America2020: Regeneron e Ivanka, storia e film. Ciak, si gira


Ciak, si gira, è la corsa alla Casa Bianca. Come andrà a finire? Non è tempo di morire. Può essere il finale post-nucleare di “Blade Runner” (1982, regia di Ridley Scott) e allora “ho visto cose che voi umani…” e la caccia del poliziotto Deckard al cyborg Roy termina con lo spegnimento del robot e la fine della storia perché “è tempo di morire”; oppure può essere il titolo dell’ultimo film di James Bond, “No time to die”, che doveva andare in sala a novembre e arriverà nell’aprile del 2021 – l’agente 007 frenato ma non sconfitto dal coronavirus. Letteratura, fiction, cinema, immaginario e realtà, dalle pagine di Philip K. Dick a quelle di Ian Fleming, dal romanzo del Novecento alla cronaca quotidiana di un distopico 2020

Ciak, si gira. C’è un terzo film in quest’opera in fieri che fa al caso nostro, ci fa viaggiare nel tempo, apre porte verso ieri, oggi e soprattutto domani. Il film è “Vice” (2018, regia di Adam McKay), la trama è la biografia di Dick Cheney e della moglie Lynne, donna di eccezionale tempra e intelligenza. Una scena del film – grande prova di recitazione di Christian Bale e Amy Adams – dice tutto e proietta una luce sul finale di partita di Trump (e del suo clan).

Interno notte, camera da letto, coniugi Cheney, due leoni tra le lenzuola. Siamo in uno spazio creativo tra gli Hollywood Studios e il Globe Theatre. Piano medio, luce di candela in versione Stanley Kubrick, dialogo tra Lynne e Dick, un distillato shakespeariano. 

Lynne: “Mio dolce Richard, danzasti leggiadro intorno al cuore del re, anche quando io bramavo di più, di più, bocca inaridita in cerca di gocce, gocce di acque immaginate. Ma ora dico a te, resta, riposa, onora il voto che hai proferito per la tua sposa”.

Dick: “La cecità ti ha usurpato i sogni mia sposa. Un mero accordo è la nostra unione. Intrecciando la tua torcia nella mia mano, hai fatto luce su imperi sbiaditi in un tempo lontano. E ora io, potrei brandire una mia ardente lanterna per render vivo il nostro vincolo di potere”.

Lynne: “Devo dunque, devo lasciare che il becco della speranza posi rovi sul mio cuore per un futuro unito? Per molti inverni ho lasciato questa speranza morire, e venti crudeli hanno soffocato il pianto degli uccellini, e ora che essa è arrivata io dico sì”. 

Dick: “Sì”.

Lynne: “Il mio sangue e la mia volontà sono tuoi, finché non trafiggeranno l’armatura dell’ultimo soldato, colorando la terra dei suoi rubicondi tesori”. 

Il patto del potere, la saga dei Cheneys. Lei è la spada e lo scudo. E cosa c’entra tutto questo con Trump? Calma, saliamo sulla macchina del tempo, il mondo è piccolo, la cittadella politica di Washington DC lo è ancor di più, tutti si conoscono e finiscono la sera al banco del Round Robin Bar del Willard Hotel. La storia qui si fa con gli amici che si tramandano il potere da decenni.

Come abbiamo visto qualche riga fa, nel 1976 Gerald Ford perde le elezioni, viene stracciato da Jimmy Carter. Chi è il capo di gabinetto alla Casa Bianca di Ford? Lui, Dick Cheney. Che resta senza posto di lavoro e così lui e Lynne tornano nel Wyoming, vita tranquilla. Per soli due anni. Dick vuole fare politica da protagonista, non più dietro le quinte, basta consigli, è sempre stato un uomo d’azione. Nel 1978 si candida per un seggio al Congresso. Tutto fila liscio fino a quando a metà della campagna elettorale viene colpito dal suo primo infarto. Crac. Campagna finita, addio sogni di gloria.

Questo era il copione senza strambate, ma se hai una moglie come Lynne, allora la sceneggiatura cambia, la signora prende il comando (in realtà lo ha sempre avuto lei) si carica a bordo dell’auto le figlie Liz e Mary e per sei settimane gira il Wyoming al posto del Dick in ospedale e per Cheney candidato, fa comizi in luoghi di poche anime e troppo lavoro, in un mondo rude, polveroso, tutto maschile, viene accolta con scetticismo e invece prende applausi. Al tavolo del voto vince la donna. E Dick Cheney, l’uomo, il marito, il futuro vicepresidente diventa per la prima volta deputato. 

