Di Rossana Kaminskii fonte@enciclopediadelledonne.it
Anna Andreevna Gorenko nacque a Bol’šoj Fontan, l’11 (o il 23) giugno 1889, nei pressi di Odessa, terzogenita di cinque figli. Il padre Andrej Antonovich Gorenko era ingegnere navale. La madre, Inna Erazmovna Stogova, discendeva come il padre dalla nobiltà russa, era sensibile, dagli occhi chiari, dotata di “una bontà che, a quanto pare, / io ho ereditato da lei / vano dono alla mia vita crudele”.
Il suo primo verso riuscito fu lo pseudonimo. “Un verso memorabile nella sua acustica inevitabilità […] le cinque A di Anna Achmatova collocarono la titolare di questo nome in testa all’alfabeto della poesia russa” (Brodskij).
Sul vero cognome, il padre pose un veto: “quando venne a sapere delle mie poesie, mi disse: ‘non infangare il mio nome’. ‘Non so che farmene del tuo nome’ gli risposi”. Decise di chiamarsi con il cognome tataro di una principessa antenata che sposò Khan Akhmat, discendente di Gengis Khan.
La famiglia si trasferì a nord, a Carskoe Selo, Villaggio dello Zar, non lontano da San Pietroburgo, quando Anna Achmatova aveva undici mesi e lì restò a vivere fino ai suoi sedici anni. Carskoe Selo era un luogo speciale: per il palazzo reale azzurro, bianco e dorato costruito dal Rastrelli per Caterina II, con il parco disseminato di statue ispirate alla mitologia classica, e perché aleggiava ancora lo spirito di Puškin che lì aveva frequentato il liceo. Carskoe Selo in inverno, la Crimea in estate: “Una infanzia pagana. […] Ricevetti l’appellativo di ‘ragazzina selvaggia’ perché camminavo scalza, vagavo senza cappello e così via, mi tuffavo dalla barca in mare aperto…”.
Imparò a leggere sui libri di Tolstoj. A cinque anni parlava perfettamente il francese. A undici scrisse la sua prima poesia. I suoi genitori si separarono nel 1905. Lei seguì la madre e i fratelli a Evpatorija, sulle rive del Mar Nero, dove terminò il liceo. A Kiev s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Trascurava le materie giuridiche per scrivere poesie.
Aveva occhi chiari grigio-verdi, naso particolare, frangetta scura, portamento fiero, gambe lunghissime, un metro e ottanta di altezza. Era bella e ne era consapevole: “Io ho indossato la gonna stretta / per apparire ancora più snella”.
Nel Natale del 1903 conobbe il giovane poeta Nicolaj Gumilëv, che le fece una corte serrata e che tentò il suicidio dopo diverse proposte di matrimonio rifiutate. Per sfinimento Anna lo sposò nel 1910. Nessuno dei familiari presenziò alla cerimonia. Il viaggio di nozze fu a Parigi dove conobbe Amedeo Modigliani, ancora sconosciuto. Egli la ritrasse più volte a memoria, regalandole i disegni, la maggior parte dei quali andò dispersa.
Dopo averla sposata, Gumilëv perse la passione per lei e se ne andò in viaggio per sei mesi da solo in Africa. L’Achmatova si rifugiò a Parigi nell’amicizia con Modigliani. Una volta non lo trovò nel suo studio. Gli aveva portato un mazzo di rose in regalo. Allora lanciò le rose una a una attraverso una finestra aperta al primo piano. Modigliani pensò che fosse riuscita a entrare nella stanza tanto le rose erano disposte armoniosamente sul pavimento. Nel Giardino del Lussemburgo i due amici leggevano e recitavano a voci alterne le loro poesie preferite di Verlaine, Laforgue, Mallarmé, Baudelaire. All’artista italiano dispiaceva di non poter leggere in russo le poesie dell’amica.
A Pietroburgo, Anna Achmatova cominciò a frequentare i corsi di letteratura, fece parte della Corporazione dei poeti, il gruppo acmeista fondato e guidato dal marito. Fra loro trovò un amico in Osip Mandel’štam. Scrisse su «Apollon», la rivista letteraria del movimento. La novità dell’acmeismo stava nella rottura con il simbolismo imperante sia nei temi, sia nello stile e nella scelta di semplicità e concisione. Gli acmeisti si ritrovavano in un caffè cabaret chiamato Cane Randagio.
Compose la prima opera, La sera, nel 1912. L’edizione limitata a trecento copie fu subito esaurita ricevendo numerose recensioni positive. Seguì Rosario nel 1914. Fu popolarissima fin dal suo esordio, famosa anche per le letture pubbliche dei suoi versi dai quali traspariva una nuova educazione sentimentale, una nuova versione dei temi universali dell’amore e dell’eros. Erano brevi componimenti di metro classico, sobri, facilmente memorizzabili. Migliaia di donne iniziarono a comporre poesie imitando il suo stile, facendole scrivere divertita a posteriori: “Io ho insegnato alle donne a parlare / mio Dio, ma come obbligarle a tacere?”.
