1973: LE PRIME DOMENICHE DELL’AUSTERITY


 

 

Per affrontare le conseguenze della crisi petrolifera del 1973 il governo italiano, come altri governi europei, adottò misure di austerità volte alla riduzione forzata dei consumi energetici che modificarono nel breve periodo le abitudini dei cittadini e resero l’opinione pubblica consa­pevole della fine di un lungo ciclo di espansione economica. L’attività richiede, come prerequisito, che si abbiano conoscenze elementari di storia economica e politica del Novecento.

 

Fonte @novecento.org

 

A distanza di oltre cinquant’anni, dopo avere attraversato altri momenti e modelli di crisi, le domeniche dell’austerity che incominciarono il 2 dicembre 1973 possono apparire un curioso fenomeno di costume circoscritto nel tempo che non determinò modifiche di lunga durata nelle abitudini quotidiane degli italiani. Tuttavia, rileggendo la stampa dell’epoca, vediamo emergere preoccupazioni sul modello di sviluppo sostenibile, appelli al risparmio energetico in funzione economica ma anche, forse per la prima volta, ecologica, nuove sensibilità verso la ricerca di energie alternative, senza contare che provvedimenti come il blocco della circolazione veicolare o il sistema della circolazione a targhe alterne continuano a fare parte dell’attualità dei nostri centri storici urbani, sia pure per motivazioni differenti. Emerge, inoltre, un’altra suggestione interes­sante dalla considerazione del carattere globale della crisi dei primi anni settanta: in essa si poteva constatare come eventi che si svolgevano a migliaia di chilometri di distanza influenzassero in maniera diretta e immediata la vita quotidiana, avviando la percezione del mondo come un enorme spazio sociale ed economico.

Una crisi complessa e globale

Il 2 dicembre 1973 è la data della prima domenica italiana di “austerity”. Si applicarono quel giorno i più rilevanti provvedimenti scaturiti dalla riunione del Consiglio dei ministri del 22 novembre precedente per fare fronte all’emergenza energetica dovuta alla riduzione della produzione di petrolio e all’embargo deciso dai governi arabi nei confronti degli stati filo-israeliani (in particolare Usa e Paesi Bassi) come ritorsione agli esiti della guerra del Kippur. Agli italiani, come a molti altri cittadini dei paesi occidentali, furono imposte misure atte a contenere i consumi energetici che incisero sulla vita quotidiana, sia pure per un periodo limitato [doc. 1]. Una buona parte dell’opinione pubblica occidentale dovette convertire le proprie convinzioni sull’irrever­sibilità dei processi di sviluppo che poggiavano sulla crescita durata ininterrottamente dalla fine della seconda guerra mondiale: fu la fine della “golden age” o dei “trente glorieuses” e per la prima volta dai tempi della crisi del 1929 si prospettava la recessione.

Nel 1972 gli idrocarburi (petrolio e gas naturale) erano giunti a coprire il 64,4 per cento dei bisogni energetici; soltanto vent’anni prima la percentuale era del 37,6 per cento: l’improvviso calo della disponibilità di risorse colpì in maniera più diretta il settore dei trasporti, con forti conseguenze sulla produzione e sul mercato dell’auto, uno dei simboli universali della crescita economica [doc. 2]. Le ripercussioni furono molteplici e toccarono, oltre alla dimensione politica e sociale, anche quella psicologica. La crisi si configurava anche come novità imprevista dagli esperti economisti, dal momento che per la prima volta nella storia si assisteva alla concomitanza di fenomeni come l’inflazione e la stagnazione, mentre le crisi precedenti si erano associate soltanto alla caduta dei prezzi.

