1972 – Milano, si apre il XIII congresso del PCI, nel corso del quale Enrico Berlinguer sarà eletto segretario del partito


Al XIII Congresso nazionale del Pci, che si tiene a Milano dal 13 al 17 marzo del 1972, viene eletto segretario nazionale l’indimenticato leader comunista
Enrico Berlinguer nasce a Sassari il 25 maggio 1922. Suo fratello Giovanni racconterà che Enrico da adolescente coltivava la passione per i libri di filosofia, affermazione confermata da lui stesso in un’intervista del 1980: “Se mi chiede che cosa volevo fare da ragazzo e cioè prima di darmi alla politica, le rispondo il filosofo”.
Nell’ottobre del 1943 appena maggiorenne il giovane Enrico si iscrive al Partito comunista italiano, diventando segretario della sezione giovanile di Sassari. Nel 1945, dopo la Liberazione, è a Milano come responsabile della Commissione giovanile centrale del Pci.
Tre anni più tardi, al VI congresso del partito, viene eletto membro effettivo del Comitato centrale e membro candidato della direzione. Con il IX congresso, svoltosi a Roma tra il 30 gennaio e il 4 febbraio 1960, farà il suo ingresso a pieno titolo in direzione assumendo l’incarico dell’organizzazione.
Al X Congresso, tenutosi anch’esso a Roma tra il 2 e l’8 dicembre 1962, compirà un altro passo in avanti nella dirigenza: riconfermato in direzione, diventerà anche membro della segreteria e responsabile dell’ufficio di segreteria. Al successivo Congresso nazionale della Federazione giovanile comunista, ne è eletto segretario generale (manterrà la carica fino al 1956); assume inoltre la presidenza della Federazione mondiale della gioventù democratica che ricoprirà fino al 1952.
Segretario regionale del Pci del Lazio dal 1966 al 1969, entra in Parlamento per la prima volta nel 1968. Al XIII Congresso nazionale del Pci, che si tiene a Milano dal 13 al 17 marzo del 1972, viene eletto segretario nazionale.
“Avanti, dunque, compagni! – diceva aprendo i lavori dell’assise parlando ai ai 1.043 delegati, rappresentanti di 1.521.028 iscritti – Impegniamo in questa lotta tutte le forze nostre, che sono presenti in ogni dove: dalle fabbriche ai campi, dalle scuole agli uffici, agli stessi apparati statali; dai quartieri delle città ai più sperduti comuni; nei mondo del lavoro ed in quello artistico e culturale. E il nostro appello va anche a quei nostri compagni e fratelli emigrati costretti a cercare all’estero quel pane che le classi dirigenti hanno loro negato. È questo potenziale sterminato di energie che deve essere mobilitato, non soltanto per la prova elettorale che ci attende, ma per un obiettivo più ampio: quello di unire e organizzare i lavoratori italiani in classe dirigente, per costruire una nuova Italia, per avanzare, nella democrazia, verso il socialismo”.
“Sarebbe del tutto illusorio – scriverà l’anno dopo su Rinascita – pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (…), questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento. Ecco perché noi parliamo non di una “alternativa di sinistra” ma di una “alternativa democratica”, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico. (…) La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”.
“L’esperienza compiuta – dirà qualche anno più tardi a Mosca intervenendo alle grandiose celebrazioni per il 60º anniversario della Rivoluzione d’ottobre – ci ha portato alla conclusione che la democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista. Ecco perché la nostra lotta unitaria (che cerca costantemente l’intesa con altre forze d’ispirazione socialista e cristiana in Italia e in Europa occidentale) è rivolta a realizzare una società nuova – socialista – che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale, ideale”.
Il 7 giugno 1984 durante un comizio elettorale a Padova viene colto da un malore. “Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda”, non smetterà di ripetere nonostante evidentemente provato. Continuerà il discorso fino alla fine, nonostante anche la folla, dopo i cori di sostegno, urlasse: “Basta, Enrico!”. Morirà l’11 giugno, dopo quattro giorni di coma, a 62 anni.
“Giorni tristi e senso di impotenza – scriveva sul suo diario Bruno Trentin – In queste ore Enrico Berlinguer sta morendo. E più l’angoscia si trasforma in certezza, più la sua figura solitaria e austera ingrandisce nella coscienza di molti. E appare in tutta la sua nobiltà la fatica di dare corpo ad una grande intuizione anche se spesso questa intuizione è rimasta in molti casi separata da un autentico rinnovamento culturale e da una lucida strategia. Questo rende ancora più rispettabile e drammatica la sua fatica e la sua solitudine. La sua storia segnerà tutti noi. È – è stato – il meglio e il limite di ognuno, di una intera generazione di comunisti. Le loro ansie, la loro ricerca a tentoni e anche la loro impotenza a compiere un salto culturale che ridesse senso e respiro ad ogni atto quotidiano”.
