America2020: Il Vietnam di JFK e lo sceriffo Trump


AGI – L’America doppia, due mondi in rotta di collisione, il paese della divergenza insanabile, la crescita non a U e nemmeno a V, ma a K, due linee, una per l’inferno e l’altra per il paradiso, l’ascesa e il declino, la Borsa che va e la produzione che sprofonda, Wall Street che crolla e il lavoro che aumenta. Una, nessuna, centomila Americhe da raccontare. Quale sarà quella vincente il 3 novembre? Non lo sappiamo, la pentola sta bollendo, il vapore fischia, il pranzo non è ancora cotto.

Il mercato azionario in due sedute ha sfiammato una galoppata che aveva battuto tutti i record, la correzione dei prezzi dei titoli delle Big Tech è brusca, una strambata, ma nello stesso giorno vedi lo tsunami di vendite e il recupero prodigioso fino alla chiusura con una perdita modesta. Su e giù, oscillazioni paurose per chi gioca sul tavolo da poker di Wall Street. 

C’è chi pensa che siamo di fronte allo scoppio di un’altra bolla delle troppo celebrate Big Tech, ma il parallelo storico con le prime dotcom è difficile da sostenere, nonostante i numeri titanici: in sole due sedute Apple ha perso 219 miliardi di dollari di capitalizzazione, un numeri pari al valore di quella che un tempo era la società regina del listino americano, la Exxon Mobil Corp., petrolio, energia, la potenza della trivella, l’accensione del motore.

Lo scoppio della bolla del 2000? John Authers su Bloomberg spegne i fanali dei paralleli storici: “Ci sono due differenze significative rispetto a 20 anni fa. Le azioni popolari di oggi includono certamente alcune che sono molto sopravvalutate – ma stanno anche facendo profitti su una scala che le società di Internet di 20 anni fa potevano a malapena immaginare”. Non è lo stesso mondo, anche se succedono cose dell’altro mondo.

Trump e i sondaggi di Fox

Cosa conta di più per la rielezione di Trump? Tutto, The Donald è un altro soggetto che oscilla come il pendolo di Edgar Alan Poe, è progettato per cogliere la notizia del momento e trasformarla in messaggio politico. Fox News pubblica sondaggi che lo danno in svantaggio negli Stati in bilico? Lui osserva la curva del Dow Jones e afferma: “Ogni volta che Fox pubblica un sondaggio che mi dà perdente il mercato crolla“. Sempre sotto o sopra le righe. Sta sul pezzo e spara tutti i colpi, l’iperbole è il suo destino. Se perde, lascia un cratere atomico; se vince, prevale in uno scontro che per l’America è in ogni caso un punto di non ritorno.

Conferenza stampa, Casa Bianca. Il presidente on cita lo scivolamento degli indici azionari, ma il dato dei nuovi posti di lavoro: “Noi ci concentriamo sulla creazione di posti lavoro mentre l’estrema sinistra crea solo violenza”. Eccolo il gioco degli opposti, io faccio tu disfi che, naturalmente, funziona a parti rovesciate. E dunque se per i dem tutto va male e Trump è una calamità (in)naturale, lui snocciola “i dati dell’economia americana” che “sono senza precedenti” e “la ripresa continua”.

Due mondi e non necessariamente uno è vero  e l’altro è falso, viviamo nell’epoca del “Blur”, titolo di un ottimo libro di Bill Kovach (fu capo dell’ufficio di Washington DC del New York Times) e Tom Rosenstiel (corrispondente al Congresso per Newsweek) sull’era della con-fusione dei fatti e dei ruoli, il vero e il falso che si mischiano, i giornalisti che fanno gli attivisti e gli agit prop che fanno i giornalisti, tutti in Rete, come tonni.

I vero, il falso e il caso Atlantic

Nel gioco al massacro di Washington, il vero e il falso si mescolano, sangue e schizzi di succo di pomodoro. The Atlantic cita un fatto che appartiene a questa terra di mezzo. Il magazine liberal scrive che Trump in Francia nel novembre del 2018 per commemorare i 100 anni della fine della Prima guerra mondiale avrebbe apostrofato i soldati americani morti durante la Prima guerra mondiale come dei “perdenti” e dei “cretini”. Trump doveva andare in visita a un cimitero americano ma annullò  tutto: “Perché dovrei andare a questo cimitero? È pieno di perdenti”. 

