27mila euro annui lordi (contro gli ufficiali 19.975,50 euro lordi) pari a circa 21.595 euro annui netti». Insomma, resta vero che il 37% dei pensionati ha redditi pensionistici inferiori o quasi ai mille euro lordi al mese, ma lo è altrettanto che nella maggioranza dei casi non si tratta di pensioni in senso stretto quanto piuttosto di trattamenti assistenziali a carico della fiscalità generale.
Le differenze di reddito pensionistico tra i generi
Passando all’altro luogo comune, ovvero il cosiddetto “gender gap pensionistico”, l’undicesima edizione della pubblicazione evidenzia che nel 2022 le donne sono state rappresentative del 51,7% dei pensionati, percependo tuttavia il 44% dell’importo lordo complessivamente erogato per pensioni (141.659 milioni di euro contro i 180.754 pagati agli uomini). Sul totale delle prestazioni corrisposte – previdenziali, assistenziali e indennitarie – le donne hanno percepito un reddito pensionistico pro capite annuo medio pari a 16.991 euro; valore che nel caso degli uomini sale invece fino a 23.167.
Numeri che, in questo caso, sembrano confermare il sentire comune ma sui quali si tende a riflettere poco, dando spazio a una narrazione imprecisa. Innanzitutto, le pensionate registrano un maggior numero di prestazioni a testa, in media 1,50 contro le 1,32 degli uomini. Nel dettaglio, le donne rappresentano il 58,4% dei titolari di 2 pensioni, il 68,5% dei titolari di 3 pensioni e il 69,8% dei percettori di 4 e più trattamenti. Non meno rilevante è poi l’analisi della tipologia delle prestazioni. I beneficiari di sesso femminile prevalgono ad esempio nel caso di trattamenti ai superstiti (circa l’85,7%) e di prestazioni prodotte da “contribuzione volontaria”, solitamente di importo modesto a causa di bassi livelli contributivi; tutte ragioni per le quali spesso beneficiano di integrazioni al minimo (86,1%), maggiorazioni sociali (63,8%), importi aggiuntivi, quattordicesime mensilità e altre misure di matrice assistenziale a carico della fiscalità generale. Affermare dunque, con un’elementare operazione di divisione, che ricevono prestazioni inferiori agli uomini è sì corretto dal punto di vista formale ma non da quello sostanziale. Non si può dire che il sistema previdenziale italiano sia di per sé penalizzante nei confronti delle donne: le differenze di reddito pensionistico evidenziate dal Rapporto riflettono semmai l’andamento di un mercato del lavoro in progressivo miglioramento ma tuttora caratterizzato, soprattutto al Sud, da tassi di occupazione contenuti e livelli retributivi, e di carriera, poco favorevoli alle lavoratrici.
Come ricorda la pubblicazione, nel 2022 il tasso di occupazione per i lavoratori uomini 15-64 era del 69,2% degli uomini, contro il 51,1% registrato dalle donne; decisamente al di sotto della media nazionale il Mezzogiorno che vede le lavoratrici ferme al 34,4% (59,1% il tasso di occupazione maschile al Sud). Premesso che ormai da diversi anni l’età pensionabile è stata uniformata per entrambi i sessi, l’ordinamento italiano riserva in realtà ancora alla platea femminile qualche piccola agevolazione (dall’anzianità contributiva ridotta di un anno per la pensione anticipata passando agli “sconti” per le lavoratrici madri che accedono alla pensione di vecchiaia con il sistema contributivo) come compensazione di una maggiore difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare che, anche per ragioni storiche e culturali, si traduce in nastri contributivi più brevi e frammentati.
Si potrebbe senza dubbio fare meglio ma veicolare correttamente il tema è un primo passo per trovare le giuste soluzioni: misure e servizi per migliorare la condizione lavorativa femminile sono l’unico modo per superare le disparità tra i generi, anche in ambito pensionistico.
Michaela Camilleri, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali