1979 – Il 12 Settembre Pietro Mennea fissa, alle Universiadi del Messico, il record mondiale sui 200 che durò per ben 17 anni con il tempo di 19″72


 

Era il 12 settembre 1979 quando il velocista pugliese Pietro Mennea (1952-2013) conquistò il primato mondiale, a lungo imbattuto, nei 200 metri piani con il tempo di 19″72, che costituisce tuttora il record europeo (mentre Marcell Jacobs detiene il record europeo per i 100 metri piani). Quel giorno, il 27enne pugliese entrò nell’olimpo dei velocisti: aveva appena strappato il primato a uno dei più grandi sportivi statunitensi, Tommie Smith, che nel 1968 (sempre a Città del Messico, in quota) aveva percorso la stessa distanza in 19″83, primo ad abbattere il muro dei 20 secondi sui 200 metri.

GARE CON LE AUTO. L’avventura da corridore di Mennea iniziò prestissimo. A soli 13 anni entrò nel G.S. Avis Barletta e a 15 affrontava auto di grossa cilindrata sui 50 metri, di notte. “È arrivata una Porsche da Brescia, la vuoi sfidare?”,  gli dicevano. Lo raccontava lui stesso nelle interviste: “Scommettevano e a me davano 500 lire di premio”. Con quei soldi il giovane Pietro si comprava un panino. “Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui (il padre, ndr). Oggi non mi entrano più, nemmeno al braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora crescere, sarebbero durate”.

VINCENTE IN TUTTI I CAMPI. Nato nel 1952, era il terzo di cinque figli, padre sarto, madre casalinga che aiutava il marito e si occupava dei figli. «Le condizioni economiche della famiglia, pur dignitose, impongono sacrifici. E da essi il giovanissimo Pietro impara molto presto una propensione alla fatica e all’adattamento che ne forgiano il carattere e risulteranno determinanti nella formazione del suo talento», racconta il giornalista Pippo Russo nel libro Pietro Mennea. Più veloce del vento (Edizioni Clichy). Convinto che solo con tanta fatica si ottengano risultati, Mennea si buttò a capofitto in ogni impresa della sua vita: nello studio (prese cinque lauree Isef, Scienze politiche, Giurisprudenza, Lettere e scienze motorie), nel lavoro (commercialista, avvocato, professore e scrittore) e naturalmente nella corsa. “Lo sport insegna che per la vittoria non basta il talento, ci vuole il lavoro e il sacrificio quotidiano. Nello sport come nella vita”, diceva Mennea.

ALLE OLIMPIADI. La prima medaglia olimpica arrivò nel 1972, di bronzo, sui 200 metri alle Olimpiadi di Monaco (tristemente note per la vicenda degli atleti israeliani rapiti da un commando di terroristi palestinesi, finita in un massacro): arrivò dietro a due campioni, il sovietico Valerij Borzov e lo statunitense Larry Black.

Era iniziato, per lui, un periodo molto duro di allenamenti serrati a Formia, nel centro di preparazione olimpica. E proprio qui conobbe il suo allenatore, che divenne anche il suo mentore, Carlo Vittori. Il coach marchigiano raccontò spesso l’ossessione dell’atleta barlettano per la perfetta performance, che lo portava a spingersi sempre molto oltre i suoi limiti e a non essere mai contento dei risultati raggiunti.

Magro, tirato, spigoloso, con quella smorfia di fatica stampata sulla faccia in tutte le gare, arrabbiato (diceva che la rabbia gli serviva per vincere), era sempre in lotta per aggiudicarsi il primo posto. Nel 1976 dichiarò di non voler prendere parte alle Olimpiadi di Montreal, salvo poi ripensarci e partecipare, senza tuttavia raggiungere alcun risultato di rilievo (arrivò quarto sui 200 metri). L’episodio, stigmatizzato da larga parte dell’opinione pubblica e dei commentatori, contribuì all’epoca a dare di Mennea l’immagine di un personaggio scorbutico, difficile da trattare. Ma di lì a poco la fama mondiale lo ripagò di ogni amarezza.

RECORD DEI RECORD. Settembre 1979, Universiadi di Città del Messico. L’atleta pugliese mette a segno due primati destinati a durare eccezionalmente a lungo: quello italiano dei 100 metri piani con un tempo di 10″01, battuto dopo 39 anni da Filippo Tortu (2018); e il record mondiale (ancora oggi record europeo) dei 200 metri piani, con quei 19″72 che lo fecero entrare di diritto nella leggenda. Il primato dei 200 passerà indenne un intero decennio (gli Anni ’80) resistendo fino al 1996, quando il velocista statunitense Michael Johnson fermò il cronometro a 19″66 (dal 2009 il record è del giamaicano Usain Bolt, con 19″19). A Mosca nel 1980 arrivò l’oro olimpico, sempre sui 200, strappato (per 2 centesimi) al campione britannico Allan Wells. Ai neonati Campionati del mondo di atletica (Helsinki, 1983) conquistò bronzo e argento.

CARRIERA AVVELENATA. Nell’84 alle Olimpiadi di Los Angeles conobbe il fisioterapista Robert Kerr, dal quale – raccontò al quotidiano La Repubblica – si fece convincere ad assumere sostanze dopanti. Due iniezioni di ormone della crescita (somatotropina, all’epoca non vietata), gli bastarono, affermò, per capire che non ne avrebbe mai più fatto uso. Questa confessione però gli costò molte critiche, che avvelenarono la fine della sua carriera sportiva. A 36 anni compiuti, nell’88 a Seul, partecipò alla sua quarta Olimpiade ma si ritirò dopo il primo turno dei 200 metri.

SECONDA VITA. Negli Anni ’90 per Mennea iniziò una nuova fase della vita. Divenne professore, si sposò e si buttò in politica.

Ma non si legò a nessun partito: nel 1999 fu europarlamentare con i Democratici, nel 2001 si presentò al Senato con Italia dei Valori (non fu eletto), per passare nel 2002 a Forza Italia, che lo candidò alle elezioni per il sindaco di Barletta (non superò il primo turno). Ammalatosi di un tumore al pancreas, tenne segreta la notizia. Con grande sorpresa di tutti, il più grande velocista dell’atletica italiana, detto “la Freccia del Sud”, se ne andò il primo giorno di primavera del 2013, ad appena sessant’anni. Lasciando dietro di sé, oltre a una triste scia di polemiche sull’eredità, un grande insegnamento: “la fatica non è mai sprecata”. Lui ne era la prova vivente.