1896 – Ad Atene, si aprono i primi Giochi olimpici dell’era moderna; erano stati vietati 1500 anni prima dall’imperatore Teodosio I


L’Olimpiade e il suo stesso ricordo scomparvero dalla storia dell’umanità per quasi 1500 anni dopo l’editto dell’imperatore Teodosio che pose fine, nel 393 d.C., a tutte le manifestazioni pagane. Nel lungo medioevo dello sport e dei Giochi, spiccano tuttavia alcune iniziative di fonte erudita volte al recupero dell’idea olimpica. La più rilevante va attribuita a un grande scrittore e filosofo francese del 18° secolo, Jean-Jacques Rousseau, che nell’Émile, pubblicato nel 1762, sollecita il recupero degli ideali dell’antica Grecia come strumento per il ritorno alla natura nell’educazione globale dell’uomo moderno.
La ripresa degli studi sull’attività motoria offrì un ulteriore stimolo. Nel 1793 apparve il trattato Ginnastica per la gioventù di Johann Christoph Friedrich Guts Muths, pioniere dell’insegnamento dello sport nella parte orientale dell’odierna Germania, a Schnepfentahl, in cui il pedagogo tedesco sosteneva la necessità di riprendere i Giochi con cadenza quadriennale ed elaborava i principi fondamentali dell’educazione motoria, basata sullo sviluppo di forza, agilità e destrezza. “Ogni giorno sport e lavoro” era il motto di Guts Muths che si rivolgeva, in particolare, alla scuola e alla disciplina militare. Il suo invito fu raccolto e rinnovato da Friedrich Ludwig Jahn (1778-1852), il vero creatore della ginnastica moderna.
Oltremanica il promotore del rinnovamento in termini di educazione sportiva, con esplicito riferimento ai Giochi, fu Thomas Arnold (1795-1842). Mentre nasceva in Gran Bretagna lo sport moderno, Arnold ne codificò molte delle regole, richiamandosi all’ideale olimpico. Le competizioni per gli studenti ispirate all’ideale classico da lui introdotte in qualità di rettore nel college di Rugby sono descritte e sviluppate nel Tom Brown’s schooldays, il diario delle esperienze a Rugby scritto da Thomas Hughes (1822-1896), allievo e successore di Arnold. I lavori di Arnold e Hughes ebbero profonda influenza nei primi anni di studi di Pierre de Coubertin.
Quanto ai Giochi veri e propri, nell’Ottocento si trovano diverse tracce del desiderio di rivitalizzarli, come a Ramlosa, in Svezia, vicino Helsingborg, su iniziativa del professor Gustav Johann Schartau dell’Università di Lund, nel 1834 e 1836; a Montreal in Canada negli anni fra il 1830 e il 1850, e a Lago Palic dal 1880, in una cittadina nei pressi di Subotica, allora Ungheria, oggi nella provincia serba di Vojvodina. Ma si deve ancora alla Gran Bretagna il ritorno di un’etichetta olimpica sui campi di gara. Già nel Seicento, fra il 1612 e il 1642, Robert Dover aveva varato a Cotswold una manifestazione polisportiva definita Cotswold Olympic Games; brevemente interrotta dopo la morte di Dover nel 1641, fu ripristinata sotto il regno di Carlo II nel decennio 1660-1670. In epoca più recente, il dottor William Penny Brookes (1809-1895) elaborò a Much Wenlock, villaggio rurale nello Shropshire, a 65 km da Birmingham, l’idea di una celebrazione dei Giochi su base annuale, che vide la luce il 22 ottobre 1850, con prove di salto in alto e lungo, cricket e calcio, corsa nei sacchi, velocità, ma anche lance infilzate negli anelli e corse a occhi bendati. Se ne disputarono 45 edizioni, una delle quali nel 1889 vide fra gli spettatori il barone de Coubertin, e si creò un gemellaggio con l’analoga iniziativa di Evanghelios Zappas ad Atene. I Giochi di Much Wenlock si allargarono ad altre cittadine e continuarono sporadicamente dopo la morte di Brookes, avvenuta, ironia della sorte, solo un anno prima della disputa dei primi Giochi moderni. Le Olimpiadi di Brookes si tengono ancor oggi, in sua memoria. Sua fu l’idea, nel 1881, di proporre la celebrazione ad Atene di un Festival olimpico internazionale.
