La testimonianza di Yasmin Margolis è stata raccolta dall’AGI il 18 marzo nel kibbutz Kissufim, al confine con la Striscia di Gaza.
“Saar ha combattuto per dieci ore, è morto sulle scale della casa della famiglia del comandante della sicurezza del kibbutz che ha contribuito a salvare. Per il futuro non ho risposte. Non so se o quando tornerò qui, a casa mia. Ritengo che non siamo al sicuro da nessuna parte in Israele, ma questo Paese resta il posto più sicuro al mondo per un ebreo e non me ne andrò mai via da qui”. A parlare è Yasmin Margolis, sopravvissuta al massacro del 7 ottobre compiuto dai miliziani di Hamas nel kibbutz Kissufim, tra i più vicini alla Striscia di Gaza.
Lei e le due figlie di 8 e 10 anni, Mia e Tavor, ce l’hanno fatta, sono state salvate dopo essere rimaste per ore e ore barricate dentro la stanza sicura nell’abitazione. Suo marito invece no: è uscito di casa per combattere i terroristi che quella mattina si sono infiltrati nella piccola comunità agricola e non è più tornato. Dei circa 250 abitanti, 15 sono stati uccisi e quattro sono stati portati nella Striscia. Di questi, solo uno è ancora nelle mani di Hamas, Shlomo Mansour, l’ostaggio più anziano, che ha compiuto 86 anni in cattività.
Yasmin, trentacinque anni, lunghi capelli neri, indossa una maglietta che ha creato lei, con disegnata l’immagine del volto di Saar e la tomba con i suoi guantoni da boxe, insieme alla scritta che lui si era fatto tatuare, ‘Non ho un altro Paese’. Quando parla del marito, spesso tocca la sua fede nuziale che porta al collo: “Così lo sento vicino”, spiega, con un sorriso a mezza bocca. La giovane donna accompagna un gruppo di giornalisti, tra cui l’AGI, nella sua personale ‘via crucis’, il percorso che ha fatto il marito dentro il kibbutz invaso dai miliziani di Hamas la mattina del 7 ottobre, da quando si sono salutati con un bacio sulla porta di casa a quando è stato ucciso. Mentre parla, in sottofondo si sente il rumore dei bombardamenti israeliani su Gaza, che dista poco più di un chilometro. Stanotte le forze armate israeliane hanno lanciato un’operazione contro l’ospedale al-Shifa, nel nord della Striscia, sostenendo che alti esponenti di Hamas si sono riuniti nel complesso medico e lo usano come base. I combattimenti proseguono e in zona si sente distintamente il cannoneggiare contro l’enclave palestinese.
“Il giorno in cui mi sono trasferita a Kissufim, Hamas mi ha dato il ‘benvenuto’ sparando una scarica di razzi. All’epoca non avevamo ognuno il proprio rifugio, ma solo quelli comunitari. Avevamo pochi secondi per correre dentro, faceva paura ma ci si abitua, il beneficio di vivere qui era maggiore”, ricorda Yasmin. “La mattina del 7 ottobre mi sono svegliata presto, verso le 5, ho fatto una lavatrice e improvvisamente è risuonato l’allarme. Le bombe erano continue, cadevano con un ritmo più intenso del solito. Siamo corsi nella stanza sicura della casa, con Saar che faceva battute e le bambine che ridevano. Ma dopo pochi abbiamo sentito il rumore delle moto”.
“Noi vivevamo nella parte ovest del kibbutz verso Gaza. Mio marito è uscito e ha visto un gruppo di uomini in moto. E’ rientrato, si è armato, ha preso il telefono di sicurezza, mi ha dato una pistola e mi ha detto di chiuderci nella stanza sicura e non rispondere a nessuno. L’ho accompagnato alla porta, l’ho baciato e alle 7.30 se n’è andato. Ci siamo parlati per telefono più volte nelle ore successive, stava combattendo ma non mi diceva quello che succedeva fuori… i morti, gli ostaggi. La casa è stata attaccata, qualcuno ha cercato di entrare, abbiamo sentito una sparatoria intorno, alcune ore dopo è andata via l’elettricità e siamo rimaste chiuse dentro, in silenzio e al buio”. “Alle nove di sera è arrivata la sicurezza che ci ha detto di andare via – prosegue il racconto di Yasmin – C’erano molti soldati, ho capito che non era normale. Saar non si vedeva ma ho pensato che fosse a combattere. Si sentiva ancora il rumore dei colpi d’arma da fuoco, c’erano corpi per terra. Le bimbe sono uscite con indosso i pigiami, portando poche altre cose, fino a un bus poco distante che ci ha trasferito in un hotel sul Mar Morto dove siamo tuttora”.
Il percorso che compie Yasmin nel kibbutz parte dalla zona dove si trovavano gli alloggi dei giovani della comunità, accanto alla base militare. E’ qui il primo luogo dove Saar e i soldati si sono scontrati con gli uomini di Hamas, cercando di respingerli. Ci sono buchi di proiettile tutto attorno e le casette sono marcate con una X a indicare che dopo l’attacco sono state dichiarate ‘pulite’ da corpi, miliziani e trappole esplosive. Poi si ferma davanti alla casa della suocera, che quel giorno non c’era, era fuori per le festività.
L’abitazione a due piani è completamente devastata: il pavimento del soggiorno-cucina è ricoperto dai vetri delle finestre, mobili ed elettrodomestici sono distrutti, il letto è ricoperto dalle piume dei cuscini sventrati, con i buchi dei proiettili sulle pareti e le porte divelte, mentre il secondo piano è talmente danneggiato che risulta inagibile per il rischio di crollo. “I terroristi l’hanno occupata perché essendo più alta delle altre forniva un buon punto dal quale sparare. Nell’appartamento accanto hanno ucciso il padre, mentre i tre figli si sono salvati”, spiega Yasmin.
L’ultima tappa è la casa del capo della sicurezza locale, “l’ultimo posto dove Saar ha combattuto prima di essere ucciso. C’erano molti terroristi all’interno. E’ stato il primo a cercare di entrare, seguito da altri soldati. E’ caduto sul terzo gradino, un militare è stato colpito dietro di lui, gli altri sono sopravvissuti e sono riusciti a recuperare i corpi e portarli al sicuro”.
Il futuro di Yasmin e delle due figlie è nebuloso: come gli altri abitanti dei kibbutz nella cerchia intorno a Gaza, sfollati dopo l’attacco, il presente è costituito da una residenza provvisoria sul Mar Morto, cui seguirà una casa temporanea in un quartiere tirato su in fretta e furia per ospitarli per i prossimi due anni. Più in là con l’immaginazione, la giovane donna non può e non riesce ad andare.
“Al momento potrei anche vivere sulla Luna, l’importante è che le mie figlie stiano bene”. “Penso che succederà di nuovo (un attacco; ndr), non è qualcosa che penso da adesso, ho sempre avuto questo pensiero, siamo così vicini a Gaza. E comunque ritengo che non siamo al sicuro da nessuna parte in Israele. Sono stata dai miei genitori ad Ashkelon nel fine settimana, a causa di un attentato c’erano molte auto della polizia per la strada e mia figlia più grande ha avuto un attacco di panico, voleva tornare al Mar Morto. Ma questo Paese resta il posto più sicuro al mondo per un ebreo e non me ne andrò mai via da qui”. Quanto ai palestinesi, “voglio che vivano in pace, anch’io voglio vivere in pace. Ma insieme non è possibile, solo separati”. (AGI)
SCA