1962 gli Stati Uniti scoprirono che a Cuba i sovietici stavano segretamente riempendo l’isola di testate nucleari.


Il cargo sovietico Anesov, accompagnato da un aereo della Marina degli Stati Uniti e dal cacciatorpediniere, Uss Barry, mentre lascia Cuba carico di missili che segnalano la fine della crisi dei missili cubani. Everett Collection / Shutterstock

La più grave crisi della Guerra Fredda raccontata nell’articolo “L’apocalisse dietro l’angolo” di Nino Gorio, tratto dagli archivi di Focus Storia.

Guerra sfiorata. La Terza guerra mondiale non scoppiò mai ma fece un morto: uno solo, a conflitto quasi finito. Il caduto si chiamava Rudolf Anderson, era statunitense, aveva 35 anni. Per le forze armate del suo Paese era un maggiore dell’aeronautica, per gli avversari uno spione. Morì schiantandosi in una piantagione di cacao, vicino a Banes, un’anonima cittadina nel settore est di Cuba. Negli Stati Uniti Anderson è stato coperto di medaglie postume: anzi, per lui ne hanno inventata una in più, l’air force cross. Anche a Cuba il maggiore yanqui (versione spagnola di yankee) è famoso: rottami del suo aereo sono esposti come trofei in tre musei, tra L’Avana e Playa Girón.

Crisi dei missili. Fuori dall’America, invece, nessuno si ricorda di lui: negli stessi giorni in cui si schiantava, il mondo si attendeva di vedere decine di milioni di morti; quindi l’abbattimento di un pilota era una notizia irrilevante. La serie di eventi che costò la vita al maggiore Anderson è nota con il nome di “crisi dei missili”. Successe nell’ottobre 1962 e si rischiò il conflitto nucleare, perché quello fu il momento più acuto del confronto Usa-Urss.

ZUCCHERO E BANANE. Ufficialmente, tutto durò solo una settimana, dal 22 al 28 ottobre 1962. Ma dietro le quinte la crisi fu più lunga: il suo prologo fu scritto la notte del Capodanno 1959, quando a Cuba presero il potere i barbudos del “Movimento 26 de julio”, capeggiati da Fidel Castro e Che Guevara: un’eterogenea armata di guerriglieri di sinistra che defenestrò e costrinse alla fuga il dittatore Fulgencio Batista. Per Washington fu uno smacco: il perdente era un loro protetto. Eppure quando la revolución entrò all’Avana, sulle prime Washington non si mostrò ostile: anzi, riconobbe il nuovo governo.

 

Embargo. Ma la fragile intesa finì il 17 maggio, quando Castro nazionalizzò le proprietà agrarie sopra i 400 ettari, risarcendo i possidenti in base al reddito (risibile) dichiarato al fisco. Il decreto colpiva molti latifondisti locali, ma anche la United Fruit (in seguito Chiquita Brands), multinazionale agricola yanqui, produttrice della famosa banana col bollino blu.

Subito la tensione salì: prima gli Usa ridussero drasticamente l’acquisto di zucchero cubano, poi l’isola fu scossa da attentati. Infine tutto precipitò: la notte del 17 aprile 1961 alla Bahía de los Cochinos (Baia dei Porci) sbarcò un’armata di esuli cubani addestrati in Guatemala dalla Cia.

L’attacco (respinto) ebbe un effetto boomerang, perché l’intesa tra Cuba e Urss, che fino ad allora era stata commerciale, divenne anche militare.

A PORTATA DI MISSILE. Fu così che il 14 ottobre 1962 un U-2, aereo-spia americano, sorvolando Cuba fotografò 9 rampe di lancio per missili atomici SS-4 e SS-5 (gittata: 2.200 e 3.500 km) in costruzione tra manghi e bananeti: quella che la gente continuava a chiamare con simpatia Isla Bonita, stava diventando una base missilistica a due passi dal Nord America. Ma di cubano, in quella base, c’era solo la frutta sullo sfondo: le rampe erano sovietiche.

