13 luglio 1814, COSÌ NACQUE IL CORPO DEI CARABINIERI REALI


Storia dell’Arma.

Due storie parallele: l’Italia e l’Arma dei Carabinieri.
Il 1814 fu un anno decisivo per tutta la Penisola (quella che il cancelliere austriaco Metternich giudicava come una «mera espressione geografica», non degna di essere promossa al rango di Nazione). Nascevano i Carabinieri e – a distanza di pochi mesi – i rappresentanti delle Grandi Potenze europee si riunivano in Congresso a Vienna per ridisegnare la carta politica del Vecchio Continente, messo a soqquadro dal ciclone Napoleone.

La geopolitica – condividendo le opinioni di Metternich, e sposando la causa della Restaurazione – non si dimostrò generosa con gli italiani, riproponendone le divisioni del Settecento, lo status quo antecedente la Rivoluzione francese. Ma il virus unitario ci mise poco tempo a diffondersi nelle coscienze liberali, quelle che rifiutavano i totalitarismi e aspiravano alla realizzazione del sogno nazionale.

Il racconto di quel che accadde dopo, e che trasformò il sogno in realtà, ci accompagnerà per tutto quest’anno (nello spirito del Centocinquantesimo).

E proseguirà – sempre affiancato dalla gloriosa storia dell’Arma – fino al 2014, per arrivare ai giorni nostri, attraversando l’Italia dell’Ottocento, le due guerre mondiali, gli incubi del “secolo breve”, fino a descrivere l’Italia contemporanea, quella che abbiamo oggi sotto gli occhi. Fedeli, nell’arco di due secoli.

Il palazzo a sinistra, sullo sfondo della piazza Carlina di Torino, nel dipinto riprodotto in questa pagina, fu la prima sede del Corpo dei Carabinieri Reali. Erano trascorsi appena due mesi da quando Torino (con il ritorno di Vittorio Emanuele I) era di nuovo la Capitale del Regno di Sardegna. Fu allora che il re sabaudo istituì il Corpo dei Carabinieri Reali, uno dei primi atti del Regno restaurato e – sicuramente – uno dei più significativi di Vittorio Emanuele.

Fra i sovrani spodestati da Napoleone Bonaparte, il primo a rientrare in Italia fu proprio lui: Vittorio Emanuele I di Savoia. Il re di Sardegna non aveva perso la corona, ma era stato relegato in provincia. Il Piemonte era stato occupato dai francesi, e il trono era stato trasferito in Sardegna (in esilio, praticamente). Vittorio Emanuele fece ritorno a Torino, il 19 maggio 1914 (un mese e mezzo dopo l’abdicazione di Napoleone). Era sbarcato a Genova il 14, e il giorno stesso aveva lanciato un proclama ai sudditi: «L’Europa è libera. Cancellate dall’animo vostro le sofferte oppressioni e ricordate la fermezza con la quale rintuzzaste l’orgoglio del nemico devastatore». Il rientro fu trionfale. Il sovrano percorse a cavallo la via del Po fino alla piazza del Castello, salutato da «immense dimostrazioni d’amore» (come scrisse un cronista del tempo). Le finestre erano inghirlandate di fiori; sulle facciate dei palazzi ricomparvero gli stendardi con la croce sabauda (nascosti nei sedici anni precedenti). Le campane suonavano a stormo e nel Duomo fu celebrato un solenne Te Deum. Ma quel che suscitò maggiore scalpore fu la riapparizione, sulle teste di molti nobili, delle parrucche incipriate, riesumate dai bauli finiti in soffitta un quarto di secolo prima.

Il 21 maggio Vittorio Emanuele lanciò un secondo proclama, più esplicito, nel quale annunciò l’abrogazione di tutte le leggi approvate durante l’occupazione e la reintroduzione di tutte le istituzioni prerivoluzionarie. Poi, senza perdere tempo, licenziò i funzionari civili (sostituendoli con i nobili), gli ufficiali dell’esercito, i professori universitari che avevano ottenuto la cattedra nel periodo napoleonico. Reintegrò nei ruoli tutto il personale che era in servizio nel 1798. Per fortuna fu accantonato, all’ultimo momento, il progetto di distruggere il ponte sul Po e la strada del Moncenisio, in quanto opere del periodo napoleonico.

