UNA LEGGE PER LA (RI)COSTRUZIONE DELL’ITALIA
Commento al libro di Mariella Zoppi e Carlo Carbone
Di Francesco Forte
La pandemia e i tanti drammi che ne sono seguiti sollecitano la nostra attenzione, e le nostre coscienze, non solo per le decine di migliaia di morti o per la capacità del sistema sanitario nazionale di resistere o meno a condizioni di stress e di superlavoro per quanti vi operano. La pandemia che stiamo vivendo ci impone di riflettere seriamente sulla connessione tra uso del territorio, ambiente – e dunque clima, acqua, aria – e politica per una sostenibilità ricercata sempre più diffusamente ma difficile da raggiungere. Cosa che la Laudato si’ di Papa Francesco (Libreria Editrice Vaticana, 2015) aveva già messo in luce e che gli eventi recenti non fanno che confermare. È anche questo uno dei motivi per cui il libro di Mariella Zoppi e Carlo Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del ’42 (didapress, 2018), appare di particolare interesse. Nelle sue pagine, infatti, si indaga la singolare vicenda di un provvedimento legislativo di natura urbanistica tuttora valido quale legge quadro – la legge n. 1150 del 17 Agosto 1942 – sulla cui base nella seconda metà del Novecento si è pianificata e costruita molta parte dell’Italia che conosciamo. L’accurata ricostruzione della sequenza storica degli atti legislativi, dei movimenti culturali e politici ad essi sottesi nonché delle sperimentazioni progettuali avvenute da quel momento in avanti in oltre mezzo secolo di storia del nostro Paese consente anche di formulare ipotesi di lavoro per il futuro, facendo tesoro – cosa tutt’altro che secondaria – dell’esperienza passata. Questo anche immaginando correlazioni – che nel libro non compaiono perché è stato scritto prima che la situazione che stiamo ancora vivendo li disvelasse – tra la pandemia e l’ambiente, il consumo di suolo, il governo intercomunale, la distribuzione dei servizi.
La premessa del libro – 1942-2017: i settantacinque anni della legge urbanistica – è fondamentale per comprendere il senso dell’intero lavoro. Qui lo stato della società e quello del territorio vengono ritratti in tutte le loro contraddizioni ascrivibili – secondo gli autori – anche alla crisi di quella sinistra che per anni ha tenuto le redini dell’urbanistica italiana ma che oggi – sostengono – “perde ideali e valori”. Cosa che potrebbe sembrare in contraddizione con la longevità di una legge la cui resilienza, al contrario, va ricercata nella solidità del compromesso fra proprietari, investitori e comunità – o, meglio, tra rendita, speculazione e società –, un compromesso fondato su un potere decentrato comunale che è alla base del nostro approccio al governo del territorio e da cui emergono luci e ombre. Il senso di tale posizione lo si comprende meglio addentrandosi nella lettura del libro. Nel capitolo 17 Agosto 1942: la data di nascita – articolato nei paragrafi La storia ed il suo contesto; La legge urbanistica è una necessità; Liberazione e Costituzione; La ricostruzione – sono ricostruiti l’origine della legge e i primi anni della sua effettiva applicazione, gli anni Cinquanta e Sessanta, con le innovazioni apportate dal primo governo di centro-sinistra. Si parte ovviamente dalla figura di Giuseppe Gorla, ingegnere milanese che, nominato nel 1940 “ministro del Re nel governo di Mussolini” ai Lavori Pubblici, ebbe un ruolo cruciale nella definizione del provvedimento: “senza la sua tenacia – affermano gli autori – la legge urbanistica non sarebbe stata portata a compimento” (p.41). Si prosegue con la Liberazione e con l’approvazione della Costituzione, sottolineandone il riferimento – all’articolo 2 – ai diritti inviolabili dell’uomo (tra cui, evidentemente, possiamo considerare quello della casa) e – all’articolo 9 – alla tutela del paesaggio. Un binomio tradito prima con i piani di ricostruzione (non previsti nella legge del 1942) poi con le decisioni assunte nel febbraio del 1949 sul fronte della casa. Con il Piano Fanfani, infatti, un ingente finanziamento pubblico per la realizzazione di case e servizi inonderà l’Italia nel successivo quindicennio portando alla costruzione di due milioni di vani. Una risposta imponente a una questione sociale di primaria importanza che, tuttavia, si trasformò spesso in un’operazione di distruzione di paesaggi periurbani con la costruzione di periferie che difficilmente si sono poi integrate con le città esistenti. Col risultato che quella tutela del paesaggio (antropico e naturale) auspicata nella Costituzione rimase per molti versi una chimera.