Sorvegliata speciale. Per una settimana la scoperta restò segreta; poi il presidente John F. Kennedy decise di annunciarla in diretta tv. Motivo: il 19 ottobre gli U-2 avevano rivelato che le prime rampe per SS-4 erano pronte. E che navi russe cariche di missili erano dirette alle Antille. “Buonasera, miei concittadini”, esordì il presidente alle ore 19 del 22 ottobre. “Questo governo, come aveva promesso, ha esercitato la più stretta sorveglianza sul potenziamento militare sovietico a Cuba”. E poi via per 18 minuti, elencando le località che rischiavano di diventare obiettivi dei missili: Washington, New York, Cape Canaveral, persino Los Angeles. Il finale era una sorta di predichiarazione di guerra: “Una linea di condotta aggressiva, se le si consente di svilupparsi senza controlli né freni, alla fine porta a un conflitto”.

BOMBE CONTRO MACHETE. In tv Kennedy non lo disse, ma virtualmente il conflitto era già cominciato. Infatti il presidente aveva predisposto un attacco a Cuba: 250mila soldati, di cui 90mila marines, erano stati mobilitati e trasferiti tra Florida e paraggi; 180 navi erano state inviate ai Caraibi per impedire ai sovietici l’accesso ai porti cubani; 261 missili a testata nucleare (105 dei quali in Europa) erano pronti a colpire l’Urss. Cuba mobilitò forze molto più caserecce: i reparti femminili dell’esercito si schierarono all’Avana, i maschili sulle coste, mentre il Che e Raúl Castro, fratello di Fidel, battevano le campagne per arruolare contadini armati di machete.

Allarme internazionale. Intanto Luís Gomez Wanguemart, editorialista del giornale castrista Granma, lanciava un monito: “Il blocco annunciato non solo è una misura di guerra che nessuno Stato può adottare nei confronti di un altro in tempo di pace, ma è anche un rischio che può portare a conseguenze tragiche per il mondo”. Forse nemmeno l’autore si rendeva conto di quanto l’allarme di Granma rispecchiasse la realtà.

Infatti il giorno 23 Kennedy diramò alle forze armate l’ordine, valido dalle 10 del 24, di “impedire la consegna di armi offensive e di materiali simili all’isola di Cuba”. E la sera stessa giunse la risposta del leader sovietico Nikita Krusciov, che avvertiva: “Se la flotta americana tenterà di fermare le nostre navi, saremo costretti a prendere le misure che riterremo necessarie e adeguate a difesa dei nostri diritti. Abbiamo tutto l’occorrente per farlo”.

NAVI IN MARCIA. Cuba era ormai relegata al ruolo di comprimaria: il caso stava diventando una sfida diretta tra le due superpotenze. Il 24 mattina gli U-2 americani avvistarono nell’Atlantico le prime 25 navi con la stella rossa che puntavano su Cuba. E poco dopo un sommergibile sovietico, che incrociava ai Caraibi, informò Mosca che 19 cacciatorpediniere Usa si preparavano a intercettare il convoglio. Seguirono ore angoscianti, che in seguito ispirarono vari film, tra cui Thirteen days (2000) con Kevin Costner. A Washington nessuno dormiva più, perché riunioni convulse dell’ExComm (l’unità di crisi) si susseguivano a ritmo infernale, con falchi e colombe impegnati in una quasi rissa.