Nel giorno memorabile del rientro il servizio d’ordine lungo le strade era stato curato da soldati austriaci, perché il Piemonte era rimasto senza forze armate. C’era soltanto una Guardia urbana, composta da poche decine di uomini. Fu questa la ragione che indusse Vittorio Emanuele a istituire il Corpo dei Carabinieri Reali, che avrebbe assolto il duplice compito di tutelare l’ordine pubblico e garantire la difesa del Regno. «Nel regno di Sardegna», ha ricordato lo storico Gianni Oliva (autore di una corposa Storia dei Savoia, ma anche di una Storia dei Carabinieri), «non esisteva una tradizione di truppe esplicitamente adibite al mantenimento della sicurezza pubblica, se si escludono il Corpo di cavalleria dei Dragoni, istituito nel 1726 per il servizio di sorveglianza interna nell’isola, e il Corpo militare di polizia, fondato da Vittorio Amedeo III nel 1791 ma costituito da soli quarantaquattro uomini. Nei casi di emergenza venivano impiegate le forze regolari dell’esercito. La Rivoluzione francese, mobilitando le masse contadine e urbane e armando il popolo nell’esercito rivoluzionario, aveva però inaugurato una nuova stagione storica, dove le minacce all’ordine costituito non sarebbero venute da isolate jacqueries facilmente domabili, ma da opposizioni organizzate e consistenti, di fronte alle quali i governi dovevano dotarsi di adeguati strumenti di controllo, di sorveglianza e di repressione. Per assolvere ai tradizionali compiti di difesa delle frontiere e di mantenimento dello status quo sociale, il vecchio modello d’esercito dinastico andava aggiornato con la creazione di nuovi reparti, preparati specificamente, anche se non esclusivamente, per la conservazione della stabilità interna».

Lo storico inglese John Gooch (in un saggio intitolato Soldati e borghesi nell’Europa moderna) sottolinea come gran parte dei governanti europei si trovò in quel momento di fronte a questo interrogativo: come conciliare l’efficienza militare, che richiedeva un esercito basato in larga misura sull’arruolamento obbligatorio, con la sicurezza che potevano garantire truppe scelte, ristrette, composte da soldati di professione? In buona parte il problema si risolse da sé, perché nell’immediato in tutta l’Europa non ci si preoccupò di rivaleggiare, ma soprattutto di fare delle forze armate gli esecutori della repressione all’interno di ogni Stato.

LE REGIE PATENTI. Vittorio Emanuele I affidò alla Segreteria di Guerra il compito di stendere un Progetto d’istituzione di un corpo militare pel mantenimento del buon ordine. Sicuramente fece pressioni perché l’idea si realizzasse in un tempo brevissimo. Dopo poche settimane, infatti, erano già pronte due relazioni: la prima messa a punto da Luigi Prunotti, capitano reggente di Pinerolo, a nome della Segreteria di Guerra; la seconda preparata da una apposita commissione (relatore Francesco David). È curioso sottolineare come, nonostante i sentimenti apertamente antifrancesi del re e della corte, entrambi i progetti si ispirarono all’ordinamento della Gendarmeria francese, un’istituzione di antica data, perfezionata nel corso del tempo e giunta al suo più alto grado di efficienza nel periodo napoleonico, con oltre 30mila effettivi distribuiti sul territorio in 2.500 unità operative.

Quel che Vittorio Emanuele I aveva in testa – ha scritto il generale di Corpo d’Armata Arnaldo Ferrara, autore di una monumentale Storia documentale dell’Arma dei Carabinieri (giunta al suo quarto volume) – era «un Corpo nuovo, dalla valenza multipla e dalle attribuzioni particolari, ispirato ai principi di libertà, di riconoscimento pieno dei diritti delle popolazioni, di esaltazione dei valori dell’uomo ormai pienamente acquisiti dopo la Rivoluzione francese».

Il 13 luglio 1814 (la data offre una prova della sollecitudine con la quale si lavorò: erano passati appena due mesi dal rientro a Torino del monarca) furono promulgate le Regie Patenti, che segnarono la nascita dei Carabinieri. Le patenti costituivano un atto ufficiale con il quale si dava formalmente il via a progetti di particolare rilievo per lo Stato. Il documento era composto da 16 articoli, preceduti da un preambolo, nel quale si spiegavano gli obiettivi del decreto. In questi termini (debitamente aulici): «Per ricondurre, e assicurare viemaggiormente il buon ordine, e la pubblica tranquillità, che le passate disgustose vicende hanno non poco turbata a danno de’ buoni e fedeli Sudditi Nostri, abbiamo riconosciuto essere necessario di porre in esecuzione tutti que’ mezzi, che possono essere confacenti per iscoprire, e sottoporre al rigor delle Leggi i malviventi, e male intenzionati, e prevenire le perniciose conseguenze, che da soggetti di simil sorta, infesti sempre alla Società derivare ne possono a danno de’ privati, e dello Stato. Abbiamo già a questo fine date le Nostre disposizioni per istabilire una Direzione generale di buon Governo specialmente incaricata di vegliare alla conservazione della pubblica, e privata sicurezza e andare all’incontro di que’ disordini, che potrebbero intorbidarla. E per avere con una forza ben distribuita i mezzi più pronti e adattati onde pervenire allo scopo, abbiamo pure ordinata la formazione, che si sta compiendo, di un Corpo di Militari distinti col nome di Corpo de’ Carabinieri Reali, e colle speciali prerogative, attribuzioni, ed incumbenze analoghe al fine che Ci siamo proposti per sempre più contribuire alla maggior felicità dello Stato, che non può andare disgiunta dalla protezione, e difesa de’ buoni e fedeli Sudditi Nostri, e dalla punizione de’ rei».