Sul paesaggio, compresa la difesa e valorizzazione di quello rurale, nel libro viene ripreso il convegno dell’INU di Lucca del 1957 e sul patrimonio culturale il convegno di Gubbio del 1960 intitolato “Salvaguardia e risanamento dei centri storici”. Sono gli anni in cui Giovanni Astengo pubblicava sulla rivista “Urbanistica” i piani da manuale di Assisi e di Gubbio, stimolando la cultura urbanistica e architettonica a una responsabile analisi e tutela del patrimonio ereditato dalla storia. Nel volume si fa anche riferimento – corredandoli di una preziosa bibliografia – al piano regolatore di Siena di Luigi Piccinato ed altri; a quello di Firenze del 1962 di Edoardo Detti; di Urbino di Giancarlo De Carlo del 1964; di Bergamo di Giovanni Astengo del 1969. Infine a quello di Bologna, “su cui Leonardo Benevolo aveva intrapreso una fondamentale indagine settoriale del tessuto antico dal 1965, cui farà seguito il Piano del centro storico di Pier Luigi Cervellati del 1972” (p.83). La Carta del Restauro di Venezia del 1964 – da cui conseguì la fondazione dell’Icomos – ha queste radici su cui il libro fa bene a ritornare. Non viene citato, invece, il corso di Urbanistica del 1962 organizzato dalla Fondazione Olivetti ad Arezzo, con la partecipazione, in qualità di docenti, di alcuni tra più accreditati urbanisti di quel momento. È in questo contesto – aggiungo una nota personale – che matura la mia tesi di laurea, seguita dall’amico Antonio Quistelli e da Ludovico Quaroni, e l’amicizia con Salvatore Bisogni che durerà una vita.
A questa parte segue un capitolo dove si comprende bene lo scarto tra i propositi di tanti urbanisti illuminati circa il futuro delle nostre città e del nostro territorio e ciò che stava succedendo e succederà nella realtà del nostro Paese. Significativamente si intitola Il cammino spezzato della riforma – articolato in paragrafi dedicati a: Gli anni sessanta; Calamità naturali e aspettative urbanistiche; Il sessantotto –. La frana di Agrigento del luglio 1966 e le alluvioni di Firenze e Venezia del novembre dello stesso anno sono gli eventi che fecero maturare nella politica, nella cultura italiana e nella società civile il senso del disastro che stava avvenendo e, al tempo stesso, la necessità di reagire. Ricordo che osservavo sgomento quei fatti da un luogo sicuro, lo studentato del Massachusetts Institute of Technology a Cambridge, in USA, ove fruivo di una borsa di studio. Con il ministro Mancini si colsero le implicazioni nella legislazione urbanistica avviando – dopo il fallimento della radicale proposta di Fiorentino Sullo – una riforma, sostenuta dai socialisti al governo, avviata con l’emanazione della legge 765 del 1967, “Modifiche e integrazioni alla legge urbanistica n. 1150”, detta legge ponte perché avrebbe dovuto essere un provvedimento temporaneo in attesa di una organica riforma che, di fatto, non arriverà mai. Nell’aprile del 1968 vengono varati i due decreti ministeriali in materia di standard urbanistici ed edilizi, descritti nel volume, tuttora vigenti – in Campania, aggiungo per inciso, confermati da leggi regionali nei piani territoriali – e nel novembre la legge n. 1187/68 “Modifiche e integrazioni alla Legge Urbanistica”, cardine delle nuove leggi regionali per l’attuazione programmata dei piani regolatori generali e dei piani attuativi. Intanto i movimenti studenteschi del Sessantotto travolgevano anche l’insegnamento dell’urbanistica. Da giovane laureato condividevo i motivi dell’occupazione della Facoltà di Architettura di Napoli durata mesi. Qui come nel resto d’Italia questa fu l’occasione per far emergere le potenzialità di giovani docenti di urbanistica che successivamente sarebbero saliti in cattedra nelle università di tutto il Paese.
