America2020: lo spettro del 2016, il finale e il nuovo inizio


AGI – Uno spettro s’aggira nel castello dei dem, anzi due: un altro 2016 e un altro 2000. Il grande ribaltone di Trump e il bis di The Donald; la corsa senza freni di due candidati, il risultato contestato e la decisione dei giudici della Corte Suprema che ora con la nomina di Amy Coney Barrett è quasi tutta trumpiana. Dio, che incubo. 

Siamo tra la cronaca e la storia, il diario e il taccuino, il libro e il giornale. C’è l’ombra del sottosopra del phonato di Manhattan, quello che non ti aspetti, contro la candidata alla vittoria, Hillary Clinton; c’è il rovescio del voto, prima blu e poi rosso, Al Gore non entra, Bush alla Casa Bianca come il padre. “Ho pronti gli avvocati”, la frase di ieri, firmato Donald Trump.

Fantasmi, spiriti, l’inverno che avanza, il freddo che gela i Grandi Laghi e gli Stati della Rust Belt dove tutto comincia e tutto finisce, il clima caldo della Sun Belt, la Florida che è sempre un posto al sole ma per un uomo solo alla Casa Bianca. Siamo tra un romanzo del grande sud di John Steinbeck e un classico della paura, con i fantasmi di Charles Dickens che bussano alla porta cigolante del Natale. Ok, ci sta pure un Vincent Price che ghigna in un successo del re del pop, Michael Jackson, perché qui siamo in America e tutto alla fine è Hollywood e il finale è sempre un “Thriller”. 

Nei sondaggi Biden è avanti di 6,5 punti, la corsa è ancora aperta

Il 2016, dicevamo, la sorpresa, lo shock, l’assenza di Hillary al Javits Center di New York, era pronta per rompere il soffitto di cristallo, lei che aveva un solo discorso vergato, quello della vittoria. E fu sconfitta. E fu silenzio. Quattro anni dopo, ci riprovano, lo sfidante si chiama Joe Biden in un’era che sembra passato e futuro, un mondo distopico alla “Mad Max” con i dragster che corrono sulla sabbia. Joe vince? Così dicono i sondaggi, così tuona il popolo di Twitter, così sperano i dem. La media nazionale di Real Clear Politics lo vede in vantaggio di soli 6,5 punti alla vigilia del voto, siamo completamente fuori dalla comfort zone, nessun divano, si corre ancora. 

Che cosa succede negli Stati chiave?

La prima cosa da guardare domani è se Biden riuscirà a vincere la  Florida, la Georgia o la Carolina del Nord. Ciascuno di questi Stati potrebbe garantirgli la presidenza. Se conquista almeno uno dei tre, allora (forse) prende tutto. Il gong suona per Biden e anche per Trump perché da quasi un secolo nessun repubblicano ha mai catturato la presidenza senza spaccare in Florida. Se Biden perde tutti e tre gli Stati di cui sopra, allora sarà una lunga settimana di regolamenti di conti e riconteggi di voti. Alternative? A quel punto Biden dovrà guardare al verdetto combinato di Arizona e Pennsylvania. Se Trump spezza il “muro blu” della Rust Belt come fece quattro anni fa, allora sarà il suo sudoku elettorale a diventare reale.  

La victory road di Trump nel 2016 resta aperta anche nel 2020, questo è il dato a 24 ore dall’Electron Day, lo ha ricordato Nate Silver, il guru dei sondaggi: “Se Biden non vince in Pennsylvania, diventa il perdente”. Nella media di Real Clear Politics nei Battleground States, la situazione è complessa, il vantaggio di Biden è di soli 2,9 punti.

L’enigma del voto anticipato

È vero che Trump nelle medie dei sondaggi è dato per vincente solo in North Carolina, ma il popolo non vive nelle medie, sta sopra o sotto, e dunque tutto resta in ballo perché siamo di fronte a un precedente ad alto voltaggio (il 2016, appunto) e a uno scenario elettorale da tachicardia, c’è il voto anticipato, il record di affluenza, oltre 90 milioni di schede già depositate (contro i 58 milioni di 4 anni fa) e nessuno può dire con certezza che questi due terzi del voto del 2016 siano a favore dei democratici. Non c’è la prova empirica, solo la consuetudine, che però vale in tempi normali e questi invece sono tempi straordinari. Bisogna aspettare lo spoglio delle schede. I primi seggi a chiudere saranno in Indiana e Kentucky alle 18:00 ora di Washington, il grosso della partita è in 20 Stati e finisce alle 20:00. Ci sarà un tempo sospeso, la lunga notte con tre fusi orari e aperture e chiusure dei seggi in rigoroso disordine sparso, forse una lunga settimana di voti e sogni da spogliare e chissà, perfino l’attesa del regalo di Babbo Natale.

