Di Laura Guarino
Personalità complessa e poliedrica, Anna Banti sfugge a ogni tentativo di definizione. Animata dalla passione per l’espressione artistica in tutte le sue forme ha vestito i panni della storica dell’arte, della scrittrice, della critica letteraria, teatrale, cinematografica e della traduttrice. In particolare, è stata autrice di sette raccolte di racconti, di nove romanzi e di numerosi interventi saggistici apparsi sulla rivista «Paragone», che ha fondato nel 1949.
La sua storia inizia con il nome di Lucia Lopresti, nata a Firenze il 27 giugno 1895 da Gemma Benini, originaria di Prato, e dal calabrese Luigi-Vincenzo Lopresti. Figlia unica, sarà sempre molto legata ai genitori da cui riceverà un’educazione libera, la possibilità di operare autonomamente le proprie scelte e di viaggiare.
Trascorre gli anni dell’infanzia a Bologna e, nel 1905, la famiglia si trasferisce a Roma dove a scuola, per il suo carattere indipendente, si conquista la fama di “signorina strana, femminista”. In terza liceo, avviene l’incontro che le cambia la vita: quello con la storia dell’arte e con il professore Roberto Longhi, di cui si innamora:
Ti ho sempre voluto bene – anche quando non avrei dovuto, anche quando ti volevo odiare perch’eri arrivato a una cosa che ritenevo impossibile – innamorare Lucia Lopresti.
È l’inizio non solo di un grande amore, ma anche di uno straordinario sodalizio intellettuale che durerà tutta la vita.
Una volta conseguita la laurea in Lettere, Lucia sposa Roberto nel 1924. Dopo il matrimonio matura una decisione importante: abbandonare la storia dell’arte per dedicarsi alla scrittura. Longhi è un critico affermato e lei decide di inseguire il successo in un altro campo, con le proprie forze. Nel 1930, attraverso la pubblicazione del racconto Barbara e la morte su «La Tribuna», nasce quindi Anna Banti, lo pseudonimo scelto per intraprendere la sua avventura letteraria: “il mio vero nome, quello che non m’è stato dato dalla famiglia né dal marito”.
La scrittura rappresenta il mezzo per raggiungere l’indipendenza economica e vi si dedica completamente, esordendo anche nella critica con alcune recensioni. Intanto lavora al primo romanzo, Itinerario di Paolina, pubblicato nel 1937, seguito dalla raccolta di racconti Il coraggio delle donne, del 1940. Fin dalle prime opere emergono i temi che caratterizzeranno tutta la produzione successiva: l’interesse per la condizione femminile e lo scavo psicologico.
Sul piano personale si tratta di anni importanti, che la portano a stringere una forte amicizia con la scrittrice Maria Bellonci e con altre personalità femminili della scena letteraria italiana, come Gianna Manzini, Alba de Céspedes e Sibilla Aleramo. Gli epistolari privati e le carte d’archivio documentano, infatti, intensi rapporti di scambio umano e professionale.
La realtà della guerra arriva a interrompere la sua attività a partire dal 1943. È un periodo difficile, durante il quale perde le bozze di due romanzi, Artemisia e Storia di famiglia, a causa dei bombardamenti:
No, Mariolino [Maria Bellonci], non ho recuperato i miei manoscritti, non li riavrò mai più. Non solo “Artemisia” e l’altro romanzo, ma tutto, tutto quello che avevo scritto, da tanti anni, abbozzi, racconti finiti e non finiti, tutto, tutto.
Dopo la guerra riprende a scrivere, sia per bisogno che per passione. Utilizza, infatti, la scrittura per raccontare le tragiche esperienze recenti, nel modo che le è consono, attraverso il filtro della storia. L’ambientazione nel passato si configura come un modo diverso e più efficace di raccontare il presente, tanto che il libro perduto, Artemisia, si trasforma da narrazione storico-biografica in romanzo, in cui la voce della pittrice seicentesca si intreccia con quella dell’autrice, circondata dalle macerie di Firenze.