Ad Atene di Giochi si parlava già, e concretamente, dalla metà del secolo, grazie, soprattutto, a Evanghelios Zappas, ricco uomo d’affari greco, nato nel 1800 in territorio oggi albanese, che viveva in Romania. Ad Atene Zappas non mise mai piede in vita sua, ma nel 1856 propose al re greco Otto un revival su base permanente dei Giochi e si offrì di finanziare il progetto. Tre anni dopo, nel mese di novembre, ebbe luogo ad Atene la prima edizione dei Giochi Olimpici di Zappas, divisa in tre fasi. Il 15 si svolse a piazza Ludovikou la parte atletica della manifestazione, con gare di corsa e lanci del disco e del giavellotto; il vincitore dei 1500 m fu Petros Velissariou, di Smirne, premiato con 280 dracme, comprensive di 10 sterline inviate da Brookes. Zappas fornì lo stanziamento iniziale per restaurare lo stadio Panathinaikos, costruito dal retore di Atene Licurgo nel 329 a.C. per tenervi un’altra manifestazione polisportiva quadriennale della Grecia antica, le Panatenee. Lo stadio divenne sede dei nuovi Giochi nel 1870, cinque anni dopo la morte di Zappas, che lasciò anche un legato per la costruzione di una palestra, lo Zappeion. L’edizione del 1870 fu un successo, con 30.000 spettatori, quella del 1875 un fallimento, anche per la decisione di restringere le competizioni ai soli esponenti delle classi abbienti, dopo che, nel 1870, un macellaio aveva vinto i 400 m e un muratore la lotta. Il risultato di questa scelta elitaria fu che solo 24 atleti presero parte ai Giochi nel 1875. La restrizione continuò, tuttavia, a essere applicata alle edizioni successive, fino al 1889, quando i Giochi di Zappas caddero in disuso e vennero sostituiti dai Giochi della Società ginnastica panellenica, i cui partecipanti alle edizioni 1891 e 1893 si sarebbero esibiti anche nell’edizione decoubertiniana di Atene 1896.
E veniamo dunque a quest’ultima. In seno al Comitato olimpico internazionale, costituito da de Coubertin, era opinione condivisa che i Giochi dovessero ripartire dalla terra che originariamente li aveva creati. Non certo da Olimpia, dove erano in corso gli imponenti scavi tedeschi in continuazione di quelli iniziati dai francesi e dove emergevano poche tracce degli antichi splendori, sopravvissute agli insulti del tempo, dei terremoti e dei saccheggi, bensì ad Atene. Una corrente di pensiero avrebbe voluto l’istituzione permanente dei Giochi nella capitale greca, ma il barone era contrario. Inizialmente, aveva accarezzato l’idea di aprire il nuovo secolo con il ritorno dei Giochi e di allestirli a Parigi, inseriti nell’Esposizione Universale. Ma poi lo aveva assalito il timore che sei anni, quelli che sarebbero intercorsi fra la decisione assunta nel giugno del 1894 e la disputa dei primi Giochi dell’era moderna, fossero un intervallo di tempo eccessivo. Il principio che de Coubertin difese fu quello di un’Olimpiade itinerante che diffondesse il movimento nel mondo. E anche quest’idea, come quella originaria di ripristinarli, si sarebbe rivelata felice e fruttifera.
L’anno scelto fu dunque il 1896. Dopo aver cortesemente respinto l’offerta del generale svedese Viktor Balck, membro del CIO, di tenere i Giochi a Stoccolma, de Coubertin ricevette il primo assenso, un telegramma del re di Grecia, datato 21 giugno, che lo ringraziava “per aver ricostituito i Giochi”. Il 3 luglio, Demetrios Vikelas (1835-1908), uno storico e romanziere, presidente della commissione sull’Olimpismo al congresso di Sorbona in cui rinacquero i Giochi, ricevette conferma dall’aiutante di campo del principe Costantino di Grecia, il tenente colonnello Sapountsakis, che gli assicurò il patronato reale. Ma la situazione politica ed economica della Grecia destava preoccupazioni. Il regno di Grecia ‒ dopo l’esilio di Otto di Baviera, che aveva regnato per 30 anni dal 1832 ‒ era stato assegnato dalle Grandi Potenze alla corona danese. Il 31 ottobre 1863 il principe di Danimarca Christian Wilhelm Ferdinand Adolf Georg, del ramo degli Schleswig-Holstein, nato a San Pietroburgo, aveva assunto il titolo di re Giorgio I di Grecia, che avrebbe mantenuto fino al 18 marzo 1913, giorno del suo assassinio a Salonicco. Storie dell’epoca vogliono che il principe danese abbia appreso della designazione leggendo un giornale in cui aveva avvolto i suoi sandwich di sardine e che abbia accettato l’offerta, comunicatagli da un notabile danese, pur di lasciare la scuola che odiava. Giorgio I fu nominato re dei Greci a 18 anni; quattro anni dopo sposò Olga, granduchessa di Russia, sedicenne, che gli diede otto figli. La famiglia reale, amatissima dai greci, svolse un ruolo decisivo nella rinascita dei Giochi.
