Alessio Calaciura, lo scrittore palermitano morto giovedì scorso, era, come il pastore del racconto di Jean Giono, “un uomo gentile che piantava semi”. Una grande folla gli ha dato l’ultimo addio nell’ex chiesa di San Mattia dei Crociferi alla Kalsa, in quella Palermo popolare che, come lui, sembra costantemente “fuori misura, incontenibile”. Calaciura amava il teatro e la musica, ed era ebanista di mestiere: con il legno ‘parlava’ fino a convincerlo a cedergli e ad assumere forme di inequivocabile bellezza. Aveva condensato il suo esordio letterario in “Volevo essere pernambuco”, una raccolta di coraggiosi racconti in cui, alternando la lingua italiana al dialetto siciliano, la vita e l’amore per la vita emergono trasfigurate, tra l’altro, in ricette gastronomiche surreali per il piatto più delizioso dell’umanità: i “picciriddi”, i bambini. E al pari dei bambini amava gli alberi, in una Palermo che ne conta sempre meno e quei pochi che restano li vede bruciare nell’indifferenza: “Nel mio zainetto blu nelle tesche interne, quello che portavo sempre con me – scrive Calaciura in uno dei racconti, letti dagli amici nel corso del saluto – c’era una quantità di semi notevole. A qualche amico aprivo la mano e dicevo: piantali! che la nascita ti farà stare solo bene. Perchè la nascita di un alberello assomiglia tanto a quella di un picciriddo. Lo devi curare, lo devi nutricare, detto in palermitano. Poi vedrai, camminerà da solo”. (AGI)
FAB