L’opera viene pubblicata nel 1947, seguita dalla raccolta Le donne muoiono, in cui vedono la luce alcuni dei testi più celebri come Lavinia fuggita e il racconto di ambientazione fantastorica che dà nome al libro. La vicenda ambientata nel futuro si svolge a Valloria, sorta dalle rovine dell’antica Venezia. Qui ha improvvisamente inizio uno strano fenomeno: gli uomini cominciano a ricordare eventi di una vita passata, mentre le donne sono escluse da questo privilegio. Il racconto ha una valenza allegorica e si configura come denuncia della mancanza di memoria del passato femminile, prodotto della tradizionale esclusione delle donne dai libri di storia: le donne “muoiono” e di loro non resta traccia.
Sono queste le opere con cui la scrittrice raggiunge il successo e la piena maturità artistica. Infatti, prende forma compiuta in questo periodo l’originale poetica della storia che caratterizza la sua produzione. Tra il 1951 e il 1956 appaiono sulle pagine di «Paragone» alcuni dei suoi saggi più importanti – Romanzo e romanzo storico, Ermengarda e Geltrude, Manzoni e noi – che spiegano l’importanza della collaborazione tra storia e narrativa: l’immaginazione dello scrittore può aiutare a colmare le lacune della ricerca documentaria e a portare alla luce una verità smarrita. In questo modo è possibile offrire una nuova voce a coloro che la storia ha trascurato e dimenticato, in particolare alle donne. Sono in parte queste le ragioni dell’attenzione critica che Anna Banti riserva alla letteratura femminile, testimoniata dai tanti interventi dedicati ad autrici come Matilde Serao, George Sand, Katherine Mansfield, Virginia Woolf e alle scrittrici contemporanee.
Tra gli anni Cinquanta e i turbolenti anni Sessanta, la sua produzione si caratterizza per un grande realismo e per un carattere di denuncia, con opere come Il bastardo, Allarme sul lago, Le mosche d’oro e la raccolta di racconti La monaca di Sciangai. Viene però maturando un cambiamento: prende progressivamente le distanze da un femminismo violento e rivendicativo, credendo fermamente che solo attraverso la collaborazione tra i sessi sia possibile operare un reale mutamento. Appartengono agli anni Sessanta, inoltre, anche il romanzo di ispirazione risorgimentale Noi credevamo, la raccolta Campi Elisi e la biografia di Matilde Serao.
Intanto vive a Firenze, spostandosi tra Roma e Venezia, ma soffre per la solitudine e per le preoccupazioni dovute alla salute del marito, alla perdita dei genitori e alla difficile sopravvivenza di «Paragone», minacciata dal Ministero della P.I. per il suo indirizzo “spregiudicato” e dalle rivalità tra le redazioni romana e fiorentina. Inoltre Anna Banti, sensibile e schiva, non si trova a suo agio nel mondo dei salotti letterari, in particolare quello romano dell’amica Maria, sede del Premio Strega, e la sua timidezza viene scambiata per scontrosità. I rapporti tra le due scrittrici si diradano con grande sofferenza, come ricorderà nel racconto De amicitia:
Dovunque si festeggiava follemente in un continuo incrociarsi di abbracci effimeri […] si teneva in un angolo intervenendo raramente e, senza accorgersene, rimpiangendo i colloqui a due dei passati tempi, impossibili ormai a rinnovarsi.
Nel 1970 la sua vita viene sconvolta dalla morte del marito e, ancora una volta, si rifugia nel lavoro per sfuggire al dolore. Si dedica così alla cura della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte nata per desiderio di Longhi e alla pubblicazione delle sue Opere Complete e degli inediti. Inoltre, pubblica le raccolte Je vous écris d’un pays lointain, Da un paese vicino e il romanzo La camicia bruciata; traduce Colette e Jane Austen e cura il volume di Defoe per la collana Meridiani. Nel 1971, all’età di settantacinque anni, attraversa il Portogallo in macchina, accompagnata da Fausta Garavini, per studiare la pittura del paese e avverare il desiderio irrealizzato del marito.
La sua carriera di romanziera si conclude nel 1981, quattro anni prima di spegnersi a Ronchi, con l’opera di spunto autobiografico Un grido lacerante in cui si volta indietro, ma solo per confermare i passi percorsi:
Si sapeva che lei amava la storia e a volte glielo rimproveravano: ma, pensava, la sua storia era in continuo movimento, non quella fissata dalla tradizione e inchiodata dai documenti. Presente e passato sono un istante da catturare e stringere come una lucciola nella mano. Non ci riesce chi vuole.
Fonte: Enciclopedia delle donne