Sul piano internazionale, il biennio 1894-95 registrò la guerra fra Giappone e Cina per il possesso della Corea, che si concluse con la cessione ai nipponici di Formosa. In Germania si ebbe l’avanzata dei socialisti, visti di buon occhio da re Guglielmo II, il ‘re lavoratore’, mentre in Francia, sotto l’impressione dell’assassinio del primo ministro Sadi Carnot da parte dell’anarchico italiano Sante Caserio, venivano varate una serie di norme per rafforzare i concetti di monarchia, religione e famiglia, ma era soprattutto l’affare Dreyfus, il generale ebreo ingiustamente accusato di spionaggio a favore della Germania e degradato, a calamitare l’attenzione nazionale. In Italia divampava ancora l’eco dello scandalo della Banca d’Italia; Francesco Crispi, che nel 1887 aveva formato il governo succedendo ad Agostino Depretis, riprese la politica colonialista e invase l’Eritrea, ma il 1° marzo 1896 maturò la sconfitta di Adua e Crispi, che aveva puntato in politica estera sull’adesione alla Triplice Alleanza e all’interno sul protezionismo economico e sul rafforzamento della burocrazia statale, fu costretto alle dimissioni. Quanto alla Grecia, la lunga lotta contro i turchi, la rivolta popolare a Creta e la politica economica dispendiosa del primo ministro Theodorus Deligiannis avevano prodotto guasti rilevanti, provocando tra l’altro il crollo alla Borsa di Parigi dei titoli di Stato, quotati a un quarto del valore di emissione in franchi.
Nei 15 anni precedenti Deligiannis e Charilaos Tricoupis si erano alternati alla guida del governo greco. Nel 1894 toccò a Tricoupis, che non era certo entusiasta dei Giochi. Vikelas e de Coubertin vennero a conoscenza del lascito di Zappas per lo Zappeion e cooptarono quasi interamente nella struttura organizzativa dei Giochi il comitato addetto alla costruzione, che aveva anche il controllo dei lavori di riedificazione dello stadio Panathinaikos. Vikelas dovette però rientrare a Parigi, perché la moglie era morente. De Coubertin restò solo a lottare con il comitato dello Zappeion, che era assai tiepido sull’organizzazione dei Giochi. Étienne Dragoumis, a capo del progetto, era un alleato di Tricoupis. I due cercarono di convincere i reali che i Giochi sarebbero stati un disastro economico. La salvezza arrivò dall’Egitto. Georgios Averof, un ricco greco che viveva da tempo ad Alessandria, offrì il suo aiuto economico, fino a 920.000 dracme dell’epoca, all’incirca 10 milioni di euro di oggi, per completare i lavori del Panathinaikos. I greci raccolsero 330.000 dracme di contributi volontari, ne ricavarono 400.000 dai francobolli commemorativi e 200.000 dalla vendita dei biglietti. Il principe Costantino ebbe ragione delle difficoltà di Tricoupis e del comitato dello Zappeion e il lavoro preparatorio dei Giochi fu salvo.
Gli impianti erano quel che erano. Il Panathinaikos, capace di ospitare 70.000 persone, fu ricostruito sotto la direzione dell’architetto Anastasios Metaxas, che fu anche in gara ai Giochi del 1896 e del 1906 come tiratore; le prime quattro file delle scalee furono rifatte in marmo, il resto ricoperto con legno; la pista, in terra, stretta e quasi ellittica, si sarebbe rivelata un problema per le gare più lunghe di un rettilineo. Lo Zappeion ospitò la scherma, mentre per il tiro Metaxas costruì il poligono di Kallitea. Il tennis trovò posto assieme al ciclismo su pista al velodromo, eretto sui piani di quello di Copenhagen, il nuoto nelle acque del Pireo, il resto al Panathinaikos.
