Acrobazie monetarie (e verbali)


Franco Bruni

Vice Presidente e Co-head Europa e Governance Globale, ISPI; Professore Emerito, Università Bocconi

Le decisioni prese mercoledì dalla banca centrale statunitense, la FED, di tener fermi i tassi di interesse, dalla BCE il giorno dopo, di alzarli di 0,25%, erano prevedibili e previste. Ma in entrambi i casi hanno messo in luce la complessità che le banche centrali stanno incontrando nel decidere e, soprattuttonell’annunciare e comunicare.

Preannunciare o “dipendere dai dati”?

La FED ha interrotto il continuo rialzo dei tassi cominciato nel marzo del 2022, che li ha aumentati di ben 5 punti percentuali. Ma ha dovuto giocare con le parole distinguendo pause, cioè un’interruzione che potrebbe essere duratura, da skip, cioè il semplice salto di una riunione nel proseguire gli aumenti. Ha ribadito che vuol decidere, di riunione in riunione, guardando fino all’ultimo i dati che emergono dai mercati; peccato che il suo presidente Jerome Powell aveva da alcune settimane quasi preannunciato, prima che nuovi dati promettessero più inflazione e congiuntura più robusta, di voler fare una sosta con i rialzi. Soprattutto, ha sostanzialmente promesso di accontentare chi vorrebbe alzarli di mezzo punto entro fine anno. Quindi un colpo al cerchio e uno alla botte, solo uno skip e nuovi preannunci senza attendere i dati: confusione?

Anche la BCE ha ribadito con solennità che “continueremo a seguire un approccio dipendente dai dati”, ma Christine Lagarde non ha esitato, nel rispondere a una domanda, a promettere nuovi rialzi fin dalla prossima riunione di fine luglio. Entrambe le banche centrali hanno quindi preso atto delle molteplici incertezze dell’economia ma non hanno contribuito a ridurle con le loro dichiarazioni, salvo per l’annuncio credibile che non smetteranno di darsi da fare per vincere l’inflazione.

Durante l’acrobazia per aumentare i tassi di 4-5 punti e ridurre l’inflazione di quasi il doppio, non può non venire al pettine il conflitto fra l’approccio dei preannunci delle decisioni future, usati in passato a lungo per influenzare le aspettative dei mercati, e quello della “dipendenza dagli ultimi dati”, con decisioni non preannunciabili, prese di riunione in riunione.

Acrobazia improvvisata

Finora le improvvisazioni che negli ultimi 12-16 mesi le banche centrali hanno dovuto fare per rientrare svelto e in ritardo dalle passate esagerazioni erano accettabili e le loro confusioni perdonabili. Con inflazioni da far rientrare rapidamente da oltre il 10-12% e tassi da smuovere da un lungo periodo di sostanziale azzeramento, sembrava impossibile prevedere il corso delle cose, nei prezzi dei beni e dei titoli finanziari, negli equilibri di liquidità delle banche e delle imprese, nelle aspettative allarmate dei mercati. Non si possono annunciare mosse imprevedibili né abbracciare regole valide in tempi normali, ma non si può nemmeno ammettere di essere puri “sugheri” galleggianti fra le onde – come Donato Masciandaro chiama la politica senza regole; non si può lasciare i mercati sguarniti di qualche frase su come si muoverà la politica monetaria.

Per comprendere l’imbarazzante incertezza dei banchieri centrali basti ricordare che economisti di prestigio indiscusso non sono d’accordo nemmeno sul mantenere l’obiettivo del 2% di inflazione, comune a tutte le banche centrali, e parlano di alzarlo al 3, al 4 o ancor più su. È in corso una controversa acrobazia e non si può che improvvisare, con una professionalità tecnica che non manca alle banche centrali. Una volta consolidato l’arresto degli eccessi di inflazione, allora sarà il momento di reintrodurre regole, strategie esplicite e maggior prevedibilità delle manovre monetarie. È sperabile che il momento si approssimi svelto; i mercati cominciano a non poter fare a meno di un orientamento più duraturo e coerente. Si tratta soprattutto di capire se il freno all’inflazione è sufficiente, se essa scenderà ancora mantenendo i tassi di interesse fermi dove sono ora e continuando a riassorbire la liquidità in eccesso. Ma capirlo non è facile.

Come si muove l’inflazione?

Proviamo a guardare ai dati. Sono state rese note le stime ufficiali dell’inflazione dei prezzi al consumo fino a maggio, in USA e nell’Eurozona. Rispetto al maggio dell’anno scorso l’indice dei prezzi statunitense è salito del 4% , quello europeo del 6,1%. Misurata sui dodici mesi precedenti, l’inflazione è calata con regolarità- in USA dall’estate scorsa quando superava il 9%, nell’Eurozona dall’autunno, quando superava il 10%. Per capire la dinamica dell’inflazione non è però sufficiente guardare al rapporto fra i prezzi di un mese e quelli dello stesso mese dell’anno precedente. Non si riesce a cogliere la dinamica dei prezzi nel corso dell’anno, che può essere significativa anche per prevedere il suo movimento futuro, per esempio se sta accelerando alla fine dei dodici mesi dopo aver prima rallentato. Fra l’altro, se l’anno prima i prezzi erano molto alti, il loro aumento dopo dodici mesi può sottostimare la spinta di fondo che essi stanno avendo.

