Di Gianni De Iuliis
Il 15 giugno del 1978, un giorno in cui a Roma pioveva, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone firmò l’atto ufficiale delle dimissioni – le prime volontarie di un Presidente della Repubblica – e, dopo i saluti dovuti al protocollo, lasciò il Quirinale, rifiutando qualunque cerimonia. Erano in pochi, comunque, ad essere venuti per salutarlo. Le sue dimissioni arrivarono in seguito a una serie di insinuazioni, accuse e attacchi della stampa e del Partito Radicale, che erano andati avanti per mesi. Negli anni successivi la gran parte di quelle accuse si rivelò infondata. Nel 1998 Marco Pannella ed Emma Bonino gli chiesero ufficialmente scusa. Leone sarebbe morto tre anni dopo.
Giovanni Leone nacque a Napoli il 3 novembre del 1908 e morì a Roma il 9 novembre del 2001. Fu un avvocato penalista, professore di diritto penale e un giurista molto importante. Fu deputato all’Assemblea Costituente, poi per tre volte alla Camera, e fu eletto nove volte senatore. Scrisse un manuale di diritto penale molto diffuso e nel 1955 contribuì a riscrivere il vecchio codice di procedura penale, il cosiddetto codice Rocco, che era in vigore dagli anni ’30. Per potere continuare a insegnare, negli anni ’30, fu iscritto al partito fascista. Nel 1944 si iscrisse alla Democrazia Cristiana, un partito nel quale rimase fino al suo scioglimento.
Nonostante fosse uno dei dirigenti più importanti della DC, molto popolare soprattutto a Napoli, Leone non fece mai parte di nessuna corrente e questo, secondo molti testimoni dell’epoca, finì sempre per danneggiarlo. Leone era percepito come un “notabile”, una figura prestigiosa, lontana dalle lotte di partito, a cui era possibile affidare incarichi che richiedessero una certa indipendenza, ma che spesso erano anche più simbolici che altro.
Leone fu presidente della Camera dal 1955 al 1963 – Francesco Cossiga lo definì il miglior presidente della Camera di sempre. Fu due volte presidente del Consiglio, ma sempre di quei governi che la stampa definiva “balneari”, cioè governi di transizione, poco importanti e che avevano soltanto il compito di portare il paese alle elezioni successive. Il primo fu dal giugno al dicembre del 1963, il secondo dal giugno al dicembre 1968.
L’elezione di Leone alla presidenza della Repubblica è stata la più lunga della storia: per eleggerlo furono necessari 23 scrutini e 15 giorni. All’inizio delle votazioni, il 9 dicembre 1971, Amintore Fanfani era il candidato ufficiale della DC. Fanfani aveva numerosi nemici all’interno del partito e per sei scrutini consecutivi i “franchi tiratori”, ovvero i parlamentari che votavano diversamente dalla linea decisa dal gruppo, bloccarono la sua elezione. Su una delle schede, che Fanfani esaminava una ad una in quanto presidente del Senato, era scritto: «Nano maledetto, non sarai mai eletto». Per i primi sei scrutini e poi di nuovo all’undicesimo, Fanfani venne candidato senza mai riuscire a ottenere la maggioranza.
La DC rimase senza un candidato fino al ventunesimo scrutinio, mentre i suoi componenti si incontravano in maniera frenetica per cercare di mettersi d’accordo su un nome. La persona scelta fu Leone, una figura terza, lontana dagli scontri interni al partito e che poteva mettere d’accordo tutti quanti. In realtà anche Leone non fu facile da eleggere. Furono necessari due scrutini e i voti del MSI, cioè i voti di quelli che all’epoca si chiamavano apertamente “i fascisti”. Questo appoggio diventò un problema che Leone si sarebbe portato avanti a lungo.
La sua presidenza venne subito etichettata come una scelta conservatrice: oltre che a Fanfani, Leone era stato preferito anche ad Aldo Moro, considerato più vicino alla sinistra. In realtà Leone fu un presidente piuttosto equilibrato e lontano dal suo partito di appartenenza – uno dei motivi per cui negli anni successivi sarebbe stato, di fatto, abbandonato. Un altro motivo che gli alienò le simpatie della sinistra – anche di quella della DC – fu che il 14 ottobre del 1975 inviò un messaggio alle Camere in cui chiedeva con toni molto accorati una riforma della Costituzione – che secondo lui non era più in grado di tutelare la libertà e la giustizia sociale – e l’attuazione delle sue norme che chiedevano di regolamentare con leggi apposite il diritto di sciopero e le organizzazioni sindacali.
Leone fu presidente della Repubblica durante gli anni più duri del terrorismo e della contestazione. Sotto il suo mandato ci furono la strage di Brescia e quella del treno Italicus. Proprio nei mesi delle sue dimissioni Aldo Moro venne rapito e assassinato: Leone fu sempre favorevole alla trattativa con le Brigate Rosse e scrisse alla famiglia di Moro che aveva «la penna pronta» per firmare la grazia ai brigatisti che i rapitori di Moro volevano liberare per mettere fine al sequestro.
Nel clima di quegli anni, Leone rappresentava per molti il simbolo del presidente di destra, pronto ad avvallare derive autoritarie. A partire dal 1975 Leone venne criticato in maniera sempre più feroce, soprattutto sulla stampa ma anche al cinema: come ad esempio nel film a episodi del 1976 Signore e signori, buonanotte.
Molte critiche riguardavano il fatto di essere un gaffeur. Dal punto di vista personale, Leone era un personaggio abbastanza spontaneo e sopra le righe. Giulio Andreotti raccontò ad esempio che poco dopo la sua elezione si trovava con Leone a una commemorazione di Mazzini. Poco prima di entrare nella sala, davanti a numerosi giornalisti e altre personalità, Leone lo prese per il braccio e gli sussurrò: «Ho sentito dire che Mazzini porta jella. Tié!», facendo il gesto delle corna. Sempre il gesto delle corna venne immortalato in una famosa foto in cui Leone rispondeva a un contestatore che gli aveva urlato «Leone a morte!»