Uno studio approfondito sui vini romani rivela aromi speziati e molto complessi, una grande bevibilità ma senza rendere brilli, merito dell’utilizzo di tipici contenitori di argilla. Tutte caratteristiche e tecniche che avvicinano i vini dell’Antica Roma a quelli prodotti all’epoca nel Caucaso e ancora oggi in Georgia. A fare l’insolita scoperta è un team di ricercatori dell’Università belga di Gand, le cui conclusioni sono state pubblicate sulla rivista “Antiquity”. “Ora pensiamo che producessero vini molto secchi, molto complessi, ma allo stesso tempo estremamente bevibili”, ha spiegato Dimitri Van Limbergen dell’Università di Gand. Gli archeologi hanno dimostrato che 2 mila anni fa gli antichi romani producevano vini deliziosi, tra cui una bevanda particolarmente pregiata color ambra che avrebbe avuto aromi di noci e spezie e una gradazione alcolica di circa l’11%. Il gusto caratteristico richiamava al pane tostato e alle noci, certamente sapori sconosciuti al bevitore moderno, ma soprattutto il vino in questione non lasciava sbornie. Una specificità che potrebbe aiutare a spiegare la passione dei romani per i banchetti lunghi e alcolici. “Se non tutto il vino consumato a Roma sarebbe stato buono, quello migliore sarebbe stato davvero molto buono”, hanno valutato i ricercatori. Due millenni dopo, pratiche molto simili sono sopravvissute nella Georgia moderna, dove già in tempi antichi si produceva un vino molto simile a quello dei romani. Un ruolo importante – e comune – nel processo di vinificazione è proprio il tipo di contenitore utilizzato sia dai romani che dai georgiani per la macerazione dell’uva. Nel mondo romano, si trattava di grandi vasi di terracotta chiamati dolia, che venivano sepolti durante la fase della fermentazione e successivamente per la conservazione e l’invecchiamento delle bevande. Allo stesso modo in Georgia nelle vecchie cantine del XII al XVI secolo sono stati ritrovati dei contenitori tradizionali ispirati alle navi – chiamate qvevri – usate nel Caucaso, in terracotta, molto simili a quelli degli antichi romani. “Nessuno studio aveva ancora esaminato attentamente il ruolo di questi vasi di terracotta nella vinificazione romana e il loro impatto sull’aspetto, l’odore e il gusto dei vini antichi”, ha sottolineato Van Limbergen. I romani seppellivano i loro dolia nel terreno, lasciando inizialmente i coperchi aperti durante la fermentazione, come riscontrato nei siti di Pompei e Boscoreale nella regione Campania e a Le Muracche, in Abruzzo. Ciò avrebbe conferito al vino romano aromi di pane tostato e noci che, a concentrazioni più elevate, potrebbe rendere evidente un gusto di fieno greco o leggermente piccante, “simile al curry”. A differenza dei contenitori metallici utilizzati nella moderna vinificazione industriale, i dolia di argilla erano porosi e permettevano al contenuto di reagire con l’ossigeno proveniente dall’esterno. “Il contatto con l’aria non gestito trasforma il vino in aceto, ma l’ossidazione controllata può dare come risultato ottimi vini poiché concentra il colore e crea piacevoli sapori erbacei, di nocciola e di frutta secca”, hanno precisato gli studiosi. In realtà il collegamento è ancora più stretto tra questi due mondi, distanti solo apparentemente. “I romani usavano lo stesso tipo di argilla, suggerendo di aver imparato allora dal trucco dei viticoltori del Caucaso”, ha assicurato Van Limbergen. I georgiani lo fanno ancora oggi e questo aiuta a incoraggiare la crescita di tipi di lievito che producono un composto chimico chiamato sotolone. L’argilla ricca di minerali utilizzata dai georgiani conferisce al vino anche una sensazione di “secchezza” in bocca. “Se guardi i vini georgiani di oggi, si possono bere senza, diciamo, grandi implicazioni in seguito. Non è del tutto chiaro come ciò avvenga, ma forse aiuta a spiegare l’ubiquità del vino nell’antica Roma”, ha concluso lo studioso belga. (AGI)
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