Per questo si guarda anche all’aumento percentuale dei prezzi di mese in mese. Il quale è però spesso troppo variabile, anche perché i prezzi dei singoli beni richiedono tempi diversi per riflettere la dinamica di fondo dell’inflazione che li investe. Può essere dunque utile, per esempio, fare la media mobile dell’aumento mensile dei prezzi con quelli dei mesi precedente e successivo, in modo da smussarne la variabilità ma anche per incorporare la dinamica tendenziale dell’inflazione, quella del mese dopo, che riflette le probabili aspettative di crescita dei prezzi nel mese precedente, alle quali, a loro volta, l’inflazione si sta alimentando (nel grafico).

Si vede allora che l’inflazione era già scesa molto nella seconda parte dell’anno scorso: negli USA fin dalla primavera, in Eurozona solo dopo settembre. Ma all’inizio di quest’anno ha ripreso a crescere, anche se ultimamente  ci sono segni di netto calo in ambito europeo. Si vede pure che negli ultimi 30 mesi, sia in USA che nell’Eurozona, l’inflazione mensile è stata superiore, a volte molto, allo 0,4-0,5%. Poiché normalmente si ragiona in tassi di inflazione annuali, è bene tener presente il significato dell’intensità mensile del fenomeno. Lo 0,4% al mese significa quasi il 5% all’anno, lo 0,5% equivale a più del 6%, e così via; l’1% al mese è quasi il 13% annuo. Dunque l’inflazione è ancora alta negli USA, e nell’Eurozona è stata alta almeno fino al mese scorso. La BCE ha fatto sapere che prevede rialzi ancora la testa, soprattutto per quel che riguarda quella dei beni più frequentemente acquistati.

Dal grafico ci si rende anche conto di come l’inflazione sia stata alta per tutto il 2021, soprattutto in USA dove in media viaggiava all’equivalente di circa l’8,5% annuo (nell’Eurozona sopra il 5%), più del 7% registrato fra dicembre 2020 e dicembre 2021. E si vede come sia stata  molto alta nella prima metà del 2022 quando, ogni mese, i prezzi avevano una spinta di crescita equivalente a circa l’11% annuo in USA e al 12% nell’Eurozona, ben più del 6,5 e del 9% registrati nelle due zone rapportando i prezzi di dicembre 2022 a dodici mesi prima.

Un incendio difficile da spegnere

Appare allora impressionante il ritardo col quale la FED e, ancor più, la BCE, hanno cominciato a combattere il correre dei prezzi, con i primi timidi aumenti dei tassi solo in marzo e in luglio dell’anno scorso, come indicano le frecce nel grafico. Non c’è dunque da meravigliarsi che l’inflazione sia ancora un problema, dopo solo 14 mesi dalla svolta monetaria in USA e 10 nell’Eurozona. La corsa dei prezzi è un incendio diffuso e difficile da spegnere.

Che cosa succederà prossimamente? I tassi di interesse mettono tempo a mordere, anche perché provengono da anni nei quali son stati attorno allo zero e perché la stretta monetaria avviene in un ambiente dove la liquidità accumulata nell’economia è ancora notevole. Alcuni indicatori delle aspettative di inflazione sembrano incoraggianti, ma solo recentemente l’aumento dei costi di indebitamento ha cominciato a frenare chi aveva ricorso a lungo a finanziamenti a buon mercato.

C’è ovviamente il timore che l’aumento dei tassi, soprattutto se continua, produca crisi di liquidità e di insolvenza di intermediari finanziari, che negli anni di moneta sovrabbondante sono stati indotti a esagerare lo squilibrio fra le scadenze e i rischi dei prestiti e dei titoli del loro attivo e le caratteristiche della loro raccolta. Lo si è già visto con la crisi di alcune banche americane medio-piccole, ma anche i banchieri europei hanno ansie giustificate. Le eventuali crisi finanziarie, prima si mescolerebbero all’inflazione, con una combinazione davvero costosa per le macroeconomie; l’aumento dei prezzi che ne deriverebbe sarebbe forzato e doloroso perché causato soprattutto dalla recessione. Dunque le banche centrali dovranno completare con molta cautela l’acrobazia, che hanno cominciato troppo tardi, per frenare l’inflazione senza destabilizzare troppo la crescita e la stabilità finanziaria. Una cautela che  però, se l’inflazione non continuasse a ridursi, potrebbe far prevedere una sua più lunga permanenza e quindi rialimentarla con le aspettative.

Infine: le banche centrali hanno perso molta della loro credibilità (e qualcuno sospetta anche della loro indipendenza dai governi e dai mercati) durante anni in cui hanno mirato inutilmente ad alzare l’inflazione, inondando i mercati con moneta che ora cercano di riassorbire. Non è giusto chieder loro di mettere altra credibilità in balia dell’inevitabile insolita incertezza di questa fase. Tifiamo per un completamento dell’acrobazia, riconquistando credibilità. Prepariamoci poi a pretendere che dopo si “leghino le mani” con regole capaci di moderare i loro eccessi e generare consistenti riduzioni dell’inevitabile incertezza di ogni tempo. Allora i loro annunci potranno essere lungimiranti e di effettiva guida ai mercati e alle decisioni di finanza pubblica. Nel mio libro appena uscito (Oltre le colonne d’Ercole: ripensare le regole della politica monetaria, Egea) cerco di proporre alcune di queste regole.