America2020: "Vi racconto Joe Biden e gli altri". Cafe Milano, la tavola rotonda dei presidenti


AGI – “This Town” è un libro del 2013 che parla di persone potenti che abitano in una città che è il teatro della potenza. “This Town” è Washington DC, capitale degli Stati Uniti d’America, ribattezzata da Donald Trump “The Swamp”, la palude. Dopo quattro anni di vai e vieni tra il numero 1600 di Pennsylvania Avenue e Mar-a-Lago, The Donald è scivolato dentro la palude, ha combattuto, è ancora là, cammina da solo nella West Wing e si chiede come sia stato possibile perdere, non si schioda dalla Casa Bianca, ma i giochi sono fatti, l’elezione è andata, bye Don.

Ha ordinato cause legali, riconteggi, consegnato la valigetta da Sherlock Holmes a Rudy Giuliani e messo in piedi il circo della “rigged election”. Trump non è un politico, se ne è sempre fatto vanto, ma se lo fosse stato, avrebbe capito che la sua sconfitta non è arrivata in quel di Filadelfia e Atlanta, ma proprio là dove si fanno e disfano le carriere politiche, in “This Town”. Trump ha perso perché non ha capito questa città e il suo train de vie, la sua sacra e cinica liturgia, Washington.

“This Town”, scritto da Mark Leibovich, penna sulfurea del New York Times, è irriverente, divertito e divertente. E non ha un indice dei potenti. L’autore perfidamente non lo compilò e avvisò i naviganti: per vedere se siete in pagina, dovrete leggere il libro.

Nell’ultimo capitolo, “L’epilogo”, compare il nome di un ristorante di Georgetown, Cafe Milano. È uno dei luoghi dove si apparecchia il rito dei potenti. Edizione americana di Penguin, pagina 361, vigilia dell’Inauguration Day, secondo mandato di Barack Obama, anno 2013, metà gennaio, sembra un secolo fa, tutti al Cafe Milano. John Kerry e Colin Powell, Eva Longoria e David Axelrod, c’è pure Harvey Weinstein, allora il potente di Hollywood, prima di finire nella polvere di stelle cadenti.

Tutte le strade portano a Cafe Milano

Se vuoi “vedere” e cogliere lo spirito di Washington, devi stare al tavolo del Cafe Milano. Il suo inventore si chiama Francesco Nuschese, un italiano con l’accento campano-washingtoniano, lo sguardo svelto di chi coglie il guizzo, tra un suo silenzio e l’altro s’intuisce il romanzo. “Franco” è il passepartout per aprire molte porte di Washington, tutte le strade portano al Cafe Milano, anche se vai contromano.

La sua tavola è imbandita di racconti, non ha solo visto passare la storia degli ultimi trent’anni d’America, l’ha vissuta, ne ha gustato il dolce e l’amaro in un modo che pochi conoscono, mai davanti, mai dietro, sempre in mezzo. Una storia che abbiamo incrociato come una volpe rossa una sera a Washington, un dialogo che non era fissato in agenda, nato durante una cena nel suo locale, un tocco fugace di glamour in una cavalcata pazza, una campagna presidenziale d’asfalto, kerosene e inchiostro. Arriva al tavolo, si presenta come una paginata di Ian Fleming, “Nuschese, Franco Nuschese”. Così decolla il tappeto volante di una biografia da self made man che è una trama fitta di talento e volontà.

Il capitolo americano di Franco Nuschese comincia nei primi anni Ottanta, Las Vegas, Caesars Palace, un nome che evoca chemin de fer e boxe, l’azzardo al tavolo da gioco e l’uppercut sul ring calcato dai più grandi, “Sugar” Ray Leonard contro “Marvelous” Marvin Hagler, che tempi, quando la boxe era boxe. “All’improvviso, arriva una telefonata: apri un ristorante a Washington”. La vita è fatta così, il gong all’improvviso, hai vinto oppure sei al tappeto con l’arbitro che fa il countdown. Nuschese aveva vinto. Ma ancora non lo sapeva.

