AGI – L’armatura. Il legno. Il presagio. La capitale si sta blindando, i negozi e le attività al piano terra, tutta la zona tra il Campidoglio e la Casa Bianca, si stanno “corazzando” in vista delle manifestazioni dell’Election Night e dei giorni seguenti.
Nessuno qui sa cosa accadrà il 3 novembre, siamo nel campo che oscilla tra le premonizioni e le munizioni. Gli avvisi sulle strade chiuse al traffico da mezzogiorno di martedì, la signora della lavanderia che ti avvisa con premura, “chiudo tutto per il fine settimana e anche nei giorni dopo, se ha qualche camicia o pantalone da lavare, lo porti adesso”, gli elicotteri della polizia che da ieri volano come pipistrelli la notte, i mini-cantieri di giorno con i carpentieri, i caschetti gialli che chiazzano la prospettiva, il rumore della piccola fabbrica tra una strada e l’altra, i martelli che battono, i chiodi conficcati sul legno che sprigiona un profumo di Virginia nel cemento e vetro del Distretto di Columbia.
I negozianti si dotano di ‘the wood’
Mettiamo anche noi domani “the wood” raccontano i gestori di un ristorante – pieno e ordinato, in una sera battuta da un velo di pioggia che va e viene. “The wood” non è il bosco, ma l’armatura infilata dal negozio, la protezione su misura per il grande e piccolo commercio, il salvataggio di quel che fai e quel che sei di fronte a una furia che appare senza senso fin dal preludio, un tam tam che viene da una lontana e vicina foresta, un mondo parallelo.
Gli alberi della 15esima strada sono illuminati da serpenti di luci, il Natale qui esiste e resiste, è una sequenza di riti, gioie, vita. Oggi si celebra Halloween, da giorni i bambini nelle scuole preparano le zucche, le classi fanno i concorsi per quelle più originali, nell’aria si respira la storia dell’America dei padri fondatori, le prime celebrazioni nel New England, il Giorno del Ringraziamento, la tavola imbandita, la preghiera, il pranzo con la famiglia e le persone più care.
Tutto questo accadrà il 26 novembre, prima, il 3 novembre, l’America vota, sceglie il suo presidente. Ancora Donald Trump again o un toh chi si rivede Joe Biden? Un voto, due Americhe e l’ombra della paura per il day after. La politica degli Stati Uniti (e non solo, è il male che sta consumando l’Occidente) è polarizzata, divisa, frammentata, il dibattito è violento, i due mondi (“la scelta è tra aprire e chiudere”, ripete Trump nei suoi ultimi comizi) sono in rotta di collisione e la storia dei presidenti è fatta di miseria e nobiltà, energia vitale e morte, nascita e assassinio.
Abraham Lincoln e John Fitzgerald Kennedy, libertà e pallottole in corpo, costituzione e autopsia. Bandiera a mezz’asta e cospirazione. Carro funebre e successione.
Un negozio di fiori sulla 14esima strada è un bersaglio ideologico? No, ma lo sfascio non fa distinzioni botanico-politiche, devasta, incendia, saccheggia, i “looters” sono il segno diverso dell’America, si fa molta sociologia intorno alla protesta, noi siamo umili cronisti nella vigna dell’editoria: sfondano e rubano tutto quello che possono, sono teppisti, ladri, delinquenti.
Più proiettili che pane
Poi c’è il salto di categoria tra i potenziali criminali, le milizie armate. È un’altra realtà di cui si scrive molto e poco si sa, sono gruppi armati di tutto punto, qualcuno tra loro simula giochi di guerra nei boschi, giocano a fare Rambo, non ne hanno le doti (ma l’attrezzatura militare sì) e di fronte a uno scenario di voto contestato, la sera del 3 novembre potrebbero pensare che la guerra non è più un gioco, ma una missione per conto di uno dei due candidati (qui sparano tutti, dem e repubblicani). Basta un numero: 270 milioni di fucili. Nella dispensa dell’America ci sono più proiettili che pane. Per paura dei saccheggi, Walmart ha ritirato tutte le armi dagli scaffali. L’elezione a mano armata, vedremo anche questa, speriamo di no.
In Italia saremmo al punto del “silenzio elettorale”, qui no, la campagna è nella fase dragster, si consuma tutto il carburante a disposizione, si gettano chiodi sulla strada dell’avversario. C’è un pugno di indecisi, ma soprattutto bisogna galvanizzare la propria base elettorale. “Get out and vote”, ripetono Trump e Biden.
La pandemia ha cambiato le abitudini degli elettori. Secondo i dati di U.S. Elections Project finora hanno votato in anticipo 87,8 milioni di americani (30,786,147 in persona e 57,011,939 per posta), rappresentano il 63.7% del totale dei voti espressi nel 2016. Siamo di fronte a un fenomeno unico che rende ogni previsione quasi impossibile, figuriamoci i sondaggi.
Il ribaltone dell’ultima ora
La mappa tradizionale potrebbe venirne fuori almeno parzialmente ridisegnata. Entrambi i candidati stanno provando a fare dei ribaltoni. Trump in Minnesota, Stato che non elegge un presidente repubblicano dal 1972. Biden va in posti dove nessun candidato dem di solito spende tempo alla fine della campagna, in Iowa e Georgia. Molti puntano su un risultato a sorpresa in Texas, oltre 9 milioni di voti anticipati, il record assoluto, ha superato il 100% dei votanti nel 2016.