Trump secondo The Atlantic avrebbe anche definito i 1.541 soldati americani morti nella battaglia del Bosco Belleau come dei “cretini”. Fonte citata? Nessuna. Questo è il punto debole della vicenda, che fino a prova contraria la rende friabile. Così la Casa Bianca prende la scure da boscaiolo e fa la smentita secca: “Nessuno è abbastanza coraggioso da mettere il suo nome su queste accuse. È perché sono false”.

Tosta. Trump chiosa: “La gente, il popolo americano capisce questi orribili giochi politici“. Una giornalista di Fox News, Jennifer Griffin, dice che la storia è vera, ma anche lei non cita le fonti e quindi siamo sempre al punto di partenza: Atlantic conferma Atlantic, Fox cita Fox, la Casa Bianca smentisce e Trump fa Trump. La storia fa saltare il coperchio della pentola a pressione della Casa Bianca, entra in scena la First Lady: “La storia di The Atlantic non è vera. Sono tempi pericolosi quelli in cui si crede a fonti anonime di cui nessuno sa le motivazioni. Questo non è giornalismo. È attivismo. Ed è un disservizio per il popolo della nostra grande nazione”. Gong, Melania.

In attesa della conferma dei fatti, ricordiamo per chiarezza un paio di punti:

A) Trump è capace di dire quelle cose, pronunciò frasi peggiori su John McCain, catturato e torturato in Vietnam: “Non è un eroe, a me piacciono quelli che non vengono catturati”.  

B) The Atlantic è una gloriosa rivista liberal che fa l’opposizione al presidente. La sua miglior penna, James Fallows (che fu anche speechwriter di Jimmy Carter) il 13 luglio del 2015 impaginò un triplo salto mortale senza rete: “Donald Trump non sarà il 45° presidente degli Stati Uniti. Né il 46°, né qualsiasi altro numero tu possa nominare. Le possibilità di una sua nomination ed elezione vincente sono esattamente zero”. Bravo, Fallows. Quattro anni dopo, rischia di vedere per la seconda volta realizzata al contrario la sua profezia sbagliata.

Trump continua a pensarla male su McCain (“non siamo mai andati d’accordo” ha commentato ieri) e sulla guerra in Vietnam (e naturalmente anche in Iraq e in Afghanistan), mentre The Atlantic è sempre in trincea contro The Donald che, sorpresa, s’inventa un rovescio da fondo campo e fa lui il nome di una possibile fonte, giocando a scoprire i suoi sospetti. A chi pensa Trump come “gola profonda” (era il nickname della fonte segreta dello scandalo Watergate, vedere “Tutti gli uomini del presidente”, film del 1976 con Dustin Hoffman e Robert Redford) del caso sui caduti in guerra?

Nella sua mente si agitano fantasmi, non può che essere un uomo in divisa: John Kelly, il generale dei marines che Trump chiamò a fare il capo di gabinetto della Casa Bianca. Il presidente sperava di mettere ordine nel caos dell’amministrazione, ma Kelly non vinse il record di durata alla Casa Bianca perché (Trump dixit) “non era in grado di gestire la pressione di questo lavoro”. Lavoro? È la pressione di Trump.

Naturalmente dopo questi fatti il “nevertrumpista” per cui fino a ieri il Vietnam era quello che era (una pazza guerra, una sciagura politica e strategica innescata dall’amministrazione Kennedy) ora per scorno finisce dall’altra parte della giungla. La lotta tra fazioni, la politica polarizzata conduce a questi estremi e (im)possibili sottosopra. Rischiano tutti di fare la fine di Lee Marvin e Toshiro Mifune in “Duello nel Pacifico”, film del 1968 diretto da John Boorman, dove un pilota americano e un soldato giapponese, gli unici due abitanti dell’isola, combattono una guerra solitaria.

Che cosa sta succedendo nella campagna presidenziale? Perché si passa dal coronavirus alla guerriglia urbana, dalla crisi economica al morire per Saigon? Siamo nel campo minato della battaglia politica, tutto regolare. Per non perdere l’orientamento suggeriamo la lettura di un libro sull’amministrazione Kennedy e il fallimento della guerra in Vietnam: “The Best and the Brightest”, di David Halberstam, pubblicato nel 1972. Halberstam era un principe del giornalismo americano, una penna non convenzionale e non allineata, scrisse il libro dopo 4 anni di lavoro, vinse il Premio Pulitzer.