La prima produzione poetica descrive la relazione di un uomo e una donna, durante la passione iniziale ma soprattutto quando si spegne, “l’amata chiede molte cose / la disamata nulla chiede”, in una sequenza che evoca il diario, e una distillata ricerca di parole e frasi essenziali, in cui i sentimenti sono espressi attraverso gesti o oggetti quotidiani: “Solo in una stanza da letto le candele / ardevano di un lume indifferente e giallo”. L’amore sembra qui incrinarsi. Un amore sicuramente già consumato, non fermo all’innamoramento casto.
Un aneddoto apocrifo riporta che Vjačeslav Ivanov, esponente principale del simbolismo, dopo aver udito l’Achmatova leggere una poesia, quella dei versi più noti, Il canto dell’ultimo incontro, dove il turbamento del cuore si esprime attraverso un unico gesto: “Infilai nella mano destra / il guanto della sinistra”.
Un amore che sa ricordarsi felice: “Dalla felicità io non guarisco”. Con uno sguardo ironico sulle esperienze passate: “Hai tardato molti anni, / pure io ti accolgo felice . […] / Perdona, perdona quei troppi / scambiati per te”. E altrettanto sul presente: “Dimmi pure svergognata, / scagliami i tuoi sarcasmi, / sono stata la tua insonnia, / la tua angoscia sono stata”.
Una poesia terrena, terrestre. Victor Šklovskij la definì “un raggio di sole penetrato in una stanza buia”.
Nei libri Lo stormo bianco (1917), Piantaggine (1921), Anno Domini MCMXXI (1922) si approfondisce un tono di preghiera, già presente fin dagli inizi: “Ho appreso a vivere semplice e saggia / a guardare il cielo, a pregare Iddio”. La poesia si tende anche in verticale, non solo in orizzontale. Non poteva esserci completa consapevolezza dell’incupirsi della Storia: “Veramente nessuno sa in che epoca viva. Così anche noi, all’inizio degli anni Dieci, non sapevamo di vivere alla vigilia della prima guerra europea e della Rivoluzione di ottobre”.
Quando ebbe inizio la Grande Guerra, “invecchiammo di cent’anni, e accadde / nel corso di un’ora sola”. Poi arrivò la Rivoluzione, i tempi degli acmeisti erano finiti: “Sì, li ho amati quei raduni notturni: / i bicchieri ghiacciati sparsi sul tavolino, l’esile nube fragrante sul nero caffè, / l’invernale, greve vampa del caminetto infocato, / l’allegria velenosa dei frizzi letterari / e il primo sguardo di lui, inerme e angosciante”.
Nel 1912 nacque Lev, il suo unico figlio. Il matrimonio con Gumilëv finì nel 1918. Si risposò con l’assiriologo e poeta Šilejko, ma andò male anche questa unione. Si legherà successivamente al critico d’arte Nikolaj Punin, fino al 1938. Sia prima della rottura, sia dopo, vissero insieme all’ex moglie e figlia di lui nella casa della Fontanka, oggi Museo. Punin fu ripetutamente arrestato fino a morire in un gulag nel 1953. Molti artisti, fra cui Marina Cvetaeva, emigrarono, mentre l’Achmatova, come Pasternak, non lasciò mai il suo paese: “una voce mi giunse. Suadente / mi chiamava, diceva: / Vieni qua, / lascia il paese sordo e peccatore, / lascia la Russia per sempre. / […] / Io mi tappai le orecchie con le mani, / perché l’indegno discorso, / non profanasse l’anima dolente”.
Pur non condannando mai le scelte altrui, non poteva andarsene: non solo per l’affezione alla lingua russa, ma per evidenti motivi e legami familiari. Restò fedele al suo paese e ai suoi amici. Nel 1936 andò a trovare coraggiosamente Mandel’štam al confino a Voronež, “ma nella stanza del poeta in disgrazia / vegliano a turno la paura e la Musa. / Ed una notte avanza / che non conosce aurora”.
Non fu mai arrestata, forse perché era troppo famosa, forse perché considerata ancora utile politicamente. I suoi versi non erano mai stati dimenticati, anzi erano diffusissimi attraverso copie manoscritte. Fu chiamata a parlare dalla radio nazionale alle donne dell’assedio di Leningrado. Venne colpita negli affetti più cari: “Questa donna è malata, / questa donna è sola, / morto il marito, in carcere il figlio, / pregate per me”.
Fin dalla prima infanzia il figlio era stato affidato alla nonna paterna. Come madre l’Achmatova si rimproverò sempre questa scelta che le era stata fatta apparire come obbligata e che sarà la rovina dei rapporti con il figlio e della propria salute. Lev fu imprigionato diverse volte nel periodo delle grandi purghe staliniane, fino alla condanna nel 1949 a quindici anni di lavori forzati. Fu liberato nel 1956.
