Gli ultimi messaggi dei due ragazzi. I genitori: liberateli Protesta delle famiglie dei 155 prigionieri con il premier
Greta Privitera
6.39, primo bip su Whatsapp. Maya: «Stiamo bene». 6.45, Maya: «Non preoccupatevi». 8.01, Maya: «Mami, ti amo molto moltissimo». La chiamata. 8.58, Maya: «Papà, mi hanno sparato. Mi hanno sparato». «Dove siete?». Maya: «Non lo so, papà, ci sta uccidendo». «Maya dove siete, mandami la posizione». Maya: «Non posso papà, siamo morti». «Nasconditi! Trova un posto per nasconderti». Maya: «Papà, ti amo, siamo in macchina, non possiamo uscire». «Sto venendo verso di voi, datemi la posizione». Silenzio. Le ultime parole che Ilan dice ai suoi figli sbattuti dentro un pick up di Hamas sono «datemi la posizione», perché fino alla fine ha creduto di poterli riportare a casa. Ilan Regev era nel suo letto con la moglie Merit quando ha ricevuto la chiamata di Maya, 21 anni, e Itay, 18. Sabato 7 ottobre i due fratelli stavano ballando al Nova Music Festival quando i terroristi hanno fatto irruzione uccidendo e facendo ostaggi.
«Ridateci i nostri figli», sono le prime parole di Merit, in videochat. Non dorme e non mangia da otto giorni perché «dormirò solo quando li avrò qui con me», continua. Merit non si commuove mai. «Sono una donna forte», ci tiene a precisare. Ma ogni tanto, interrompe il racconto e va su Whatsapp per controllare la chat di Maya: «Chissà, sono un’ottimista», dice. La famiglia Regev è di Herzliya, vicino a Tel Aviv. Da sabato è entrata a far parte del gruppo dei parenti degli ostaggi di Hamas, che le autorità dicono essere 155. Ieri, Benjamin Netanyahu li ha incontrati per la prima volta: molte famiglie lo accusano di averli abbandonati. «Bibi deve andarsene, ha portato il Paese allo sfascio e ora non sa come gestire questo disastro. Prima era la riforma della giustizia, adesso è molto peggio. Abbiamo protestato un anno contro di lui, ora non smetteremo», ci dice Liel, fratello di un’altra ragazza di 18 anni finita nella rete di Hamas. Sabato, il capo del Consiglio di sicurezza nazionale, Tzachi Hanegbi, ha affermato che «Israele non terrà negoziati con un nemico che abbiamo promesso di far scomparire». In risposta, i familiari dei prigionieri si stanno dando appuntamento davanti al ministero della Difesa, a Tel Aviv: «Riportateceli a casa», gridano.
«Siamo tornati venerdì sera da un viaggio in Messico. Appena atterrati, Maya e Itay sono corsi a quel festival. Erano così felici». Merit alza la voce: «I miei figli non sono soldati, sono due ragazzi innocenti, bellissimi». Prosegue un’amica accanto a lei: «La conferma del loro rapimento è arrivata via social». La sera stessa, Hamas ha pubblicato un video in cui Ilan e Merit hanno riconosciuto Itay, sdraiato, con le mani legate, nel retro di un furgone. «Cosa fai quando vedi tuo figlio così? Siete di Milano? Pensate ai vostri ragazzi rapiti in piazza Duomo. Può la vostra mente concepire un’oscenità del genere?». Merit chiede un favore: «Papa Francesco può aiutarci nella negoziazione?»
Il 7 ottobre, Liel, invece, si trovava nel kibbutz di Beeri, dove sono morte almeno cento persone. Lui, la madre e la nonna si sono nascosti nella «stanza di sicurezza», mentre «mia sorella è stata presa. Il suo telefono è stato geolocalizzato a Gaza. Mia madre va avanti a psicofarmaci». Liel racconta di aver visto in faccia i miliziani: «Alcuni avranno avuto 14 anni. Hamas tiene in ostaggio due popoli».
Fonte: il Corriere