di Rino Sciuto
7 agosto 1990, Roma, al civico 2 di via Poma, nei pressi della centrale Piazza Mazzini, all’interno dello studio A.I.A.G. (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù), in cui lavorava come segretaria occasionale, incaricata dallo studio di commercialisti da cui dipendeva, la Reli s.a.s., viene ritrovato il corpo senza vita di Simonetta Cesaroni, 19 anni.
Sarà la sorella Paola a fare la terribile scoperta, preoccupata dal fatto che Simonetta, abituata a comunicare i suoi spostamenti alla famiglia, quella sera non si è fatta sentire, e al telefono non risponde. Paola telefona al titolare dello studio, Giuseppe Volponi, e i due si incontrano sotto l’ufficio. Entrano insieme, per fare la cruda scoperta: Simonetta giace senza vita in un lago formato dal suo sangue.
Immediate scattano le indagini, e il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, il fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, Salvatore Volponi, il datore di lavoro della vittima, Federico Valle, il cui padre aveva uno studio nello stabile, finiscono nel mirino degli inquirenti. In particolare Busco, è sospettato di essere l’omicida, di aver ucciso la giovane, colpendola con diverse decine di coltellate, dopo un approccio sessuale non consensuale.
In Tribunale Busco sarà completamente scagionato dalle accuse e contestualmente la morte di Simonetta entra a far parte dei cosiddetti cold case nazionali.
La vicenda è rimasta incagliata per anni nelle aule dei tribunali, con colpi di scena frequenti, come il suicidio del portiere di Via Poma 2, Pietrino Vanacore, a sua volta accusato di essere l’omicida di Simonetta, e arrestato per questo reato il 10 Agosto del 1990, per essere scagionato dalle accuse il 16 Giugno del 1993. “Il fatto non sussiste”, decretarono i giudici, e la cassazione conferma nel 1995.
Il corpo di Vanacore fu ritrovato in mare a Maruggio, provincia di Taranto, con una modalità esecutiva del suicidio molto particolare. L’uomo aveva legato una lunga fune a un piede e aveva assicurato l’altra estremità a un albero che sorgeva sulla scogliera. Non basta: pensa anche di ingerire dell’anticrittogamico.
Nel 2007 ecco un nuovo colpo di scena: Busco torna nel mirino degli inquirenti, e risulta nuovamente indagato per la morte della Cesaroni. A oltre 17 anni dalla morte della sua fidanzata, torna a essere il sospettato numero uno. Il 26 febbraio 2014 la Cassazione ha confermato l’assoluzione – che diventa definitiva – per Raniero Busco dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni.
Perché questo ripensamento da parte della Procura? “Atto dovuto”, perché a quanto sembra era stata depositata una consulenza che, di fatto, rimise sotto i riflettori quest’uomo. Per decenni Busco non ha fatto che dichiarare, sia nelle aule di tribunale, sia alla stampa, che Simonetta per lui era “Una parentesi passeggera”. Sulla morte di Simonetta, a cominciare dai media nazionali, sono state fatte supposizioni e illazioni di ogni genere, compresa quella secondo la quale la donna si fosse invaghita di un altro uomo.
Tra la realtà dei fatti e la narrazione mediatica, si sa, passano almeno due oceani, ma nel frattempo l’opinione pubblica si fa un’idea, che a volte, forse spesso, è quella errata.
A livello investigativo forse furono fatti alcuni errori di superficialità, come per esempio l’aver rilevato sommariamente le tracce di sangue, ma c’è anche da dire che le tecniche utilizzate nel 1990 non sono certo simili a quelle, innovative, di cui si dispone attualmente. La Cesaroni, questo è stato evidenziato dopo l’esame autoptico, fu accoltellata per 30 volte con la mano sinistra dell’omicida. Ovviamente la scena del crimine era un allagamento del suo povero sangue, ma andavano ricercate meglio altre tracce biologiche, che anche all’epoca erano comunque rilevabili. Certo, con le tecnologie odierne, è possibile anche rianalizzare i vecchi reperti e scoprire qualcosa di nuovo.
Sta di fatto che, a ben 31 anni di distanza dalla morte di Simonetta, si chiede a gran voce la riapertura delle indagini perché potrebbero esserci molti elementi che all’epoca non furono ben valutati e analizzati.
Fu un caso, all’epoca, che mi appassionò molto. Proprio in quei giorni, ero ancora giovane Brigadiere dell’Arma, avevo lasciato il Reparto Operativo di Roma per andare ad assumere il comando della stazione Carabinieri di Jenne, un piccolo centro sui monti Simbruini a circa 80 km dalla Capitale. Ebbi un senso di ripensamento interiore, mi sarebbe piaciuto indagare su quel caso. Ripensamento interiore che provai ancora l’anno successivo, a luglio del 1991, quando avvenne l’omicidio della contessa Alberica Filo Della Torre, più noto come delitto dell’Olgiata.