Annullato il decreto sulle fasce di reperibilità in malattia dei dipendenti pubblici


Le fasce di reperibilità dei dipendenti pubblici? Troppo lunghe e, conseguentemente, disallineate rispetto a quelle operanti nel lavoro privato: è annullato, quindi, il Decreto Ministeriale n. 206 del 17 ottobre 2017, emesso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, a firma del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione e del Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, pubblicato il 29 dicembre 2017 sulla Gazzetta Ufficiale n. 392, concernente il “Regolamento recante modalità per lo svolgimento delle visite fiscali e per l’accertamento delle assenze dal servizio per malattia, nonché l’individuazione delle fasce orarie di reperibilità, ai sensi dell’articolo 55-septies, comma 5-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
Così si è pronunciato il Tar Lazio, Roma, Sezione IV-ter, con sentenza 3 n0vembre 2023, n. 16305.
Si tratta dell’ennesimo flop e dell’ennesima illegittimità di una delle stagioni più devastanti per la disciplina del funzionamento della Pubblica Amministrazione, quella compresa tra il 2014 e il 2017.
I disastri normativi del governo Renzi sono quantitativamente quasi non enumerabili: quella stagione “vanta” una quantità industriale di riforme dichiarate incostituzionali, o comunque oggetto di annullamenti e, in ogni caso, anche quando (non si capisce perché) scampate ad incostituzionalità o annullamenti, dagli effetti semplicemente disastrosi e devastanti: è il caso della follia consistente nella riforma delle province (che comunque una bella reprimenda dalla Consulta l’ha subita).
Lo sciagurato quadriennio tra il 2014 e il 2017 altro non è stato l’approfondimento e l’avvitamento su se stesso del “brunettismo”; una maionese impazzita di provvedimenti di riforme sbagliate, incostituzionali e dannose, al comando di presunti “inchiestisti” della stampa generalista pronti a suggerire soluzioni assurde a problemi veri ed intrisa nel profondo di slogan infantili, tra cui ha primeggiato la “lotta ai fannulloni”.
Il DM 206/2017 è una delle tante disposizioni attuative della deleteria “riforma Madia”, che continua a mietere danni. Basti ricordare che i tantissimi problemi caricati sulle PA ai fini della gestione del salario accessorio sono il frutto del micidiale articolo 22, comma 3, di quel d.lgs 75/2017 che del disegno di riforma disposto con la legge 124/2015 è il “frutto” maggiore.
Quel DM altro non è stato, nella sostanza, se non della ripetizione a pappagallo appunto degli slogan sui “fannulloni”, con tanto di reiterazione delle norme risalenti al 2009 promosse dal “faro”, cioè l’inquilino di Palazzo Vidoni di quegli anni, che, tra le altre norme penalizzanti più la funzionalità della PA che i “fannulloni”, introdusse una disciplina complicatissima ed aberrante della malattia, tra cui la fissazione delle fasce di reperibilità dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18, mentre nel privato dette fasce sono ristrette agli orari 10-12 e 17-19.
Una delle tante disposizioni populiste, date in pasto appunto ad una popolazione molto propensa ad evasioni fiscali e contributive, ad abusi edilizi ed urbanistici, a trattamenti salariali in nero, ad occupazioni di immobili pubblici abusive o a canoni stracciati, a privilegi, a trucchi, la quale non può certo vedere troppo di buon occhio chi, lavorando nella PA, magari si ritrova ad attivare ruoli per il pagamento delle tasse, ad accertare nero ed evasioni, ad attivare sanzioni amministrative, a reprimere gli abusi, a chiedere canoni concessori di mercato e così via.
Sta di fatto, comunque, che nulla vieta al Governo di fissare per i dipendenti della PA regimi normativi e di trattamento particolari e specifici.
Nulla, tranne l’incoerenza. Perché quella stagione del 2014-2017, pur essendo nei fatti pienamente consonante al “brunettismo” si è sempre vista ed enunciata, invece, come il suo opposto. Infatti, come ricorda la sentenza del Tar Lazio, “In particolare, l’art. 18 del citato d.lgs n. 75 del 2017 ha novellato l’art. 55 septies del d.lgs n. 165 del 2001, introducendo il comma 2 bis, concernente la competenza dei controlli in capo all’INPS, con la previsione di apposite convenzioni per disciplinare il rapporto tra detto Ente e i medici di medicina fiscale, e modificando il comma 5 bis nel seguente modo: “Al fine di armonizzare la disciplina dei settori pubblico e privato, con decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sono stabilite le fasce orarie di reperibilità entro le quali devono essere effettuate le visite di controllo e sono definite le modalità per lo svolgimento delle visite medesime e per l’accertamento, anche con cadenza sistematica e ripetitiva, delle assenze dal servizio per malattia. Qualora il dipendente debba allontanarsi dall’indirizzo comunicato durante le fasce di reperibilità per effettuare visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi, che devono essere, a richiesta, documentati, è tenuto a darne preventiva comunicazione all’amministrazione che, a sua volta, ne dà comunicazione all’Inps””.
Ora, “armonizzare” in italiano significa far concordare tra loro più termini: colori, note, ricerche, valori, in modo da creare un unicum coerente.
Appare piuttosto chiaro che l’intento implicito della norma richiamata era, dunque, modificare l’assetto ordinamentale rispetto a quello del 2009: questo, infatti, introducendo la disciplina delle fasce di reperibilità quasi raddoppiata rispetto al lavoro privato aveva rotto ogni armonia tra i due ambiti; l’enunciazione del fine di “armonizzare” i due regimi avrebbe dovuto condurre, sul piano logico, ad una modifica delle fasce, che quanto meno avvicinasse i due regimi.
