Di Antonello Longo
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Si verifica in questi giorni una serie di eventi politici rilevanti in sé, ma che sono da valutare soprattutto per la la loro concatenazione.
a) Si spacca l’Europa per l’offensiva dell’Ungheria di Viktor Orban e della Polonia di Mateusz Morawiecki, adesso spalleggiate anche dalla Slovenia di Ivan Janša, (Janez) leader del Partito Democratico Sloveno.
Varsavia e Budapest insistono sul veto al bilancio UE, bloccando così la prima tranche da 20 miliardi pronta per l’Italia. Pessima notizia per un Paese come il nostro, dalle finanze boccheggianti, ma quel ch’è più grave è lo slittamento, ormai difficilmente evitabile, dei tempi già lunghi per l’effettiva partenza del Recovery Fund di cui il nostro Paese è il maggiore beneficiario, al netto delle discettazioni sulla portata reale del beneficio. Al momento, non è possibile prevedere quando arriveranno i 209 miliardi di euro previsti tra sovvenzioni e prestiti.
Orban e Morawiecki sanno bene che anche i loro Paesi aspettano le rispettive quote del finanziamento, ma giocano una partita politica della massima importanza, non solo per loro stessi.
Infatti, in base agli accordi raggiunti, nel bilancio comunitario all’esame del Parlamento Europeo è inserita una clausola in base alla quale la Commissione potrà bloccare l’erogazione dei fondi se il Paese interessato non rispetta lo Stato di diritto.
Stato di diritto vuol dire rispetto di principi come la libertà di stampa, l’indipendenza dei giudici e i diritti delle minoranze. Dalla UE è venuto un monito chiaro: il blocco dei fondi scatterà “non solo in caso di corruzione e frode ma anche per violazioni di valori fondamentali come la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e il rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle minoranze”.
Ora, sia Polonia che Ungheria sono state già condannate dalla Commissione europea e dall’Alta Corte di giustizia proprio per tali violazioni, e numerosi altri procedimenti dello stesso tipo sono attualmente in corso.
In particolare, la Polonia di Orban è stata condannata per le recenti leggi varate in materia di selezione e nomina dei giudici, che ne limitano l’autonomia dalla politica, per la legge che inibisce le università straniere (cosiddetta legge anti- Soros) e per la legge che riguarda sia le ONG, con la previsione del carcere per chi assiste i migranti arrivati illegalmente in Ungheria, sia il respingimento dei richiedenti asilo per motivi umanitari.
Tanto alla Polonia che all’Ungheria sono state comminate condannate anche per aver violato gli accordi sottoscritti nel 2015 da tutti i governi dell’Unione (compresi quelli di Varsavia e Budapest) per il ricollocamento di 160mila richiedenti asilo tra quelli, molti di più, della grande ondata di sbarchi registrata in quell’anno in Italia e Grecia. L’accordo fu rispettato da tutti i Paesi europei, tranne la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca.
Logico, quindi, che Orban, capo del partito Fidesz (Unione Civica Ungherese), così come Morawiecki, leader del PIS (Diritto e Giustizia), maggiore azionista dell’Ecr, il raggruppamento dei partiti conservatori europei presieduto da Giorgia Meloni, temono di mettere nelle mani della Commissione europea un’arma di condizionamento molto più forte delle blande sanzioni previste dai trattati, che potrebbe mettere in crisi la guida autocratica che essi esercitano nei loro Paesi. Si comprende, quindi, che non si lascino scappare l’occasione di esercitare un infausto diritto di veto sul bilancio europeo, per strappare concessioni sia sul piano economico che, soprattutto, su quello politico.
b) In Italia, i partiti della destra parlamentare, Lega e Fratelli d’Italia, non ritengono opportuno far leva sui rapporti di affinità e amicizia che li legano a Orban e Morawiecki per provare ad ammorbidire la loro posizione, che danneggia soprattutto l’Italia. Al contrario, essi si sono schierati a difesa dei sodali polacchi e ungheresi, sposandone le ragioni politiche e rilanciandone le parole d’ordine.
Secondo Salvini e Meloni la colpa dello stallo sul Recovery Fund è dell’UE che pretende di limitare la sovranità di ungheresi e polacchi e vuole punirli per le politiche da essi adottate contro l’immigrazione.
Malgrado le sentenze della Corte di Giustizia, Giorgia Meloni dà una lettura tutta politica della vicenda. Richiedere lo Stato di diritto, afferma la leader di FdI, è come dire “se non vi inginocchiate niente soldi per combattere il coronavirus, basta con la difesa di confini e identità cristiana”. E, sul Recovery Fundd: “l’eurosistema vuole sfruttare quei soldi per costringere quelle Nazioni a cedere la propria sovranità”.
Ecco: difesa dei confini dai migranti “invasori” e identità cristiana, questo è il modello culturale proposto dalle destre. Trump, Orban, Morawiecki, Janez, Bolsonaro, questi i modelli di riferimento. E la rivendicazione di questi valori, di un tale schieramento, anche nelle attuali, drammatiche difficoltà in cui gli italiani si dibattono, di fatto, viene anteposta alle necessità contingenti della nazione.