Il Cafe Milano apre il sipario nella capitale 28 anni anni fa, la giostra s’accende insieme alla presidenza di Bill Clinton, anno 1992. Un altro mondo, Bill apriva il ciclo della seconda globalizzazione con Tony Blair a Downing Street (la prima fu di Ronald Reagan e Margaret Thatcher) e si chiudeva la prima Guerra nel Golfo. Dice Hillary Clinton che il Cafe Milano è importante per la cucina, ma sono più importanti le relazioni… “Washington è il cuore della politica americana, le relazioni sono importantissime, al Cafe Milano si viene per incontrare, finalizzare qualche deal importante”, dice Nuschese aprendo lo scrigno dei ricordi.

Anche il prossimo presidente, Joe Biden, qui è come nel Lord Jim di Conrad, uno dei nostri. “Biden, un cliente abituale, ho avuto il privilegio di stare a cena a casa sua durante le feste di Natale quando era vicepresidente. È un gentiluomo, il classico senatore americano, cattolico, si è sempre dedicato alla famiglia, persona stupenda, molto umile, si è sempre ricordato di tutti, abbiamo fatto delle feste private nel passato, con lui e la sua famiglia”.

Presidenti diversi

Il presidente giusto per una transizione politica dopo la presidenza Trump? “Io direi di sì, con la differenza che Trump non veniva dal mondo politico, mentre il futuro presidente è stato nel Senato per più di 40 anni e penso che questo lo aiuterà”. Il presidente è il Commander in Chief, la sabbia che scorre nella clessidra è guerra e pace, una cronaca senza Tolstoj: “Io mi ricordo”… Nuschese entra in una dimensione che corre indietro e sembra di vederlo, in un’America che andava verso un’era di crescita senza le bare imbandierate che tornano a casa: “…mi ricordo che quando arrivò Clinton, venivamo dal periodo di Bush padre, c’era stata la Guerra del Golfo. Mi ricordo… i bar erano strapieni, la gente beveva, non ho mai capito se bevevano perché stavano celebrando o perché erano arrabbiati. C’è stato un grandissimo cambiamento. Anche quando è arrivato Obama, venivamo ancora una volta da una guerra, c’era stato l’11 settembre, un afroamericano alla presidenza per la prima volta nella storia”. Anche Obama fa parte dell’album di famiglia. “La prima volta venne qui con la moglie per celebrare il suo compleanno, poi ancora per la laurea delle figlie. Bellissima coppia. Obama ha lavorato per essere il presidente di tutta l’America. Ci ha provato, con l’America conservatrice non è un messaggio semplice”.

Il vai e vieni tra passato, presente e futuro. Più che ai fornelli, sembra di stare in un archivio storico di Capitol Hill e poi improvvisamente dentro uno di quei think tank dove si fanno scenari per il domani che poi diventano ieri. “I Clinton, certo, poi John Kerry, che conoscevo da anni, veniva spesso, fin da quando era senatore”. Ieri, oggi, domani.

Il futuro di Trump? È sempre biondo: “Ivanka ha molte ambizioni, penso che nel prossimo decennio potrebbe essere una candidata per il partito, molto simpatica e intelligente”. Più che un ristorante, un luogo dove si impacchettano i provvedimenti del Tesoro. “Il segretario Steve Mnuchin, uno in gamba, mi dice sempre: passo più tempo di te al Cafe Milano”. Tutti dentro, democratici e repubblicani, Franco è bipartisan. Solo quello che parte dalla cucina è partisan, un inno allo stile italiano. Qui le linguine sono “Moschino”, gli spaghetti sono “Kiton”, i ravioli “Cavalli”, le tagliatelle “Zegna”, i rigatoni “Prada”, i risotti per la cena sono due, “Armani” e “Versace”, gli Ndunderi – la pasta di Minori, il paese della Costiera Amalfitana dove è nato Franco – sono rigorosamente “Marinella”.

Il foulard dunque non può essere altro che quello di Nancy Pelosi, origini italiane, “la sua famiglia è di Baltimora, la conosco benissimo, californiana, simpaticissima”. Come Mike Pompeo, avi d’Abruzzo e “ceeertooo, uomo colto, intelligente, ha fatto un grande lavoro al Dipartimento di Stato”. Se c’è Nancy, non può mancare sul palcoscenico Mitch the Knife. “Mitch McConnell, ha rivinto, è un amico di nostri clienti, anche la moglie viene da noi”. Pelosi, appena riconfermata Speaker della Camera, McConnell, il sergente dei repubblicani al Senato, saranno ancora loro a aprire e chiudere le danze del Congresso.