Gli inviti furono curati personalmente da de Cou- bertin: il programma prevedeva che le gare si svolgessero dal 6 al 15 aprile. Accanto agli sport che videro effettivamente gare disputate (atletica, ciclismo, scherma, ginnastica, tiro a segno, nuoto, tennis, pesi e lotta) erano previste altre discipline. Ma problemi organizzativi e finanziari costrinsero de Coubertin a escludere prima dei Giochi il cricket, gli sport equestri, il pattinaggio su ghiaccio, il jeu-de-paume (tennis corto), il polo e la pallanuoto. Inclusi nel programma, ma cancellati all’ultimo furono il canottaggio, le cui 7 gare previste nella giornata finale non si disputarono per il tempo inclemente, una tempesta di vento e pioggia battente, e la vela, questa per mancanza di iscritti alle 5 prove previste. Le gare, dunque, in 9 sport, furono 43 nell’arco di dieci giorni.
I paesi che risposero all’appello, oltre alla Grecia, furono l’Austria, la Danimarca, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, l’Ungheria, la Svizzera e gli Stati Uniti. Partecipazioni isolate si registrarono da Australia, Egitto, Italia e Svezia, ciascuna con un concorrente, oltre che da Smirne e Cipro, allora indipendenti. Iscritti, ma assenti ad Atene, atleti di Belgio, Cile e Russia.
La spedizione degli USA merita un cenno a parte. La notizia dei Giochi venne diffusa negli Stati Uniti, soprattutto in ambiente universitario, da William Milligan Sloane, membro del Comitato olimpico internazionale ‒ che per Atene era anche il comitato organizzatore ‒ il quale mise in piedi un team composto da quattro studenti di Princeton e sei di Boston per le gare di atletica. Tiepido l’interesse dei britannici, mista l’accoglienza in Francia, dove i tiratori rifiutarono di partecipare; entusiasmo in Germania, la cui famiglia reale era imparentata con la greca.
Le celebrazioni ebbero inizio il 5 aprile, che corrispondeva al 24 marzo del calendario giuliano in uso in Grecia; un equivoco che provocò l’arrivo solo in extremis della spedizione americana. La statua di Averof campeggiava all’ingresso del Panathinaikos. La cerimonia d’apertura fu semplice: dopo l’arrivo di re Giorgio e della regina Olga, prese la parola il principe ereditario Costantino; toccò poi al padre Giorgio pronunciare quella che diverrà la formula di rito: “Dichiaro aperti i primi Giochi Olimpici internazionali di Atene. Lunga vita alla nazione, lunga vita al popolo greco”. Nove gruppi bandistici e 150 coristi intonarono l’inno olimpico, su note di Spyros Samaras e parole tratte dal poema di Kostis Palamas. L’apertura fu proclamata alle 15.30, gli spettatori sulle scalee del Panathinaikos erano 70.000.
Non esistevano medaglie d’oro: i vincitori ricevettero un diploma, una medaglia d’argento e una corona d’ulivo. Tutti i premi furono consegnati da re Giorgio in occasione della cerimonia di chiusura. Non ci furono partecipanti di sesso femminile. Le rappresentative di 15 paesi (considerando tali anche Cipro e Smirne) schierarono 245 atleti: il numero resta approssimativo, poiché di soli 98 greci si è trovata traccia certa, la stima più accreditata li porta però, per le presenze in ginnastica, nuoto e tiro, a 166. Il rapporto ufficiale, lacunoso e pieno di imprecisioni e iperboli, non fa neppure completa menzione di tutti gli atleti che oggi definiremmo ‘da podio’, cioè dei primi tre per ogni gara. Il CIO ha sempre rifiutato di rivedere, in maniera autorevole, i dati dei rapporti ufficiali dei primi Giochi, assai incompleti fino al 1920, a parte Stoccolma 1912: si deve agli studi della Società internazionale di storici dell’Olimpismo, presieduta dallo statunitense Bill Mallon, e alle sue pubblicazioni, la revisione delle notevoli inesattezze di tali rapporti. Queste pubblicazioni restano la fonte più autorevole, se non l’unica, per i dati relativi ai primi Giochi: ma la ricerca, dopo oltre un secolo, ancora continua.