Falchi e colombe. Il leader dei falchi era il generale Maxwell Taylor, capo di stato maggiore, che voleva giocare d’anticipo, invadendo subito Cuba. Le colombe (Robert Kennedy, fratello di John, e Robert McNamara, segretario alla Difesa) prendevano tempo. Al centro dello scontro falchi-colombe vi era il ruolo di basi americane in Turchia (cioè a una distanza dall’Urss minore di quella tra Cuba e Miami) armate di missili Jupiter a testata atomica. La presenza degli Jupiter a pochi chilometri dai confini sovietici era del resto una delle ragioni principali che avevano spinto Kruscev a sfidare gli americani nelle acque cubane. Secondo le colombe, quel deterrente sarebbe bastato a dissuadere Mosca dal portare alle estreme conseguenze la sfida. In quelle ore il presidente Kennedy fu esplicito: “Per ogni missile cubano eventualmente lanciato contro qualsiasi Paese occidentale sarà considerata responsabile l’Urss, su cui cadrà la rappresaglia”. Per i falchi, invece, gli Jupiter erano un vantaggio da sfruttare prima che Mosca sbarcasse testate nucleari a Cuba, riequilibrando le forze. Ma Taylor finì in minoranza.

Testate nucleari. Fu una fortuna, perché se l’invasione fosse scattata i marines non avrebbero dovuto affrontare solo i machete: infatti 140 bombe atomiche tattiche erano già sull’isola, nascoste agli U-2 e pronte all’uso. Kennedy lo ignorava, ma Vladimir Dubovik, addetto militare dell’ambasciata sovietica in America, lo sapeva bene.

E in quelle ore dichiarò duro: “Le nostre navi passeranno”.

 

DUE LETTERE. Invece non passarono. Quando lo scontro sembrava inevitabile, le due avanguardie del convoglio sovietico (la Gagarin e la Komles) si fermarono a circa 2 miglia dal “picchetto” americano. Lo stop era frutto di un frenetico lavoro diplomatico tra Washington, Mosca e New York, dove il segretario Onu U Thant si era fatto in quattro per evitare la guerra. Chiave della svolta erano due lettere che Krusciov aveva inviato a Kennedy, di tono ben diverso da quello infuocato dell’agenzia di stampa sovietica Tass, che nelle stesse ore chiamava gli Usa “pirati”.

La prima lettera proponeva un accordo che suonava come una vittoria americana: via i missili in cambio di un impegno a non invadere Cuba e della fine del blocco navale. L’altra conteneva una seconda bozza di accordo, simile alla precedente, ma con una clausola sostanziale in più: dopo il ritiro degli SS-4 da Cuba, gli americani avrebbero dovuto rimuovere i loro Jupiter dalla Turchia. Anche se diverse, le due lettere erano un segnale: era ormai scattata l’ora delle trattative.

16Pareggio. La crisi di Cuba finì col bilancio di un morto, una gaffe, un accordo finto e uno vero. A fare il morto furono i cubani, che il 27 ottobre abbatterono l’aereo di Anderson. Autore della gaffe fu invece un cacciatorpediniere Usa (il Joseph P. Kennedy Jr.), che andò all’arrembaggio della Marucla, nave “sospetta” perché partita da Riga (sul Baltico) ma che in realtà era un cargo inglese. Quanto ai due accordi, furono siglati direttamente fra Washington e Mosca, scavalcando Castro.

Quello finto, che accoglieva la prima bozza di Krusciov, permise a Kennedy di presentarsi all’opinione pubblica come vincitore. Ma l’accordo vero, firmato alla chetichella, accoglieva la bozza numero due: via gli SS-4 da Cuba, ma via anche i Jupiter dalla Turchia. Cosa che avvenne mesi dopo, a riflettori spenti, col pretesto di una “manutenzione straordinaria”. Ai Caraibi le due flotte si fronteggiarono fino al giorno 28, in uno stallo che parve eterno; poi le navi di Mosca invertirono la rotta.

NIKITA VIGLIACCO. Tutto era finito con un sostanziale pareggio fra le due superpotenze. Cuba, ridotta a far da comparsa in un film girato da altri, sfogò la sua delusione salutando gli SS-4 in partenza con uno slogan impietoso: “Nikita mariquita, lo que se da no se quita” (“Nikita vigliacco, ciò che si dà non si riprende”).

Eppure il mariquita, con la trovata bizantina della doppia lettera, aveva salvato il mondo dall’apocalisse.

 

Fonte: https://www.focus.it/