Correttamente il Tar afferma: “Va quindi verificato se esso [il DM attuativo cioè appunto il DM 206/2017] effettivamente dia attuazione alla richiamata norma primaria. Ed infatti la risposta a tale domanda consente di chiarire la fondatezza o meno del ricorso in epigrafe”.
Come facile intuire, la verifica dà un esito negativo. Continua il Tar: “Al riguardo è sufficiente leggere l’art. 3 del decreto per concludere nel senso della non idonea attuazione della suindicata norma di legge. In particolare, con riferimento al solo settore pubblico, le fasce orarie di reperibilità sono così indicate: 9-13 e 15-18, con obbligo di reperibilità anche nei giorni non lavorativi e festivi. Nulla è innovato rispetto al decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 206 del 2009, specificamente riferito solo ai dipendenti pubblici”.
Ecco il testo dell’articolo 3 del DM:
“1. In caso di assenza per malattia, le fasce di reperibilità dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono fissate secondo i
seguenti orari: dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18.
L’obbligo di reperibilità sussiste anche nei giorni non
lavorativi e festivi”.
Insomma, l’attuazione della previsione normativa non è in nulla rispettosa della previsione stessa. E’ come lo scorpione e la rana: per quanto si possano enunciare fini ed intenti diversi, se la natura è il brunettisimo, non si riesce ad agire e pensare in modo diverso. Continua il Tar: “In questo modo è evidente che non è stata assicurata l’armonizzazione della disciplina dei settori pubblico e privato, alla quale il decreto era chiamato, relativamente alle fasce orarie di reperibilità, che sono rimaste profondamente differenziate, in modo decisamente più penalizzante per i dipendenti pubblici”.
La sentenza richiama il parere del Consiglio di stato, che all’epoca si disse esplicitamente contrario al mantenimento della disarmonia tra fasce di reperibilità nel pubblico e nel privato, affermando di condividerne le conclusioni. Ovviamente, la coazione a reiterare leggi e provvedimenti inefficaci, dannosi ed illegittimi di quegli anni portò a non tenere in alcuna considerazione il parere del Consiglio di stato.
Il Tar, sulla base della conclamata violazione del fine dell’armonizzazione e della conseguente permanenza di regimi molto differenziati tra pubblico e privato, chiosa: “La mancata armonizzazione ha altresì determinato una disparità di trattamento tra settore pubblico e settore privato, a parere del Collegio, del tutto ingiustificata, considerato che un evento come la malattia non può essere trattato diversamente a seconda del rapporto di lavoro intrattenuto dal personale che ne viene colpito. Ne è quindi derivata la violazione dell’art. 3 Costituzione, non essendo rispettato il principio di uguaglianza.
Il mantenimento delle differenziate fasce orarie, con una durata complessiva, per il settore pubblico, quasi doppia rispetto a quella del settore privato (7 ore a fronte di 4 nell’arco di una giornata) è indicativo anche di uno sviamento di potere: la stessa motivazione addotta dall’Amministrazione nell’interlocuzione con il Consiglio di Stato (il mancato allineamento delle fasce di reperibilità per il settore pubblico a quelle del privato è dovuto ad una minore incisività della disciplina dei controlli) è una dimostrazione del fatto che si parte dall’idea che per il settore pubblico servano controlli rafforzati. Tali controlli ripetuti, associati ad una restrizione delle ipotesi di esclusione dall’obbligo di rispettarle, sembrano piuttosto diretti a dissuadere dal ricorso al congedo per malattia, in contrasto con la tutela sancita dalla Carta costituzionale dall’art. 32”.
La sentenza è durissima: di fatto, stigmatizza l’utilizzo del potere normativo come risposta populista a pulsioni populiste, come “giocattolo” mediatico, tipicamente vestito all’esterno di intenzioni totalmente smentite dal contenuto reale.
Pare di risentire le similari dichiarazioni sul “licenziamento in 24 ore” dei “furbetti del cartellino” all’indomani del caso Sanremo: anche in questo caso, le riforme pensate si sono dimostrate talmente inefficaci che a Sanremo con estrema difficoltà delle decine di dipendenti licenziati, solo un terzo circa di fatto è rimasto privo di una sentenza che abbia ribaltato gli esiti.
E dunque? Il Tar annulla: “Le considerazioni svolte nella presente disamina conducono all’accoglimento del gravame, con conseguente annullamento in parte qua del provvedimento che ne costituisce l’oggetto”. Quindi, l’articolo 3 del DM 206/2017 è annullato erga omnes, per tutti: non si tratta di sentenza facente stato solo tra le parti.
Spiega il Tar: “Stante l’effetto conformativo riconosciuto alla sentenza, nell’adozione del nuovo decreto non potrà non tenersi conto di quanto affermato nel presente provvedimento”. Insomma, si attende un nuovo decreto. Nel frattempo, le PA è bene si conformino esse stesse alla sentenza, perché, si ribadisce, essa annulla l’articolo 3 del DM, che quindi cessa di produrre effetti per tutti. Ma è da aspettarsi, senza ergersi a profeti, ravvicinati contrasti interpretativi ed applicativi e l’insorgere di ulteriore contenzioso, a meno che non si intervenga con urgenza a turare la falla.
Di Luigi Olivieri – fonte: https://leautonomie.it/