Il primo atto agonistico dei Giochi moderni fu una batteria dei 100 m: vi parteciparono 5 atleti, e l’americano Frank Lane ottenne il primo (parziale) successo dei Giochi, cronometrato in 12″1/5 dall’unico cronometrista, l’architetto inglese Charles Perry. La prima immagine, scattata per la Kodak dal tedesco Albert Meyer ‒ a lungo ritenuta quella della partenza della finale ‒ ci mostra invece, come documentato da Mallon e Kamper, l’avvio della seconda batteria dei 100 m, con l’americano Thomas Curtis, secondo da sinistra, che esibisce i quattro appoggi di scuola anglosassone. Lo stesso Meyer scattò, dall’alto, un’immagine dell’arrivo della finale.
L’atletica monopolizzò l’attenzione: nel suo programma figuravano una gara reinventata per l’occasione e un’altra costruita, letteralmente, a tavolino. La prima era il lancio del disco, modellato sulle statue greche e romane. La storia registra una gara a Cambridge nel 1882, ma quella di Atene, il 6 aprile, fu la vera prima competizione internazionale. La pedana era quadrata, 250 cm di lato, l’attrezzo pesava 2 kg. L’americano Robert Garrett, che si era allenato con un attrezzo del peso di 10 kg, scoprì che il disco di Atene era cinque volte più leggero e lo fece volare, infliggendo una cocente sconfitta ai greci, che puntavano sullo stile ‘autentico’ del loro campione, Panayotis Paraskevopoulos. Garrett al quinto e ultimo lancio superò il rivale di 20 cm e iscrisse il suo nome nella storia.
Ma non fu suo il primo successo olimpico: toccò invece a uno studente di Boston, nel triplo. La disciplina ammetteva all’epoca sia la gamba alternata sia i primi due appoggi sullo stesso arto e questa era la pratica seguita da James Brendan Connolly (nel suo caso l’arto era il destro), che dominò con oltre un metro di vantaggio su un funzionario dell’ambasciata francese ad Atene, Alexandre Tuffère, che adottava la gamba alternata. Connolly era nato da una povera famiglia irlandese a South Boston nel 1865: studiava ad Harvard con grandi sacrifici, ma il suo tutor gli negò il permesso di partecipare ai Giochi. Connolly allora lasciò gli studi, si iscrisse a un piccolo club, il Suffolk Athletic, e poiché i soci potevano offrirgli solo 250 dei 325 dollari necessari per il viaggio, due sacerdoti della sua chiesa, St. Augustine, organizzarono una vendita di prodotti alimentari per raccogliere il resto. Connolly partì in nave, dopo 16 giorni arrivò a Napoli, dove gli rubarono il portafogli, e prese il treno per Atene, che raggiunse solo la sera del 5 aprile, a causa dell’equivoco sul calendario. Restò sveglio tutta la notte per le celebrazioni dei greci, ma il giorno successivo vinse il triplo. Fu anche secondo nell’alto e terzo nel lungo. Ancora argento 4 anni dopo a Parigi, dopo aver saltato i Giochi di St. Louis gareggiò in quelli intermedi di Atene 1906, senza riuscire a ottenere un salto valido né nel lungo né nel triplo. Fece poi il giornalista e il corrispondente di guerra, scrisse 25 romanzi e 200 racconti. Nel 1947, Harvard gli offrì una laurea honoris causa, che Connolly però rifiutò. Morì a 87 anni, senza aver mai più rimesso piede ad Harvard.