L’opinione di chi scrive è implicita, ma invito il lettore, di cui rispetto l’eventuale indirizzo moderato o conservatore, a riflettere senza pregiudizio sulle prospettive che una destra di questo tipo può aprire al nostro Paese nel contesto europeo e internazionale.
c) Salvini e Meloni esercitano un ruolo egemone su un’alleanza che, per potersi chiamare di centro-destra così come per aspirare a fare maggioranza nel futuro Parlamento (a ranghi ridotti), ha bisogno di Berlusconi.
Il mutato atteggiamento di Forza Italia, che si discosta dagli alleati dicendosi pronta a collaborare con la maggioranza di governo, anche se limitatamente alla gestione dell’emergenza sanitaria ed economica, mette il governo Conte al riparo da sorprese nelle votazioni in Senato, prima su ulteriori, inevitabili scostamenti sul bilancio 2020 e dopo sulla stessa legge di bilancio 2021.
Sono possibili tre chiavi di lettura per questo cambio di rotta.
Il primo, più banale, è uno scambio di favori con la maggioranza per l’approvazione dell’emendamento al decreto Covid, cosiddetto “salva- Mediaset”, che frena la temuta scalata di Vivendi alla grande azienda di Cologno Monzese (migliaia di dipendenti, 3.824 miliardi di fatturato nel 2020, 190 miliardi di utile nel 2019). La holding francese, infatti, che già è la prima azionista di Telecom Italia, detiene una quota del 29% del capitale Mediaset e minaccia da vicino il 38% di Fininvest.
Le supposizioni malevole non sono campate in aria, tuttavia non colgono nel segno. Il secondo criterio interpretativo è invece politico. Schiacciata sulle posizioni degli alleati di destra, la creatura di Berlusconi ha finito per svolgere un ruolo marginale.
Differenziarsi, trovare uno spazio politico autonomo, rivendicare la propria funzione che, sola, può bilanciare al centro l’alleanza con Lega e FdI e rendere un eventuale futuro governo (in qualche modo) presentabile in Europa, è una questione vitale per l’inquilino di Arcore. Vitale, appunto, di vita o di morte. L’anziano leader ha più fiuto politico dei suoi giannizzeri, dei quali perde il controllo man mano che vengono attratti dagli scampoli di potere lasciati e promessi dagli alleati che vanno per la maggiore. Perciò sta correndo ai ripari, sperando che non sia troppo tardi.
La reazione del “duro” Salvini è stata chiara: la Lega non ha votato l’emendamento “salva-Mediaset” e il passaggio da Forza Italia alla Lega di tre deputati non di secondo piano come Ravetto, Zanella e Ferrara è un avvertimento: “se continui, posso smontarti il partito”! Mentre la Meloni, più furba, lavora da tempo ad erodere la base territoriale degli azzurri.
Perciò l’uomo di Arcore proseguirà nel processo di smarcamento ma andrà avanti con prudenza.
La terza chiave di lettura va ricercata sul terreno europeo. Le scelte di campo di Salvini e Meloni in Europa non possono essere metabolizzate da una forza politica che si dice liberale e che fa parte del Partito Popolare Europeo senza snaturarsi e perdere la bussola politica.
Né va dimenticato che Berlusconi, pur avendo formalmente passato la mano ai figli, resta sempre il punto di riferimento di una grande holding multinazionale, che ha bisogno di buone “entrature” in sede comunitaria e nelle centrali
finanziarie. Un versante sul quale la deriva sovranista degli alleati può metterlo seriamente in difficoltà e già se ne vedono i segnali.
I tre elementi considerati non possono rasserenare un quadro politico già fosco. I ritardi dell’Europa fanno rischiare all’Italia di sprofondare in un autentico baratro economico nel prossimo anno, con la pandemia che stringerà la sua morsa per tutto l’inverno, il blocco dei licenziamenti che scadrà in primavera, un debito pubblico che schizza verso livelli impensabili ed i fondi europei che non arriveranno, se tutto andrà bene, prima della parte finale dell’anno.
I legami della destra italiana con il sovranismo internazionale porterà questo schieramento a cavalcare sempre di più il malcontento e la protesta, nel tentativo di travolgere un governo incerto e un Parlamento screditato e defedato dal referendum di settembre.
Il Presidente Mattarella, con insolita energia, ha ammonito le forze politiche e le parti sociali ad assicurare almeno quel livello di coesione e di responsabilità che consenta di mantenere la pace sociale, seriamente a rischio.
Le risposte, fin qui, non sono le più rassicuranti. Ma ogni crisi può comportare aspetti di potenziale cambiamento da utilizzare in positivo. A tentoni, nel buio, dobbiamo provare a ritrovare i pezzi della fiducia infranta.
21/11/2020