Un mito della storia del giornalismo americano, James “Scotty” Reston, figlio di una famiglia povera emigrata dalla Scozia in America nel 1920, spiegò il motivo che innescò la catena tragica di errori di Kennedy e dei suoi consiglieri in Vietnam. Subito dopo aver incontrato un arcigno Nikita Krushev a Vienna (gli Stati Uniti avevano fallito nell’aprile del 1961 il blitz alla Baia dei Porci a Cuba), Kennedy decise di aumentare le pressioni  su Mosca e incrementò l’assistenza militare al governo vietnamita.

Cosa c’entra la guerra in Vietnam

L’incontro con Krushev scosse Kennedy a tal punto da fargli dire a Reston: “Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarlo”. Quell’impulso rabbioso di Kennedy fu la scintilla che fece partire la guerra senza fine e la più grande sconfitta militare degli Stati Uniti con oltre 58 mila morti, giovani americani spediti nella giungla a combattere le ombre dei Viet Cong. Quel conflitto fu un fallimento. E il giudizio storico non cambia a seconda di quello che dice Trump e come lo interpretano i suoi avversari.

A cosa serve citare un libro sulla guerra in Vietnam – e l’inesperienza politica che la fece nascere –  a due mesi dal voto presidenziale? C’è l’attualità, le notizie pubblicate da The Atlantic, c’è la reazione di Trump, c’è l’evocazione della figura di John McCain, c’è la guerra. E soprattutto c’è  l’insegnamento del generale prussiano di Carl Von Clausewitz: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”.

La campagna presidenziale è come una guerra. E dunque il Vietnam  ci interessa parecchio.

Nelle pagine di “The Best and the Brightest” c’è una storia rivelatrice. Lyndon Johnson, il vicepresidente di Kennedy, dopo la prima riunione del governo, va a riferire entusiasta al suo mentore, Sam Rayburn (democratico, fu presidente della Camera per 17 anni) e gli racconta dell’intelligenza dei membri dell’amministrazione Kennedy, del loro raffinato intelletto, oh quanto è brillante e che menti ci sono in questo team, Sam. Rayburn, uomo di vasta esperienza politica, lo gela: “Bene, Lyndon, forse hai ragione e forse ognuno di loro è intelligente come tu dici, ma mi sentirei un po’ meglio se tra questi vi fosse almeno uno che si è candidato per fare lo sceriffo una volta”.

Nessuno di loro ovviamente s’era mai candidato a fare lo sceriffo. Troppo eleganti e intelligenti. E in Vietnam finì malissimo.

La metafora dello sceriffo

Lo sceriffo è la perfetta metafora, il passaggio dalle chiacchiere alla realtà. E la realtà è che la macchina del voto è partita razzo, in North Carolina sono state inviate 643 mila schede agli elettori che hanno chiesto di votare per posta, uno dei “Battleground State” insieme ad Arizona, Florida, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Donald Trump, rievocando lo spettro dei brogli, ha suggerito di votare due volte, tanto per mettere alla prova il sistema: una per posta e l’altra di persona. Forse perché, come sostiene Tom Stoppard, “non è il voto che fa la democrazia ma è il conteggio dei voti”.

Anche qui la Casa Bianca ha poi corretto il tiro: “Il presidente non ha suggerito niente di illegale”. Flip flop. Altro giro, altra corsa.  Visto che i fan tendono a seguire alla lettera quello che dice Trump, le autorità del Tar Heel State hanno fatto decollare un lungo comunicato per ricordare come votare più di una volta sia un reato. Nel 2016 erano stati meno di 40 mila a chiedere di votare per posta nella Carolina del Nord, ma con gli Stati Uniti in piena crisi da coronavirus la percentuale potrebbe fare un balzo di 10 o 15 volte. Pew Research Center segnala come la quota degli americani che ha votato per posta sia quasi raddoppiata dal 2000 al 2016, passando dal 10% al 21%. E non c’era ancora il coronavirus.

Prossime tappe della campagna? Donald Trump e Joe Biden sono pronti a salire sul ring del primo confronto diretto. Televisione. Tutti a Cleveland, Ohio, il 29 settembre. Negli Stati in bilico il corpo a corpo è già in corso. Il presidente e lo sfidante democratico questa settimana hanno fatto tappa entrambi a Kenosha, nel Wisconsin, teatro delle proteste contro il razzismo scatenate dal caso Jacob Blake.