Aggiungi un posto a tavola

Aggiungi un posto a tavola, Franco li mette tutti insieme, in un’era di divisione profonda dell’America è un’eccezione. “Perché no? Ci proviamo. Molti vanno nel campo da golf, ma a tavola con un bicchiere di vino, è più facile”. Saliamo sulla macchina del tempo, torniamo indietro, George Bush figlio, un’altra guerra, un momento storico di fortissima tensione: “Bush, anche lui è venuto da noi, ma chi veniva spesso era la moglie, la signora Laura. Lui lavorava moltissimo, e come Trump non beveva. Venne sia da governatore del Texas che da presidente. Era accompagnato dal grande James Baker”.

Tutti in piedi. James Addison Baker III, “The Man Who Ran Washington” (titolo della splendida biografia scritta da Peter Baker e Susan Glasser, appena uscita per i tipi della Doubleday), il più grande segretario di Stato americano dopo Henry Kissinger, l’uomo che fece la fortuna di quattro presidenti, il figlio di un’aristocratica famiglia texana che divenne la macchina politica di Washington, eleganza innata, intuito, un misto di caldo e freddo, diplomatico esprit de finesse, il cocktail ad alta gradazione che ti lascia il retrogusto perfetto. A Franco vengono quasi i lucciconi: “Era il mio idolo”.

I ricordi s’illuminano come un bengala negli occhi di Nuschese: “È stato un momento… specialmente con il primo mandato, con l’11 settembre, è stato molto difficile, s’è scatenata tutta la politica estera del Medio Oriente, il Congresso e il Senato, il Pentagono, erano tutti molti tesi. IL capo di Stato maggiore, il generale Pace, è un mio amico”. Peter Pace, classe 1945, corpo dei Marines, un’altra figura che racconta un’Italia che non è quella in cronaca di questi tempi, genitori di Noci, provincia di Bari, studi alla prestigiosa accademia navale di Annapolis, primo capo di Stato maggiore proveniente dai Marines nella storia degli Stati Uniti. Un italo-americano a capo delle forze armate americane dall’ottobre del 2001 all’ agosto del 2005, con due guerre (Afghanistan e Iraq) e un’amministrazione che voleva essere isolazionista e si ritrovò tra le montagne di Tora Bora e le rive dell’Eufrate, la caccia a Osama Bin Laden e Saddam Hussein.

I cinque lati del Pentagono, l’edificio più grande degli Stati Uniti, compaiono nei pensieri di Nuschese, si materializzano in due sagome fondamentali nella storia delle amministrazioni repubblicane, il cuore del grande gioco di Washington. “Dick Cheney e Donald Rumsfeld, avevano qui i loro tavoli… sì, è stato un mandato tumultuoso”. Cheney fu il vicepresidente che teorizzò – e naturalmente praticò –  “l’esecutivo unitario”, il protagonista del film Vice, l’ombra del potere (grande interpretazione di Christian Bale), il rullo compressore dell’amministrazione Bush. Rumsfeld, Congressman a soli 30 anni, segretario della Difesa durante le campagne in Afghanistan e in Iraq. Dick e Don, due veterani del potere della Casa Bianca, lavoravano insieme al presidente Gerald Ford, correvano gli anni Settanta. Che storia.

Quarant’anni dopo, eccoci qua, la presidenza di Trump e quella di Biden, due opposti, due Americhe. “Oggi la nazione è divisa, possono unirla i grandi leader, ci sarà un nuovo Congresso, ci vogliono persone che si incontrano e si concentrano sui problemi. L’America è una grandissima potenza, ma la Cina ormai è dietro la porta e l’America lo sa. E lo sa anche Joe Biden, conosce bene la Cina e Xi Jinping. Tecnologia e social media hanno cambiato la dinamica della politica”, dice Nuschese. Sulla scrivania, una pila di fiches, il testimone dell’epoca di Las Vegas, la slot machine del tempo che corre, una giocata e via, su chi puntiamo? “Tutto su Joe Biden, si è avverato il suo sogno, ha 78 anni e questo significa che non è mai troppo tardi. Gli faccio tanti auguri, è una persona stupenda e ho avuto il privilegio di conoscerlo bene”. E l’uomo del grande sottosopra del 2016, Donald Trump? “Avrà la possibilità di riposarsi con la famiglia e mantenere i suoi contatti”. In fondo, non è mai troppo tardi.