La crescita dell’inflazione, provocando un generale aumento del costo della vita, avrebbe deter­minato la necessità di interventi di adeguamento dei salari e l’innalzamento del costo del lavoro, in una rincorsa che spingeva sempre più in alto i prezzi, innestandosi in un quadro socioeconomico ad alto tasso di conflittualità, causata soprattutto dall’aumento della disoccupazione seguito alla crisi. I governi di molti paesi europei, fra cui l’Italia, dovettero intervenire per ammortizzare i disagi e aumentarono così la spesa pubblica, per coprire la quale risultava inevitabile aumentare la pressione fiscale, fattore che determinò l’avvio della crisi del modello del Welfare State e favorì i successi dei movimenti politici liberisti già alla fine del decennio, quando si verificò una nuova crisi petrolifera.

La crisi del 1973 può essere studiata, in questa prospettiva a medio termine, come la premessa alle trasformazioni che si determinarono verso la fine del Novecento e che stravolsero l’assetto internazionale conseguente alla seconda guerra mondiale.

Il quadro economico

La golden age vide un incremento esponenziale del Pil nell’economia europea e ovunque un ritmo di crescita molto alto, più concentrato nei paesi che erano usciti vinti dalla seconda guerra mondiale (Germania, Giappone e Italia). Il boom economico produsse la creazione di nuovi posti di lavoro, la diminuzione della disoccupazione e il deciso miglioramento del reddito, fenomeni concomitanti che, insieme agli incrementi demografico e del tenore di vita che accompagnarono la felice congiuntura, determinarono l’esplosione dei consumi. Dopo la terribile tragedia della seconda guerra mondiale, nonostante la Guerra fredda e la persistenza di elevati gradi di conflittualità in alcune aree del mondo, la società occidentale viveva una nuova fase di progresso nella convinzione di poter dominare la natura per le proprie finalità, grazie soprattutto allo sfruttamento di risorse energetiche derivanti dai combustibili fossili, disponibili in grandi quantitativi e a bassi prezzi, sempre più necessari per alimentare l’industria e i trasporti. Il mercato petrolifero durante questa stagione rimase sotto il controllo delle majors, definite da Enrico Mattei le “sette sorelle”, che monopolizzarono sin dagli anni venti il ciclo del petrolio godendo di egemonia politica ed economica nei paesi del Terzo mondo e del pieno sostegno dei governi occidentali, degli Usa in particolare, condizioni che consentirono loro di realizzare alti profitti mantenendo bassi i prezzi per i consumatori.

Nel decennio che precedette la crisi si stava tuttavia preparando il terreno per importanti cambiamenti. L’espansione continua della domanda di petrolio si accompagnò al raggiungimento del picco produttivo da parte degli Usa, facendo dichiarare nell’aprile 1973 al presidente Nixon che la domanda di energia era cresciuta così rapidamente da superare le risorse disponibili; da quell’epoca gli Usa diventarono importatori di petrolio, mentre l’area mediorientale, in cui si concentravano le più grandi riserve, incrementava la propria centralità produttiva e si poneva, come i governi di altri paesi produttori, l’obiettivo dell’autonomia nella gestione delle risorse, rivendicando maggiori proventi dal sistema delle concessioni a scapito delle majors, che vedevano così messo in discussione il sistema creato, con la prospettiva di perdere inoltre il controllo del­l’attività estrattiva. Secondo alcune interpretazioni, l’aumento del prezzo del petrolio degli anni settanta convenne tanto ai paesi produttori quanto alle “sette sorelle” per mantenere alti i profitti in un contesto che andava mutando rapidamente, a scapito dei paesi maggiormente dipendenti dalle importazioni come quelli dell’Europa occidentale, mentre gli Usa vedevano parallelamente diventare redditizio lo sfruttamento di giacimenti di gas e petrolio come quelli dell’Alaska e del Golfo del Messico.

A rendere il quadro ulteriormente complesso c’è da aggiungere un altro fattore: l’abbandono da parte degli Usa degli accordi di Bretton Woods, che avevano regolato la politica monetaria interna­zionale dal 1944, in base ai quali il valore del dollaro era corrispondente alla sua convertibilità in oro; dal punto di vista dei paesi produttori la svalutazione della moneta in cui si fissava il valore al barile e la fluttuazione dei cambi resero incerti i valori delle rendite petrolifere, contribuendo a determinare l’aumento dei prezzi.