La seconda invenzione dell’atletica di Atene riguardò la maratona. L’idea venne suggerita a de Coubertin da un filologo della Sorbona, Michel Bréal (1832-1915), per commemorare il sacrificio di Fidippide (o Filippide), che secondo il racconto dello scrittore del 2° sec. d.C. Luciano di Samosata (ma Plutarco lo chiama Eucle) aveva percorso d’un fiato la distanza fra Maratona e Atene per annunciare il successo sui persiani nel 490 a.C. ed era poi spirato sotto un albero. In realtà, Erodoto, pur riferendo di resistenti messaggeri degli eserciti ellenici, incluso un certo Fidippide famoso per aver coperto i 240 km fra Sparta e Atene senza peraltro morire, non fa alcun cenno a Fidippide in occasione delle cronache sulla battaglia di Maratona, il che induce a ritenere che Luciano abbia inventato la storia. Il suo racconto comunque fece presa su Bréal e, di conseguenza, su de Coubertin. Il barone fece misurare la distanza e varò una prova di circa 40 km, che seguiva un percorso sicuramente diverso da quello del messaggero dell’epoca, se mai esistito, che di certo aveva tagliato per le colline. I greci organizzarono due selezioni, una per militari e una per civili, il 10 e il 25 marzo. Nella seconda, si piazzò diciassettesimo un contadino di Maroussi (allora Amaroussi), un villaggio alla periferia di Atene ‒ oggi il quartiere dove sorge lo Stadio olimpico ‒ di nome Spyridon Louis. Avrebbero dovuto essere qualificati per i Giochi 16 atleti, ma su insistenza del maggiore G. Papadiamantopoulos, che lo conosceva per averlo avuto sotto le armi, anche Louis fu ammesso. Spyridon era nato fra la fine del 1872 e l’inizio del 1873 (fu registrato il 12 gennaio, ma all’epoca le nascite venivano denunciate con notevole ritardo), da una famiglia di contadini, quinto e ultimo figlio. Portava l’acqua dal suo villaggio fino ad Atene, percorrendo a piedi i 7 km dell’andata accanto al suo mulo carico degli otri, e tornando a cavallo della bestia al ritorno. Un buon allenamento, anche se Louis non avrebbe mai immaginato quale sarebbe stato il suo futuro.
La maratona si svolse il 10 aprile, con partenza dal villaggio di Maratona. Fra gli iscritti non figurò l’italiano Carlo Airoldi, che sarebbe stato probabilmente uno dei favoriti. Airoldi era un lombardo, figlio di un fabbro originario di Voghera, risiedente a Origgio, nel Varesotto. Non aveva ancora 27 anni, ma era già un veterano delle gare di lunga distanza. Tarchiato e muscoloso, era un uomo resistente, si esibiva anche come lottatore e sollevatore di pesi. Al Trotter di Milano aveva sfidato e battuto bici, tandem, tripletta, una biga e perfino un falso Buffalo Bill (a cavallo). Ma le sue imprese erano su strada: la vittoria nella Lecco-Milano di 50 km, e soprattutto il trionfo nella Torino-Marsiglia-Barcellona del 1895, lunga 1050 km. Da Torino partirono in 30, ma dopo 12 tappe c’era solo il francese Louis Ortègue a contrastare l’italiano. Ortègue ebbe una crisi e crollò a 2 km dall’arrivo. Airoldi si fermò, se lo caricò in spalla e lo portò al traguardo. Vinse 2000 pesetas, che avrebbe scontato amaramente. Infatti, quando accettò la sponsorizzazione del periodico milanese La bicicletta per raggiungere Atene a piedi (26 giorni di corsa, 1338 km percorsi da Milano a Dubrovnik, uccidendo, come raccontò poi, anche tre lupi, poi in nave fino a Patrasso, di qui ancora a piedi fino alla capitale greca) i giudici lo esclusero dalla maratona olimpica perché ‘non dilettante’. La parola amateur, nata in Gran Bretagna durante l’epoca d’oro della corsa su strada, il pedestrianism, contrassegnava gli atleti che non ricevevano premi in denaro, il che eliminava intere classi sociali dalle gare. Ciò accadeva anche in seno al CIO: de Coubertin era conscio del problema e sapeva che così solo i benestanti avrebbero partecipato ai Giochi, ma era proprio su questi che contava perché diffondessero, nei loro ambienti, l’idea olimpica.
Airoldi fu dunque escluso dalla prova che partì alle 14 del 10 aprile con 17 pionieri, di cui 5 stranieri. Condusse per 20 km un francese, Albin Lermusiaux, che si era segnalato in pista perché durante le gare indossava i guanti bianchi, “per rispetto al re”; a metà percorso Louis era sesto, alle spalle di Lermusiaux c’erano un australiano, Edwin Flack, che faceva il contabile a Londra e aveva già vinto gli 800 m il giorno prima, poi l’americano Arthur Blake, l’ungherese Gyula Kellner e il greco Ioannis Lavrentis. Blake si ritirò subito dopo, mentre avanzò il favorito dei greci, Charilaos Vasilakos, terzo. Cedette Lermusiaux, Flack passò in testa. Louis rimontando dalle retrovie lo raggiunse al 32° km e i due corsero assieme per 5000 m, passando nel villaggio di Maroussi. Ad Ambelokipi, Flack si ritirò e Louis restò solo in testa. Le staffette di ciclisti entrarono al Panathinaikos gridando Hellene, Hellene (“un greco, un greco”) e due principi, Nicola e Giorgio, piombarono sulla pista per accompagnare Louis, che chiuse in 2h58′50″, con quasi 8 minuti su Vasilakos e Spyridon Belokas; ma la tripletta greca fu vanificata dalla squalifica di Belokas, che era salito su un carro in una parte della gara. Terzo fu dunque Kellner. Louis diventò un eroe nazionale: gli offrirono cibo gratis, barba e capelli a vita, persino un terreno a Londra, un’ereditiera americana chiese di sposarlo. Ma lui decise di tornare al suo paese: scomparve nel nulla, si sposò ed ebbe tre figli, perse presto la moglie, restò affidato alle nipoti, con un modesto impiego, senza più gareggiare, per riapparire ai Giochi di Berlino 1936, quando i tedeschi lo invitarono fra gli ospiti d’onore. Morì a 67 anni, nel 1940.