Altro appuntamento in agenda, l’11 settembre, attentato alle Torri Gemelle, 19 anni fa. Trump e Biden andranno a Shanksville, in Pennsylvania, il luogo dove il volo United Airlines 93 si schiantò dopo un’eroica rivolta dei passeggeri contro i dirottatori che erano chiusi nella cabina di pilotaggio. Sono quasi vent’anni, sembra ieri, eravamo “tutti americani”. Molti lo sono stati solo per un attimo, altri mai, altri non lo sono più. Ci sono quelli che restano.

La spaccatura del mondo americano

L’America è questo intreccio di storie, passato e presente, il dramma e la farsa. Dolore e gioia. La tragedia e il comico. Le elezioni presidenziali sono un contenitore di tutti i generi del racconto. Sempre dalla Pennsylvania, il Keystone State, giovedì il presidente ha preso in giro Joe Biden che continua a indossare la mascherina contro il Covid. I repubblicani e i dem qui si dividono, mostrano le differenze, la spaccatura del mondo americano. Ci sono simboli che vengono usati come chiavi inglesi per smontare gli ingranaggi dell’avversario. Così la portavoce di Trump, Kayleigh McEnany,  ha aperto “l’offensiva coiffeur” della campagna, criticando la speaker  della Camera Nancy Pelosi per non essersi coperta il volto mentre era dal parrucchiere a San Francisco. Colpi di spazzola.

Si viaggia, l’Air Force One atterra e decolla tutti i giorni ormai. E in Pennsylvania vanno e vengono i destini della Casa Bianca. Qui Trump parteciperà il prossimo 15 settembre al town hall organizzata dalla Abc con un gruppo di elettori indecisi, on line e in presenza. Siamo nella fase del riscaldamento dei ferri prima del dibattito tra i due candidati. Biden che fa? È stato invitato da Abc, ma sembra non abbia ancora accettato.

Nel 2016 Trump vinse la Pennsylvania con un margine di appena 44 mila voti, meno dell’1% rispetto alla rivale Hillary Clinton. Da quando è alla Casa Bianca ha visitato lo Stato almeno una ventina di volte, privilegiando i piccoli centri, le aree rurali, quelle che lo hanno portato al trionfo quattro anni fa. Con in dote 20 grandi elettori, la Pennsylvania è determinante per la corsa presidenziale. Solo California, Texas, Florida e New York ne vantano di più. Monmouth University vede Biden al 49% in Pennsylvania contro il 45% di Trump.

Abbiamo citato la Florida, il nostro pensiero va alla bella Miami, ma quello di Biden e Trump corre verso il peso che ha lo Stato (vale 29 grandi elettori) nella corsa presidenziale. Dati, numeri, sondaggi, speranze. Ultime stime di Trafalgar sulla Florida, vince Trump su Biden 48,7% contro 45,6%.

Quinnipiac University dice che nello Stato la corsa è “Too Close To Call”, è un testa a testa e non c’è un vincitore. La media di Real Clear Politics dà Biden in vantaggio di 1.8 punti. Sembra il film del 2016.

Il timore di un altro 2016 è diffuso tra i dem, basta leggere i giornali liberal per vedere fiorire gli allarmi. Il New Yorker ha pubblicato ieri un articolo dove il pericolo di un aggancio e sorpasso di Trump su Biden è come avere un Tyrannosaurus Rex sullo specchietto retrovisore dell’auto.

Ma cosa deve fare Trump per fare il bis del 2016? Quello che sta facendo: spostare l’agenda, costringere Biden a inseguirlo sulle notizie, convincere la working class degli elettori bianchi a andare a votare negli Stati in bilico. Se riesce a fare queste cose nei prossimi due mesi, può vincere.

È qui che la nostra storia di oggi si salda con quella di ieri. Biden è rimasto impantanato nel Vietnam delle rivolte dei movimenti che fiancheggiano i democratici, è nella giungla della guerriglia urbana, ha dovuto condannare la violenza a Portland (senza mai essere chiaro, dice il Wall Street Journal), è dovuto andare a Kenosha dopo Trump. Joe insegue. E Trump fa quello che risolve i problemi, sventola la bandiera della legge e dell’ordine, fa la parte che mancava nel governo di JFK: lo sceriffo.

Vedi: America2020: Il Vietnam di JFK e lo sceriffo Trump
Fonte: estero agi