Il quadro politico e militare

Alle cause economico-finanziarie della crisi si aggiungevano anche motivazioni politiche più profonde, da ricercarsi nelle dinamiche del passaggio verso la decolonizzazione intrapreso dai paesi detentori delle risorse petrolifere alla ricerca dell’indipendenza, del pieno controllo delle proprie risorse, dell’accrescimento della ricchezza interna. Il 14 settembre 1960 era stata fondata l’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori, composta inizialmente da cinque stati (Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Venezuela), allo scopo di costituire un cartello per regolare quantità e prezzo della produzione del petrolio. Dopo un decennio di preparazione, durante il quale l’or­ganizzazione ebbe un ruolo piuttosto debole di fronte alla potenza delle majors petrolifere, nella conferenza di Caracas del 1970 fu concordata dai paesi aderenti, nel frattempo divenuti più nu­merosi, una politica di aumento del valore all’esportazione del petrolio greggio (posted price) e delle tasse per le concessioni petrolifere. L’Opec aumentava il suo potere contrattuale cercando di trarre vantaggio dalla congiuntura della fase di passaggio dall’era della sovrabbondanza di petrolio a quella della relativa scarsità determinata dall’espansione incontrollata della domanda, in cui il Medio Oriente, per disponibilità e abbondanza di risorse, divenne l’area centrale del sistema petrolifero.

In un primo momento l’Opec sostenne la battaglia sui prezzi, incontrando nei governi occidentali la prevalenza della linea aperta alle concessioni per non guastare un quadro politico-diplomatico di cui si temeva la rottura. Le stesse majors, come detto, condividevano con i paesi produttori l’interesse all’aumento dei prezzi al fine di mantenere invariati i saggi di profitto o limitare al massimo il loro impoverimento. Ma dopo l’offensiva sui prezzi i paesi dell’Opec avviarono la battaglia per la partecipazione alle società concessionarie e per il controllo pieno delle risorse, provocando un profondo cambiamento nell’industria petrolifera e la fine del vecchio mondo delle concessioni, uno degli ultimi residui del colonialismo d’antan.

Il quadro storico che porta alla crisi del 1973 comprende anche un evento militare fondamentale per l’incremento esponenziale del prezzo del petrolio e le conseguenti difficoltà economiche. Il 6 ottobre, infatti, giorno della festività ebraica dello Yom Kippur, l’esercito egiziano attraverso la penisola del Sinai e l’esercito siriano dalle alture del Golan attaccarono Israele con lo scopo di sottrarre al suo controllo i territori conquistati durante la guerra dei sei giorni del 1967. Gli Usa intervennero a sostegno di Israele, provocando la reazione araba di fronte all’intervento amer­i­cano: fra il 17 e il 20 ottobre i membri arabi dell’Opec decisero la riduzione del 5 per cento della produzione mensile di petrolio fino a quando non fossero stati liberati i territori occupati nella guer­ra dei sei giorni, l’aumento delle royalties e delle tasse da pagare ai paesi produttori, l’em­bargo nei confronti di tutti i paesi sostenitori di Israele, in particolare gli Usa e i Paesi Bassi. Tale decisione non fu applicata ai paesi ritenuti neutrali, cioè quasi tutti gli stati del mondo occidentale, salvo Francia e Spagna (all’epoca ancora franchista e dunque fuori dal contesto delle democrazie europee), paesi considerati amici in quanto avevano accettato di dichiarare il dovere della restituzione dei territori da parte di Israele. Si scatenò così la corsa al petrolio prodotto dai paesi non arabi, modificando il quadro dei flussi di importazione e diffondendo la crisi a tutti gli stati energeticamente dipendenti: le risorse insufficienti obbligarono i governi ad adottare misure di riduzione del consumo.