Il problema di Trump nel 2020 è quello di Cheney nel 1978: chi chi andrà a fare campagna al suo posto nelle due settimane di quarantena? Nel basement ora c’è lui. La moglie Melania è fuori gioco per coronavirus (e non ha la stoffa per fare la parte di Lynne). Chi resta? C’è il vicepresidente Mike Pence, un tipo solido che tra qualche giorno (7 ottobre) se la vedrà contro Kamala Harris a Salt Lake City, poi all’orizzonte c’è un caterpillar biondo e ambizioso, Ivanka Trump. Se non c’è la moglie, ci prova la figlia.

Lo farà? Ivanka è la prediletta di Donald, non ha mai fatto mistero delle sue ambizioni, con il marito Jared Kushner costituisce di fatto la coppia parallela a Donald e Melania (che non la ama e avrebbe provato a limitarne la presenza e l’influenza sulla Casa Bianca), le piacerebbe in futuro correre per la presidenza, ma una sconfitta del padre sarebbe la fine del sogno. E allora? Farà di tutto per evitare la sconfitta.

In soli 4 eventi dedicati alla raccolta fondi ha incassato 15 milioni di dollari per la campagna del padre; nelle ultime due settimane Ivanka ha visitato Arizona, North Carolina, Michigan, Florida, Pennsylvania, Minnesota e Georgia. L’altro ieri è stata di nuovo in North Carolina, a Charlotte, e sarà ancora in Florida, due Stati in bilico che Trump deve assolutamente conquistare per poter sperare di mantenere la presidenza. I

vanka Trump e Mike Pence potrebbero fare coppia nel 2024 per la Casa Bianca? Non c’è bisogno di aspettare quattro anni, lo fanno già adesso: qualche giorno fa sono stati insieme a Eau Claire, in Wisconsin, una visita nello stabilimento della McDonough, produzione di materiale per l’edilizia; poi ancora a Minneapolis in un evento della serie “legge e ordine” intitolato “Cops for Trump”. Con The Donald in tribuna, dovranno aumentare la loro presenza.Effetto Cheney? Ivanka non è Lynne e la storia dei candidati alla Casa Bianca non si ripete. Vince Trump e perde Trump. Il resto è fiction, il vero in anticipo sulla storia. 

Ciak, si gira. Il comando delle operazioni della campagna di Trump è decimato (positivi Trump e la First Lady Melania, Kellyanne Conway e Hope Hicks, Tom Tillis e Bill Stepien), il Commander in Chief è ricoverato in un ospedale militare a Washington, il fortino dei repubblicani è assediato, vincere sembra impossibile. Il suono del corno nella terra dei Grandi Laghi avvisa dell’arrivo delle giubbe rosse, “no time to die”, non è tempo di morire. 

Il contagio potrebbe costare molti punti nei sondaggi, avvicinare la sconfitta di un “incubent”, evento rarissimo nella storia della presidenza, è successo solo cinque volte

  • Nel 1912 con William Howard Taft. Il successore di Theodore Roosevelt, si ritrovò quest’ultimo come avversario in sottosopra storico tra i repubblicani. Roosevelt fondò il Progressive Party e si presentò ai blocchi di partenza del voto. Tra i due litiganti dello stesso partito vinse il terzo democratico, Woodrow Wilson che prese il 41.9% dei voti. Roosevelt si fermò al 27% e Taft al 23%. I repubblicani uniti avrebbero vinto.
  • Nel 1932 toccò a Herbert Hoover bere il calice amaro della sconfitta. Fu travolto da un cataclisma economico: il crollo di Wall Street del 1929. Vinse il New Deal del democratico Franklin Delano Roosevelt. 
  • Nel 1976 fu la volta del repubblicano Gerald Ford. Arrivò alla Casa Bianca dopo lo scandalo Watergate, fece la mossa del “pardon” di Richard Nixon per assicurarsi i voti della base repubblicana, ne rimase fulminato con le dita nella presa della corrente dello Studio Ovale, venne sconfitto da un coltivatore di noccioline, Jimmy Carter.
  • Nel 1980 fu lui, il democratico Carter, a venire espulso sul seggiolino eiettabile della Casa Bianca. Crollo dell’economia, crisi degli ostaggi a Teheran, rivalità tra i dem con una sfida interna di Ted Kennedy bastarono all’ex attore Ronald Reagan per vincere la corsa alla presidenza.
  • Nel 1992 fu il più in gamba dei Bush (il padre George Herbert Walker) a perdere l’elezione. La crisi economica, la candidatura di Ross Perot e l’aumento delle tasse (dopo aver promesso di tagliarle) gli costarono il posto. Alla Casa Bianca arrivò dall’Arkansas un tipo brillante che suonava il sassofono, Bill Clinton.