Anche il meteo gioca la sua parte

Come abbiamo raccontato fin dal primo giorno di America 2020, siamo alla collisione dei due mondi: i dem hanno spinto per il voto anticipato, i repubblicani per il voto ai seggi il giorno delle elezioni. Onda blu e tsunami rosso, questo è uno degli scenari. E poi attenzione a un fattore che qui si traduce in voti: le previsioni del tempo. In queste ore i canali tv e online come Weather Channel sono osservati come la sfera di cristallo dagli strateghi elettorali. Cosa c’è sulla mappa barometrica, sarà come il formidabile incipit de “L’uomo senza qualità” di Robert Musil? Massì, perché a quanto pare, alla fine, possiamo giocarci sopra “con una frase che quantunque un po’ antiquata, riassume benissimo i fatti: sarà una bella giornata di novembre dell’anno 2020”. E con il bel tempo, anche stare in fila davanti ai seggi sarà meno duro, uscire di casa per andare a votare sarà fare una gita. I repubblicani sperano in un’affluenza da record per la nazione rossa, stasera Trump sarà a Grand Rapids, nel Michigan, per un comizio da “Ritorno al futuro”, siamo sulla macchina del tempo trumpiano, dunque alle 22:00 sul grande schermo della politica si proietta “Make America Great Again Victory Rally”. “Again again” dice Trump – ancora compare l’Annus Horribilis per i dem, il 2016. 

I riti e le liturgie dell’America che vota

Continuano tutti a ripetere i loro riti, una costante liturgia che non s’arrende allo scorrere della sabbia nella clessidra, vai con il copione e “the show must go on”. A costo di tornare sul luogo del delitto, di ricreare il clima della caduta degli angeli, riecco i dem in Pennsylvania, tutti insieme come nel 2016, con le star, Lady Gaga, John Legend, la musica, Broadway e Hollywood, il racconto è sempre quello, il grattacielo contro il ranch, la prateria e la giungla d’asfalto, il cavallo selvaggio e la limousine. D’altronde il ritornello di Biden è che “lottiamo per l’anima della nazione”. E allora che “soul” sia. Dall’altra parte, c’è quel che resta dell’American Dream, rifatto, tutto ultravioletto e Botox, una cosa che non è quella degli anni Sessanta e Settanta, che non è la Camelot kennedyana e non può essere il sognando California di Ronald Reagan. È il reality di Trump. Sipario, luci, “You are fired!”, è sempre Apprentice e il prossimo ad uscire di scena forse sarà Anthony Fauci, il Virologo in Chief. I repubblicani attendono, hanno pronto il grande albergo per una festa che nessuno può dichiarare, ma tutti sperano di celebrare. Trump ha due set disponibili, quello della Casa Bianca e il Trump International Hotel di Washington, una ballroom perfetta per un Gin Martini letterario con Truman Capote. La Casa Bianca è barricata, come tutto il centro della Capitale, ma l’albergo è pieno di ospiti, Washington DC per il trumpismo è sempre aperta. Clic. Flash. Maga. Il sogno di ripetere il 2016 è un magnete, chi s’affaccia all’ingresso dell’Hotel scatta foto con il cappellino rosso in testa.

Non sarà solo il coronavirus a decidere l’esito del voto

Ma è davvero il 2016? Questo è il 2020, l’anno del coronavirus, in America è successo un cataclisma, non può essere lo stesso tempo e lo stesso spazio. Eppure c’è un legno storto anche nel racconto che tutto è scandito dall’ondata del contagio, che tutto è pandemia e l’elezione così sia. Perché se la realtà è quello che si vede e quello che si sente, se la realtà sono le parole che restano sul taccuino dei cronisti, allora il coronavirus non esaurisce tutta la storia, non lo piega e soprattutto non la spiega. Sul taccuino c’è altro: l’economia prima di tutto, la Cina e la delocalizzazione, il Made in America da difendere, la sanità e l’Obamacare, il Green New Deal e il suo rapporto con un paese che deve produrre tanta energia per le sue famiglie e imprese, trivelle, petrolio, fracking, gas e nuova politica in Medio Oriente, il Grande Gioco, e poi c’è il “lockdown mortale”, gli “Stati prigione” e “non faremo mai come in Europa”, che non sono slogan, ma una sensazione epidermica diffusa negli elettori americani, repubblicani e democratici. La salute, certo, ma non chiudete il business perché si muore anche di fame. E poi c’è un fil rouge che viene direttamente dal 2016, meno evidente nei titoli dei giornali e delle televisioni, ma nei Maga rally di Trump è stato un tema costante, l’immigrazione.