È uno Stato solidamente repubblicano, ma c’è chi vede in questi numeri l’anticipazione di un potente swing, un mutamento di strati sociali e un cambio di colore, dal rosso al blu. Possibile? Kamala Harris ha visitato Fort Worth, i dem ci provano, ma gli strateghi del Gop dicono che lo Stato della stella solitaria non è in bilico.
Leggere la corsa con i numeri dei sondaggi è facile – non ci sono storie, vince Biden – solo che quei numeri non tornano (vedere alla voce “elezioni presidenziali 2016”) quando fai il cronista, per chi gira con il taccuino e la penna in mano la campagna è quello che si vede. In ogni caso, l’ultimo sondaggio di Fox News dà Joe Biden in vantaggio di 8 punti (52 a 44).
Il distacco del presidente è calato di 2 punti, tre settimane fa il candidato dem aveva 10 punti di vantaggio (53 a 43). “Biden mantiene un sostanziale vantaggio sul piano nazionale, molti voti sono già stati espressi, e ci sono pochi indecisi”, spiega a Fox News il sondaggista democratico Chris Anderson, che ha condotto la ricerca insieme al repubblicano Daron Shaw. Dunque “sarà difficile vedere la corsa nazionale cambiare in maniera significativa nei giorni di chiusura, ma questo non significa che sia impossibile per Trump centrare il filo di una vittoria nel Collegio Elettorale”.
Tutto è chiuso. Tutto è aperto. Come per il coronavirus. Dunque all’onda blu del voto per posta (fatto tra l’altro tutto da dimostrare, serve la prova empirica, lo spoglio delle schede) potrebbe seguire l’onda rossa ai seggi (anche qui attendiamo quella cosa chiamata “esperienza”) e in ogni caso siamo in una terra senza mappe, per queste evidenti ragioni ogni scenario resta aperto: 1.
Quel pugno di Stati decisivo
Una vittoria dem nel voto popolare, ma un testa a testa nel collegio elettorale e una vittoria di misura ma chiara di uno dei due candidati; 2. un trionfo, la landslide victory, la vittoria a valanga di uno dei due in campo; 3. la corsa contestata, il fotofinish che resta sbiadito, il ricorso, il riconteggio delle schede, la decisione della Corte Suprema. Il caos istituzionale e non solo.
La corsa si gioca tra la Rust Belt e la Sun Belt, tra Nord e Sud in un pugno di Stati. Il freddo del Michigan, il sole della Florida. Il gelo dei grandi laghi e gli uragani del Golfo. Trump oggi terrà quattro rally in Pennsylvania, deve impedire a Biden di ricostruire il “muro blu” negli Stati del Midwest e ce la sta mettendo tutta. Comizi trumpiani a ripetizione: Bucks County, Reading, Butler e Montoursville. Sprint finale, gomme consumate, continue derapate, Biden sarà con Barack Obama in Michigan a un drive-in rally a Flint e naturalmente nella Motor City, a Detroit. Manifattura, posti di lavoro.
Il virus c’è e galoppa
Alla fine della fiera, l’agenda è quella del Made in America, il settore in cui Trump continua a avere rating molto alti. E il virus? C’è e galoppa (100 mila casi in un solo giorno, ieri), ma il punto dell’agenda non è quello che tiene banco in Europa, qui si discute non su come chiudere in casa le persone, ma sul come farle uscire, sull’andare avanti senza i lockdown, non su quello che in America è impossibile, la buoncostume sanitaria.
Neanche l’uomo in mascherina, Joe Biden, parla più di lockdown, ieri sera lo ha ribadito: “Non chiuderò il Paese. Non chiuderò l’economia. Chiuderò con il virus”. Dem o repubblicani, la fanno tutti facile. Non lo è per niente, servono tempo e coraggio.
Chiudere con il virus significa avere un vaccino. Parola dietro la quale ci sono scienza, soldi per finanziarla (cosa che le classi in cattedra tendono a dimenticare), tempo e determinazione. Ieri a Waterford, vicino a Detroit, Trump ha detto una frase che lumeggia il prossimo passaggio dell’amministrazione (ricordiamo che resterà in carica per la transizione, fino a gennaio, e se vince non si schioda dallo Studio Ovale): “L’approvazione arriverà nel giro di un paio di settimane“.
Nessuna sparata sul vaccino
Chi pensa a una sparata di The Donald si sbaglia: Moderna, l’azienda biotech americana, si prepara per il lancio globale, Pfizer è l’altra azienda avanti nella ricerca e sperimentazione. “Il primo esame preliminare dei risultati dei test dovrebbe avvenire, si spera, nelle prossime settimane”, ha commentato Anthony Fauci. Troppo tardi per cambiare le sorti del voto? Non lo sappiamo, nessuno lo sa, i candidati giocano le loro carte retoriche, sono due pianeti profondamente diversi.
Bastava leggere l’appello di Trump e Biden agli elettori del Wisconsin (altro Stato dello Rust Belt) pubblicato sul Milwaukee Journal Sentinel per rendersi conto della distanza siderale tra i due: Trump ha scritto un articolo dove parla di economia e posti di lavoro, energia e manifattura; Biden ha messo giù un pezzo per descrivere i danni del coronavirus e rovesciarli sulla presidenza che “ha mentito” agli americani perché “sapeva da febbraio”, il dipinto dem di un’America dark, il periodo buio del trumpismo. È stata fin dalle due Convention una storia di buio e luce. Vedremo presto (forse) di chi sarà il lampo finale.
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Fonte: estero agi