La colpa di Lev era di essere figlio di suo padre. Lev faceva sentire in colpa la madre con il continuo sospetto di non fare mai abbastanza per lui. Invece lei, per salvare la vita a suo figlio, arrivò a scrivere versi di ossequio al regime nel 1950, salvo poi non farli più inserire nelle riedizioni delle sue opere. Lev non immaginava il dolore di sua madre, rinchiuso in prigione come dentro la propria sofferenza. Achmatova faceva lunghe code per lasciare a Lev pacchi di viveri e vestiti, in fila con altre donne che aspettavano di poter fare lo stesso. Se il pacco era accettato, era segno che il prigioniero era vivo. In caso contrario era sicuramente deceduto:
Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi ‘riconobbe’. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro me e che, sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì parlavano sussurrando):
‘Ma questo lei può descriverlo?’
E io dissi:
‘Posso’.
Allora una specie di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.
Attraverso il ciclo Requiem la poesia di Achmatova assume consapevolmente il compito di essere testimone assieme a un intero popolo sofferente: “no, non sotto un cielo straniero, / non al riparo di ali straniere: / io ero allora col mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era”. Ancora di più rispetto al passato, sentiva di poter essere la voce di tutti: “Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato, / il riflesso del vostro volto, / i vani palpiti di vane ali… / fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi”. […] “Io vi vedo, io vi ascolto, io vi sento”.
Nel 1941 a Mosca incontra Marina Cvetaeva , che la chiamava “Anna di tutte le Russie” e che la difese sempre da chi le voleva in competizione. Il loro incontro durò fino a notte fonda in casa di amici, che portavano loro cibo e vivande senza mai interrompere la conversazione. Nello stesso anno, per via dell’invasione tedesca, Achmatova assieme ad altri intellettuali fu trasferita in Uzbekistan, messa in salvo come i quadri dell’Ermitage. Ritornò a Leningrado nel 1944.
Nel 1945, ricevette una prima visita in casa di Isaiah Berlin, allora segretario dell’ambasciata britannica, conversando con lui tutta la notte. Nel 1946 ne ricevette una seconda. La conseguenza fu l’espulsione dall’Unione degli scrittori, poiché “residuato della vecchia cultura aristocratica… ora monaca, ora sgualdrina o, piuttosto, insieme monaca e sgualdrina in cui la dissolutezza si mescola alla preghiera”: così fu condannata dal potente “Ždanov” sulla «Pravda» nel 1946.
Privata della tessera alimentare viveva del cibo che gli amici le passavano; il figlio non può laurearsi. Il regime comunista non le fece più pubblicare nulla di veramente suo dal 1922. Non smise mai di scrivere “uno stormo di versi bruciati”, ma fu una morte civile, una condanna all’isolamento e al silenzio. Solo nel 1940 furono stampate le raccolte Il Salice e I sei libri, una scelta delle sue poesie. L’ostracismo arrivò fino agli anni Sessanta. Le poesie di Requiem furono imparate a memoria dalle amiche Lidija Čukovskaja, Nadežda Mandel’štam, Emma Geršteijn.
Achmatova si mantenne traducendo moltissimo, fra gli altri Victor Hugo, Rabindranath Tagore, Giacomo Leopardi. Su Puskin scrisse dei saggi ancora oggi considerati rilevanti. Agli inizi degli anni Quaranta cominciò il Poema senza eroe. Vi lavorò per più di vent’anni e uscì parzialmente solo nel 1962. Gli ultimi lavori non furono mai pubblicati integralmente finché fu in vita, nonostante la riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1955.
Ricordò gli amici scomparsi, per lo più tragicamente, non per mera commemorazione, nella raccolta Un serto ai morti. Anna Achmatova crea e appartiene a questa costellazione di poeti e ne scrive come se fossero vivi, ancora presenti: “c’è un ramo fresco e scuro di sambuco… / è una lettera di Marina”.
Nel 1956 le fu assegnata una dacia a Komarovo, una colonia per scrittori nella campagna vicino Leningrado. Là amava frequentare giovani poeti come Eugenio Rein e il futuro premio Nobel Iosif Brodskij.
Nel 1964, anche se malata, fu autorizzata a partire per l’estero per ricevere il premio poesia Etna-Taormina e nel 1965 la laurea honoris causa all’Università di Oxford, dove reincontrò Berlin.
Nel 1965 fu edito La corsa del tempo, il meglio della sua produzione poetica. Continuava a scrivere versi, “in essi il mio legame con il tempo, con la nuova vita del mio popolo”.
Nella primavera del 1966 ebbe un ennesimo attacco di cuore e fu ricoverata in ospedale. Morì a Domodedovo, un sobborgo di Mosca, il 5 marzo. Si tennero due affollati funerali, uno a Mosca, uno a Leningrado. Fu sepolta a Komarovo.