Il 2016, il muro al confine con il Messico, il problema della frontiera e dell’immigrazione ieri sera ha assunto le forme di… un serpente. Un memento per i democratici, un poema per migliaia di fan che ascoltavano Trump durante il comizio di Hickory, nella Carolina del Nord. A un certo punto il presidente ha tirato fuori dalla giacca un foglio di carta e ha cominciato a recitare i versi di “The Snake”, il serpente, una canzone di Al Wilson che nel 1968 scalò le classifiche Billboard. La canzone racconta la storia di una donna che salva un serpente dal gelo, lo porta a casa, lo scalda, lo nutre e poi viene morsa e uccisa dal rettile.
 
Il dialogo finale di “The Snake”, la rivelazione dell’illusione, dell’inganno, dell’inesorabile corso della natura, è in questa strofa: “Ti ho salvato”, gridò quella donna / “E mi hai anche morso, perché?” / “E sai che il tuo morso è velenoso e ora morirò”. / “Oh sta’ zitta, sciocca donna”, disse il rettile con un sorriso / “Sapevi dannatamente bene che ero un serpente prima di portarmi dentro”. La recitava nel 2016, Trump. Quel candidato per caso su cui nessuno allora scommetteva un dollaro. Un clown, nel migliore dei casi. E ora riecco l’inquietudine dei versi di “The Snake”, quel Trump che dopo quattro anni non è cambiato e per i dem è solo peggiorato. Quelle strofe echeggiano di nuovo in un comizio di Trump, dopo gli accoltellamenti in Francia.

I versi di “The Snake”, in realtà, non sono di Al Wilson, ma furono scritti nel 1963 da Oscar Brown Jr., afroamericano, attivista, poeta, musicista, compositore, iscritto al Partito comunista (poi ne uscì), morto nel 2005 a Chicago, all’età di 78 anni. Un genio della musica, un’icona del nascente movimento dei diritti civili degli anni Sessanta. Trump che usa quelle parole scritte da un nero, per i progressisti è uno sfregio e un oltraggio. Politica. Sul piano della comunicazione, dei bagliori che emergono dalla campagna, i versi di “The Snake” sono un’altra conferma del suo continuo tornare sulle orme del primo “victory tour”, il passato non è mai passato. “Non la leggevo da molto tempo, ma me lo hanno chiesto”, ha detto Trump ieri sera. Sui social si è scatenata la tempesta, quella degli adoratori e quella degli avversari, degli haters (“è Trump il serpente”) e di chi denuncia come l’uso di questi versi sia una inaccettabile metafora usata contro l’immigrazione, lo straniero, la materializzazione di un sibilante razzismo trumpiano. Un crotalo sotto un sasso nel deserto.

Lo scontro fra le due Americhe

Siamo ancora una volta alla collisione delle due Americhe. E siamo  nella terra sconosciuta, piena di incognite, dell’Election Day. Siamo alla vigilia della fine e sappiamo che non sarà la fine, perché il 4 novembre comincia un’altra storia, sfogliamo le pagine di un nuovo inizio. 

Sappiamo che in ogni caso quella che stiamo raccontando è l’ultima corsa di Trump e anche l’ultima diligenza di Biden. Sappiamo che una vittoria di Joe aprirebbe le porte a una candidatura di Kamala Harris nel 2024 e forse a una presidenza in anticipo, la prima donna alla Casa Bianca, nera e liberal, la metamorfosi definitiva del Partito democratico, non più centrista, ma proiettato sul mondo di Harris e Ocasio Cortez, non più di Biden, dei Clintons e degli stessi Obamas, perché in questa campagna Barack ha fatto canestro ma i tre punti sono suoi e potrebbero non essere mai di Biden, anche in caso di vittoria, il sequel è già scritto. 

Vince Trump? Sono “four more years”, certo, sarebbero anche il sogno spento dei Democratici, ma abbiamo già visto sul palco dei Maga rally il dopo The Donald, comunque vada: la figura di Ivanka, le file ai suoi eventi in Florida e negli altri Stati e i 35 milioni di dollari raccolti per la campagna del padre. Dietro quel sorriso glam e quella chioma patinata, si cela la biondissima ambizione del clan. Il Partito repubblicano dei nostalgici non c’è più e (forse) mai tornerà perché la politica è carne viva e sentimento, cambia, si evolve, va avanti e indietro, a strappi, dunque con Kamala potrà esserci anche Ivanka, due donne, due opposti, due mondi, due Americhe.

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Fonte: estero agi