La seconda parte del libro è dedicata agli anni Settanta e Ottanta e alle innovazioni nel governo del territorio che seguirono l’istituzione delle Regioni. Il terzo capitolo si intitola Città e cittadini ed è articolato in paragrafi dedicati a: Il diritto alla casa; La svolta della legge Bucalossi; Il quadro politico nazionale e la nascita delle Regioni. Nel volume si richiamano la legge 865 del 1971 e la legge n 10 del 28 gennaio 1977 – nota come legge Bucalossi dal nome del ministro dei Lavori pubblici che la promosse – che imbocca la strada della tassazione della rendita intrinseca alle abitazioni e ai suoli. Una questione attuale, sostanzialmente irrisolta, che sarà anche la base di successive tassazioni come l’Imu. Il tema del recupero del patrimonio urbanistico ed edilizio esistente torna con la legge 457 del 5 agosto del 1978 “Norme per l’edilizia residenziale”: si trattò del tentativo, vano, di conservare e rinnovare l’edificato storico da un lato e di non consumare territorio dall’altro. Vano perché, nella realtà, il nostro Paese andò spesso in direzione opposta. Non a caso il capitolo dedicato agli anni Ottanta si intitola Condonare e proteggere: contraddizioni italiane – articolato in paragrafi su Gli urbanisti ed i piani; Le contraddizioni nella politica nazionale: condonare, proteggere; Le Regioni fra programmazione e pianificazione; Architetture e città –. Nodo cruciale di questa parte del libro – e, più in generale, dell’urbanistica italiana di quegli anni – è la sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 25 gennaio 1980, che dichiarò illegittimo il regime giuridico dei suoli previsto dal piano regolatore generale scardinandone le basi.
Meno trattato nel volume un altro fatto che invece ebbe impatti significativi sulla politica industriale del Mezzogiorno: il tremendo terremoto che il 23 novembre del 1980 investì le regioni Campania, Basilicata, Calabria e Puglia provocando circa tre mila morti. Anche una ricerca svolta nella mia università contribuì a mettere a fuoco una situazione drammatica sul fronte della casa a Napoli che il decreto legislativo n. 19 del 1981 cercò di affrontare trascinando però con sé un’ondata di malaffare e illegalità in cui non mancarono attentati e morti. Nonostante ciò, e forse anche proprio per questo, oggi dovremmo riflettere serenamente e con maggiore lucidità sugli effetti dell’intervento dello Stato in situazioni critiche come quella del Mezzogiorno, anche ricordando il ruolo decisivo del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, del fondatore della Protezione Civile italiana On. Giuseppe Zamberletti, di un altro Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, così come quello di quanti si mobilitarono negli anni per affrontare la situazione. La pandemia non può che rafforzarci nel proposito di attuare interventi pubblici che privilegino la dotazione di infrastrutture, aree verdi, scuole e servizi nelle città rivalutando, al contempo, i borghi delle aree interne a suo tempo colpiti dal terremoto, questo anche attraverso il ripristino tipologico con innovazione strutturale negli agglomerati storici.
Il raffronto tra ciò che ha rappresentato il condono di un reato urbanistico (sancito dalla legge 47 del 1985) e tutta la normativa volta alla protezione del patrimonio storico e paesaggistico maturata nel Novecento fa emergere una delle contraddizioni più evidenti della politica italiana. Configurano invece una svolta (che prepara alla sostenibilità delle azioni sul territorio) la legge 431 del 1985, detta legge Galasso dal nome del sottosegretario ai Beni Culturali che ne definì il testo; l’istituzione del Ministero dell’Ambiente nel 1986; l’entrata in scena della Valutazione Ambientale Strategica. Tre cose che incideranno profondamente sul piano regolatore. Uno strumento che assumerà poi diverse forme con l’assunzione da parte delle Regioni del compito di legiferare in fatto di pianificazione del territorio com’è ben descritto nel paragrafo Le Regioni fra programmazione e pianificazione. La frammentazione del piano comunale generale in un coacervo di intenzioni, propositi, indirizzi rappresentati nel quadro di schemi direttori, progetti preliminari, quadri strategici, in cui – affermano gli autori – la generale intenzione scompare, emerge chiaramente nel quinto capitolo: Lo stato del territorio e le politiche ambientali negli anni novanta, articolato nei paragrafi (l’ultimo dal titolo e dai contenuti particolarmente significativi): L’ambiente. Il territorio; Il riordino amministrativo e il ruolo degli enti territoriali; Le Regioni e il nuovo corso legislativo; L’eclettismo disciplinare; Recuperare, riqualificare, trasformare; E l’urbanistica?
La terza parte del libro – Nuovo millennio, nuovi progetti di riforma – affronta la complicata situazione dei primi anni del nuovo secolo. Questo si apre l’11 settembre 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle a New York (a cui fa seguito un decennio di violenza bellica) e pochi mesi più tardi con l’effettiva entrata in vigore della moneta unica europea e l’ampliamento della Ue alle nazioni dell’est. Per quanto riguarda la cultura del territorio, una tappa importante è rappresentata dall’adozione da parte del Consiglio d’Europa, il 19 luglio del 2000, della Convenzione Europea del Paesaggio, poi sottoscritta a Firenze il 20 ottobre. Questa è introdotta nell’ordinamento italiano nel 2006 non senza discordanze con il Codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con decreto legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004. Altre complicazioni nel governo del territorio sono determinate dall’approvazione della riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione.