Trump rischia di essere il sesto dell’elenco. Come può evitarlo? Il coronavirus è la disgrazia più grande che potesse capitargli, la storia della campagna ora è di nuovo la pandemia (il punto dell’agenda dove Trump ha il gradimento più basso tra gli elettori) e non l’economia o la sicurezza (dove batte Biden), ma c’è anche chi pensa che questa sia l’occasione per un nuovo racconto, il carpe diem di una vittoria strappata con un colpo di genio.

Scott Jennings, uno degli strateghi delle campagne del ticket Bush-Cheney, sul Los Angeles Times scrive che Trump ora “è come tutti noi. Comune. Umano. Odierà pensare a se stesso in questo modo, ma deve abbracciarlo e riconoscere l’opportunità che la sua diagnosi offre di mostrare leadership e comprensione”. È un messaggio da rivolgere soprattutto agli elettori anziani, quelli più esposti al Covid-19. Ci vuole una gran dose di umiltà, non è il settore in cui eccelle Trump che con il coronavirus ha giocato d’azzardo, finché il croupier chiamato destino non gli ha levato tutte le fiches da sotto il naso, mentre stava vincendo. 

Cambierà storytelling di fronte allo spettro di una sconfitta? Le vie della politica sono infinite. Ha avviato il riposizionamento della sua campagna: è apparso davanti alle telecamere delle tv d’America, South Lawn della Casa Bianca, passo svelto sul prato, il pollice in alto per i cronisti, mascherina “patriottica” (Trump dixit), scaletta dell’elicottero Marine One, portello chiuso, decollo e volo su Washington DC, obelisco del Washington Monument sullo sfondo, atterraggio sul piazzale dell’ospedale militare Walter Reed, cura sperimentale, marchio biotech che è un programma per l’eternità, “Regeneron”, eccolo, l’uomo-cavia, il Commander in Chief che combatte contro il nemico invisibile, tutto in diretta. Dopo ore di silenzio, pubblica un video sul suo profilo twitter, è il nuovo inizio di una nuova campagna. Siamo alle prime righe di questa storia incredibile, si attende un messaggio alla nazione. Lo farà? E soprattutto, basterà?

Il passato aiuta, confonde, agita, mischia, fa il cocktail ad alta gradazione della politica, è il classico Gin Martini “agitato, non mescolato”, à la James Bond. Donald Rumsfeld, ex ministro della Difesa nel governo di George Bush jr, un veterano delle campagne elettorali, coniò questo rebus del potere: “Ci sono cose che sappiamo: cose che sappiamo di sapere. Ci sono cose che sappiamo di non sapere: sappiamo che non le sappiamo. E poi ci sono cose che non sappiamo di non sapere: non sappiamo che non le sappiamo”.

Mal di testa? Nessuno sa come finirà la corsa alla Casa Bianca. E in questa storia c’è chi sa di non sapere e chi crede di sapere senza sapere.

Ciak, si gira. Entriamo in sala, proiezione di “Tenet” (2020, sceneggiatura e regia di Christopher Nolan), siamo nel dominio del palindromo del quadrato di Sator, una frase che si può leggere avanti e indietro, sullo schermo gira una spy story che serve a reggere le domande della filosofia e della fisica, è un viaggio nel tempo e un rebus filologico, Nolan gira la clessidra, è una caccia al tesoro letale, i proiettili si muovono al contrario, l’orologio torna indietro, c’è un’arma che può distruggere il passato. È quella che sta cercando Trump.

Vedi: America2020: Regeneron e Ivanka, storia e film. Ciak, si gira
Fonte: estero agi