Il mondo è grande, c’è spazio per nuove avventure, Nuschese lo sa bene, ha aperto un ristorante a Abu Dhabi, al Four Seasons Hotel. “Gli Emirati Arabi mi hanno sempre ispirato, il loro leader, il principe Mohammed bin Zayed, è un uomo che ha una grandissima visione, colto, umile, sono stato con lui tantissime volte, in cene formali e nel deserto, si è sempre aperto anche al West”. Ancora una volta arriva quello che non ti aspetti. “Mi chiese di aprire il ristorante. E io risposi: se lei lo vuole, lo facciamo. Strategicamente, il mondo passa da Abu Dhabi”. A questo punto, la diplomazia a tavola si materializza in una conferma: “Qui al Cafe Milano c’era il primo ministro israeliano Bibi, e c’erano anche i nostri amici arabi, è successo qua, si sono visti, si sono incontrati e da là è partito il discorso…”.

Il “discorso” di cui parla Nuschese, è lo storico rapprochement tra Israele e Emirati Arabi, una svolta nella storia della politica mediorientale. “Bibi” è il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. “È cominciato qui…”. Marzo 2018, Washington, Cafe Milano, il premier israeliano mentre cena con la moglie Sara riceve una richiesta sorprendente, in un’altra sala del ristorante c’è l’ambasciatore degli Emirati negli Stati Uniti, Yousef al-Otaiba, è accompagnato da Brian Hook, capo della pianificazione politica del Dipartimento di Stato, e dall’ambasciatore del Bahrein, lo sceicco Abdullah bin Rashed bin Abdullah Al Khalifa. Franco diventa ambasciatore e messaggero. Si aprono le porte, Netanyahu entra in scena, saluti, quattro chiacchiere, il disgelo. I due paesi non avevano rapporti diplomatici. Due anni dopo, gli Emirati normalizzano le relazioni con Israele, seguiti poi dal Bahrein. “È cominciato qui…”, ricorda Nuschese. Si chiama “Dinner Diplomacy”.

Sliding doors

Il Medio Oriente era scolpito nel destino di Nuschese, molti anni prima, l’incontro con un’altra figura leggendaria, Re Hussein di Giordania. “Ero affascinato dal suo modo di fare il capo di Stato, grande cultura, un uomo che sapeva mettere d’accordo tutti, guidava la sua macchina”. Re e principesse, un fiume in piena. “Lady Diana, certo. Ero giovane, vivevo a Londra, lavoravo alla King’s Road, lei portava a passeggio i ragazzini di un asilo, la conobbi così, prima che incontrasse Carlo. E poi la incontrai di nuovo qui in America, ricordava tutto”. Sliding Doors, esci da un quadro, riprendi la scena dopo un tempo sospeso. Universi paralleli, coincidenze, transiti. Mondi lontani che s’incontrano, Cesare e Dio, politica e religione. La potenza (ultra)terrena di Roma. Delegazione americana in visita in Vaticano, incontro con Papa Francesco. Manco a dirlo, c’è Nuschese dietro le quinte. “Quando Bergoglio diventò Papa, andammo a Roma, e con noi c’erano Joe Biden e Nancy Pelosi. Lui aveva ancora l’impermeabile e il Papa era pronto a riceverli e dissi: il Papa è pronto, signor vicepresidente, mi dia il suo impermeabile, vada”.

S’avvicina il Giorno del Ringraziamento, Dio solo sa quanto l’America abbia bisogno di pace e concordia. La serata di Washington è fresca, Georgetown è sempre zucchero filato, è uno sguardo di gioia che brilla come le luci che discendono fino al Potomac, un soffio di vita anche in quest’anno che non è come gli altri, un 2020 che corre verso i titoli di coda, sfuma nel The End, la colonna sonora dei canti delle feste.

“Qui non sarà lo stesso Thanksgiving e non sarà lo stesso Natale di una volta. Anche in Italia. Stiamo vivendo un momento particolare della nostra storia, dobbiamo diventare più responsabili, non siamo lontani dal vaccino, ma la produzione e organizzazione richiederanno ancora molto tempo”.

Chi l’avrebbe mai detto che Franco Nuschese, “washingtoniano da 30 anni, americano da 40, italiano da sempre” sarebbe diventato materia prima per un romanzo? Abbiamo già battuto il titolo: la tavola rotonda dei presidenti.

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Fonte: estero agi