Nel volume sono trattati con sufficiente chiarezza anche i tentativi più recenti di riforma della legislazione urbanistica italiana proposti dalle forze politiche, a partire dalla XIV legislatura (2001-2006), che ebbero come esito l’approvazione alla Camera dei Deputati di un disegno di legge nel giugno del 2005 (Maurizio Lupi relatore). Si susseguono poi i governi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni in cui provvedimenti che impattarono sul territorio, l’ambiente e il paesaggio si susseguirono senza una chiara strategia. In questo quadro ha giocato un ruolo non secondario l’Istituto Nazionale di Urbanistica che ha dato impulso tanto all’idea di un piano regolatore comunale articolato sulla base di contenuti strutturali, operativi e regolamentativi, quanto alle pratiche di perequazione urbanistica, propositi entrambi sanciti fin dal 1995 nel Congresso Inu di Bologna. Altro tema cruciale del nuovo millennio – affrontato nel paragrafo Una nuova città metropolitana – riguarda la cosiddetta legge Delrio, la n. 56 del 2014. I motivi per cui le città metropolitane istituite proprio da questa legge non possono funzionare sono chiaramente evidenziati nel volume, e in questa sede possiamo solo richiamare la questione istituzionale connessa ai criteri di elezione del Consiglio e del Sindaco nonché quella del Piano strategico che, data la sua durata, strategico non è e, soprattutto, mal si concilia con la pianificazione territoriale.
Il libro si chiude con un ritratto assai poco edificante dell’azione urbanistica dei nostri giorni. Una disciplina che, quando va bene, prova – spesso senza riuscirci – a contenere il consumo di suolo, a salvaguardare i terreni agricoli, a orientare l’edilizia sulle aree urbane dismesse senza tuttavia produrre risultati adeguati tant’è che la condizione urbana peggiora come dimostra, per fare un solo esempio, la crescita di fasce sociali in condizioni di disagio abitativo. Lo stato caotico delle normative e degli strumenti regionali è lampante tranne – si sostiene nel libro – in alcuni casi, come quello della Regione Toscana che si distingue con la legge n. 65 del 2014 e con il Piano paesaggistico approvato l’anno successivo.
Per concludere, quello di Mariella Zoppi e Carlo Carbone – che gli autori preferiscono considerare né un libro di storia né un libro di urbanistica – è, fin dalla bibliografia, un lavoro accurato nella costruzione della base teorica che guida l’interpretazione critica di decenni di urbanistica italiana. Soprattutto è un libro dall’esito pedagogico, utile nella formazione delle giovani generazioni, e da possibili sbocchi politici che la riflessione sul territorio, alla luce della pandemia, sollecita. Per questo ho deciso di diffonderne la conoscenza con questa recensione. La vicenda narrata nel volume è quella di una classe dirigente – includendo in questa quella politica, quella amministrativa e quella culturale – che non ha saputo fare tesoro degli strumenti a sua disposizione e della possibilità di affinarli per ottenere risultati seri e concreti. Questo al punto che le trasformazioni del territorio sembrano oggi nelle mani salde del mercato piuttosto che di quanti hanno compiti di governo della cosa pubblica nell’interesse collettivo. Dal mio punto di vista – nel condividere questa denuncia – ritengo che occorrerebbe ripartire proprio da qui per invertire la rotta. L’iniziativa delle componenti sociali più sane, di buona volontà e con valori civici inoppugnabili – quelle che la pandemia e i suoi effetti hanno in molte situazioni fatto emergere – potrebbe e dovrebbe andare nella direzione di indicare per l’urbanistica “ancora una sua specifica utilità” (p. 375). Lo stesso, forse, andrebbe fatto per la legge urbanistica del 1942 se è vero – come sostiene il giurista Andrea Torricelli nella Postfazione al volume – che l’impianto essenziale del piano regolatore e dei piani attuativi affidati alle competenze comunali in fondo non è così cambiato. Solo così alimenteremo la speranza di un governo del territorio che sappia assumere e far interagire proficuamente questioni ambientali, paesaggistiche ed economiche. Solo così potremo contribuire a ridurre le disuguaglianze sociali e la povertà urbana.
Fonte: https://casadellacultura.it/