“Quando mi dissero che era morto – raccontava in un’intervista Alberto Menichelli, autista storico del segretario, guardia del corpo ed amico – scoppiai in un pianto convulso. Mi tornò in mente la nostra vita insieme: quando arrivavo a casa sua a portargli i giornali alle sette e mezza e lui mi apriva in pigiama; la volta che in treno ci accorgemmo che aveva una scarpa diversa dall’altra; quando lo vidi seduto per terra nel salotto tra un mucchio di libri (“ma che ci fai lì?”; “sta’ zitto, ho nascosto 50 mila lire dentro un romanzo e non ricordo quale”); la volta che si mise a giocare a pallone sul piazzale della Farnesina con il figlio Marco e i suoi amici, si fermò una Fiat 130, si abbassò il finestrino: era Moro, che rimase incuriosito a guardare Berlinguer battere un calcio d’angolo”.
Perché in fondo Enrico era questo: rigore e umanità, compostezza ed empatia. Un uomo diventato icona al quale ancora – forse soprattutto – oggi si guarda con affetto, con nostalgia. “Una persona perbene” lo definisce chiunque lo abbia conosciuto.
“Enrico Berlinguer parlava poco, ma è stato uno dei pochi politici che abbia mai conosciuto che manteneva le promesse. Una piccola cosa, ma che in politica è grande come una montagna”, diceva di lui Enzo Biagi.
“Berlinguer era un uomo che sosteneva con forza l’idea dell’etica nella politica – ricordava pochi giorni dopo la sua morte Luciano Lama – Ci credeva davvero. Ci sono quelli che non vogliono proprio sentire parlare di etica, anzi stabiliscono due categorie diverse: uno è il campo della morale, l’altro il campo della politica. Quindi politica come carriera, come successo, come potere, forse anche come corruzione. Poi la morale. Bene: questa scissione lui proprio non l’accettava, era il rovescio esatto della concezione che aveva dell’integrità. (…) Alla base di questo sentimento di solidarietà, di dolore sincero, c’è un sentimento profondo che riguarda un uomo che aveva una diversità: quella di essere pulito, quella di mettere gli interessi personali al di sotto di quello che lui considerava il bene del Paese”.
Un Paese che il giorno dei funerali scende in piazza compatto e commosso per dire addio non a Berlinguer ma ad Enrico. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, farà trasportare la sua salma sull’aereo presidenziale dichiarando: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”.
Al funerale, a Roma il 13 giugno, parteciperà circa un milione e mezzo di persone. Il corteo con la bara sfila dalla sede del Pci, in via delle Botteghe Oscure, a Piazza San Giovanni. Un lamento collettivo risuona in continuazione: “Enrico, Enrico”.
Su l’Unità di quel giorno scriveva Luigi Pintor: “Caduto in battaglia è una brutta espressione retorica, eppure è così (…) È tragico, e sembra quasi un ammonimento per noi, che si sia spezzato sotto questa tensione. Fece molto di più di una scelta politica come può essere intesa oggi, si identificò con una causa ideale e ne fece un modo d’essere”.
“Abbiamo tutti pensato non soltanto che era successa una ‘tragedia politica’, ma abbiamo pensato che la sua morte era per ognuno di noi una disgrazia personale, una perdita personale – dirà Natalia Ginzburg – Ci siamo accorti che ognuno di noi aveva con lui un rapporto fiducioso e confidenziale, anche se ci eravamo limitati ad ascoltarlo nella folla d’una piazza. Fu un momento in cui, come aveva detto Benigni, ‘il firmamento bruciava’. La sensazione che ‘bruciava il firmamento’, in quei giorni, l’abbiamo avuta tutti”.
Il 17 giugno alle elezioni europee il Pci decide di lasciare Enrico Berlinguer come capolista. Il Partito comunista italiano raggiungerà il 33,3 per cento superando la Democrazia cristiana. Sarà questo l’ultimo regalo di Berlinguer al suo partito, quel Partito che era riuscito a portare al suo massimo storico, quando nel 1976 il Pci era arrivato al 34,4 per cento.
“Morire a 62 anni è come nascere a 24 mesi: uno non ci crede. E io sono sicuro che fra una settimana Berlinguer apparirà alla televisione con una bella camicia hawaiana. Io aspetto”, diceva Roberto Benigni. In fondo tutti noi, Enrico, aspettiamo ancora…

Di ILARIA ROMEO – fonte: https://www.collettiva.it/copertine/italia/enrico-berlinguer-avanti-compagni-ge8jlii7