Il livello tecnico delle gare fu modesto: d’altra parte, la spedizione americana comprendeva un solo campione nazionale, Thomas Burke, che infatti vinse 100 e 400 m. Si segnalò la ginnastica, illuminata dai tedeschi: all’aperto, al centro del Panathinaikos, fece man bassa di medaglie Carl Schuhmann, alto appena 1,59 m per 70 kg, che vinse tre ori e ne aggiunse un quarto nella lotta, in cui batté ‒ dopo una sospensione per oscurità e una ripresa il mattino dopo ‒ il greco Georgios Tsitas, alto 1,75 m. Schuhmann fu l’eroe della cena di chiusura, complimentato dallo stesso re, che aveva officiato le gare. Molti ginnasti erano giovanissimi: a 10 anni e 218 giorni Dimitros Loundras fu il più giovane medagliato olimpico, terzo con la sua squadra, l’Ethnikos. L’atleta più anziano fu il trentaseienne Georgios Orphanidis nel tiro; in questa disciplina, ma nella prova riservata alla carabina militare 200 m, gareggiò anche un italiano, tal Rivabella. Fece in tempo ad applaudire la regina Olga che provò un fucile prima delle gare, poi fu subito eliminato e non partecipò alla fase finale.
Il nuoto fu disputato in condizioni proibitive, nelle acque gelide e agitate del Pireo; i 100 m andarono a un ungherese, Alfred Hajos, che divenne poi famoso come architetto: suo sarà il progetto del Nepstadion di Budapest negli anni Venti. Quanto al tennis, all’aperto, nel velodromo olimpico, vi si affermò fra gli altri la strana coppia formata dal britannico (in realtà irlandese) John Pius Boland e dal tedesco Fritz Traun, che Boland reclutò dopo che Traun era stato eliminato negli 800 m. Il ciclismo fece registrare le più lunghe gare olimpiche su pista della storia, come i 100 km al coperto con 300 giri del tracciato, dominati dal francese Léon Flameng, che si affermò con 11 giri di vantaggio sul greco Georgios Kolettis, dopo averlo atteso quando si era fermato per un incidente meccanico. Ci fu anche una corsa sulle 12 ore, conquistata dall’austriaco Adolf Schmal, più noto come schermidore: Schmal guadagnò subito un giro di vantaggio, si incollò al britannico Frank Keeping e lo seguì come un’ombra fino al traguardo. Nella sciabola era rimasto fuori dal podio, avendo dovuto ripetere le fasi iniziali ‒ era in netto vantaggio ‒ per il ritardato arrivo del re.
Il bilancio complessivo, quanto a medaglie, vide la Grecia in testa con 47, ma con un oro in meno degli USA, che ne ottennero in totale 20, con 14 atleti presenti.
La cerimonia di chiusura, rinviata per pioggia al 15 aprile, fu illuminata da un’ode ‘pindarica’ scritta e recitata da uno studente di Oxford, George Stuart Robertson, bronzo nel tennis (doppio). Seguì la premiazione: il primo insignito fu Louis, che ricevette anche una coppa donata da Bréal, medaglie furono date anche ai secondi, un diploma di partecipazione agli altri. Gli atleti, guidati da Louis vestito con il costume nazionale degli euzones, uscirono in parata dallo stadio. Re Giorgio dichiarò chiusi i Giochi, destinati a tornare ad Atene nel 1906, in un’edizione non ufficiale, e poi soltanto nel 2004.

Fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/olimpiadi-estive-atene-1896_(Enciclopedia-dello-Sport)/