Le ripercussioni della crisi in Italia

Quali furono gli effetti della crisi petrolifera del 1973 sull’Italia? Il 22 novembre 1973, ultimo fra i paesi occidentali, il governo italiano presieduto da Mariano Rumor, in carica dal 7 luglio 1973 al 14 marzo 1974, e appoggiato da Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito socialista demo­cra­tico e Partito repubblicano, deliberò una serie di misure di contenimento forzato dei consumi per rispondere alla crisi internazionale di disponibilità di risorse energetiche, benché l’Italia non rientrasse tra i paesi colpiti dall’embargo dei paesi arabi. Nel dettaglio, il governo prese i seguenti provvedimenti:

  • Il divieto di circolazione ai mezzi motorizzati su tutte le strade pubbliche, urbane ed extra­urbane, dalle ore 0 e sino alle ore 24 di tutti i giorni festivi (domeniche o infrasettimanali); multe da centomila lire a un milione per i contravventori e sequestro immediato del mezzo. La misura fu estesa anche ai rappresentanti delle istituzioni, compreso il Presidente della Repubblica; le deroghe ammesse riguardarono gli automezzi di vigili del fuoco, corpi armati di polizia, medici, furgoni postali, mezzi per la distribuzione dei quotidiani, ministri del culto all’interno dei comuni di residenza, auto del corpo diplomatico. Per gli spostamenti gli italiani potevano utilizzare treni, aerei, navi, taxi, nonché gli automezzi delle linee pubbliche o con licenza di servizio da noleggio. Il provvedimento riguardava anche imbar­cazioni e aerei privati. Le misure entrarono in vigore dal 1 dicembre e durarono fino al 10 marzo del 1974, quando fu introdotta la circolazione a targhe alterne. Le restrizioni si con­clu­sero a partire da domenica 2 giugno 1974 con deroghe in occasione di Pasqua e Pa­squetta (14 e 15 aprile);
  • il costo della benzina normale salì a 190 lire, quello della super a 200; il gasolio per autotrazione, usato dagli autobus pubblici e dai camion, fu fissato a 113 lire al litro, mentre quello per riscaldamento, uso agricolo e marittimo aumentò di 18 lire al chilo, rag­giun­gendo la quota di vendita base di 50 lire al chilo. L’olio combustibile usato da industrie e centrali elettriche raggiunse 20 lire il chilo. I distributori dovevano restare chiusi dalle ore 12 del giorno precedente la festività sino alle 24 del giorno festivo;
  • i limiti di velocità furono stabiliti a 50 km/h nei centri abitati, a 100 km/h sulle strade extraurbane normali e 120 km/h sulle autostrade;
  • i negozi e gli uffici pubblici dovevano anticipare la chiusura: per i primi il limite massimo autorizzato era alle ore 19, per i secondi alle ore 17.30. Anche bar, ristoranti e locali pubblici erano obbligati a chiudere alle 24, mentre cinema, teatri e locali per lo spettacolo potevano rimanere aperti fino alle 22.45, con tolleranza sino alle 23. Anche i programmi televisivi dovevano chiudersi entro le 22.45/23.00;
  • l’illuminazione pubblica dei comuni doveva essere ridotta del 40 per cento, mentre le scritte o insegne luminose commerciali poste nelle vetrine e all’interno di negozi e altri locali pubblici dovevano essere spente. L’Enel fu autorizzata a ridurre del 6-7 per cento la tensione erogata tra le ore 21 e le 7.

Le misure di austerità furono poco più che un segnale di rigore, funzionali solo nell’immediato, ma suscitarono fra i cittadini dei paesi occidentali la consapevolezza della fragilità del sistema eco­nomico e produttivo occidentale in quanto dipendente da rifornimenti di energia che derivavano da una delle aree più instabili del contesto internazionale. Una vulnerabilità che si è riproposta negli anni successivi e che ancora oggi non possiamo dire superata.