Negli articoli si fissavano alcuni punti destinati a definire alcuni aspetti specifici. Nell’articolo 6 si stabiliva che le deposizioni dei carabinieri avrebbero avuto la stessa forza di quelle dei testimoni; all’articolo 11 che i carabinieri non potessero essere distolti dalle autorità civili o militari dall’esercizio delle loro funzioni (salvo circostanze di urgente necessità, nel qual caso si sarebbe dovuta inviare al Comandante del posto una motivata richiesta scritta, cui lo stesso Comandante avrebbe dovuto aderire); al 16 che il Corpo dei Carabinieri Reali sarebbe stato considerato nell’armata il primo fra gli altri, dopo le Guardie del Corpo.

Soprattutto quest’ultimo punto offriva una chiara definizione dei Carabinieri come corpo di élite. La storica Elena Papadia – a conferma di questo aspetto – ricorda come «i criteri di reclutamento prevedevano un accesso quasi esclusivo a chi avesse prestato servizio per quattro anni in altri corpi; la selezione avveniva comunque solo tra coloro che superassero il metro e settantacinque di statura, e che sapessero leggere e scrivere: per l’epoca, si trattava di requisiti molto severi. La paga, del resto, era proporzionata alla rigidità dei criteri di accesso: cinquecento lire per un carabiniere a piedi e mille per uno a cavallo costituivano un buon incentivo per l’arruolamento volontario. Ma anche l’eleganza della divisa poteva contribuire ad avvolgere il nuovo corpo militare in un alone di prestigio, e così nello stesso 1814 il capitano Camillo Beccaria propose al re che “i gendarmi facciano uso al colletto degli alamari d’argento: questa distinzione avrebbe invitato molta gioventù civile a passare nel Corpo e nulla costerebbe a Sua Maestà”». L’organico iniziale fu di 27 ufficiali, 776 sottufficiali e truppa (detta allora “bassa forza”). Tra gli ufficiali si contavano un colonnello, un aiutante maggiore, quattro capitani, dieci luogotenenti (gli attuali tenenti), dieci sottotenenti e un quartiermastro, che aveva compiti di natura logistico-amministrativa quali, tra gli altri, l’organizzazione della caserma. I sottufficiali erano 4 marescialli a piedi e 13 a cavallo, 51 brigadieri a piedi e 69 a cavallo. La truppa era formata da 277 carabinieri a piedi e 367 a cavallo. I carabinieri a cavallo erano in numero maggiore per garantire al Corpo una migliore mobilità nel territorio, una presenza capillare e un intervento immediato in caso di bisogno.

L’AFFIDABILITÀ. Vittorio Emanuele I volle ai vertici del Corpo dei Carabinieri Reali uomini di grande preparazione e di assoluta fedeltà. «Considerò che l’onore di un uomo d’armi non era da valutare soltanto in termini di trascorsi militari», racconta il generale C.A. Arnaldo Ferrara, «ma dalla dedizione con cui era stato assolto il proprio dovere e dalla coerenza osservata nel rispettare le leggi della disciplina al di sopra di ogni fazione e dall’impegno profuso nel difendere lo Stato al quale aveva giurato fedeltà. Così, alcuni casati di assoluto affidamento della nobiltà piemontese emersero nella valutazione di Vittorio Emanuele I, in quanto legati da antica tradizione alla monarchia sabauda: Thaon di Revel, Des Geneys, Provana di Bussolino, Rivarossa, Beccaria, Bernardi, Cottalorda, Cacherano di Bricherasio, che avevano espresso ufficiali di altissimo livello, provati da lunghi anni di servizio alle dipendenze del Re o delle Potenze europee, taluni nei reggimenti di terra, altri nelle unità di Marina o nelle Guardie d’Onore, altri ancora, anziani ufficiali piemontesi, fedeli all’ordinamento monarchico, che non avevano più ripreso il servizio dopo la caduta della monarchia». L’affidabilità, innanzitutto. La selezione (anche dei sottufficiali e della truppa) fu, di conseguenza, rigorosissima. Il re dispose che fossero cercati «militari per buona condotta e saviezza distinti». Cioè uomini che conoscessero l’autodisciplina, il rispetto dei valori, la responsabilità personale, il senso dell’onore. Questi rigidi criteri di scelta produssero un preciso risultato (come sostiene Gianni Oliva): «I Carabinieri Reali diventano i garanti del cuore stesso dello Stato, insieme difesa e sostegno dell’ordine restaurato. Poco più di 700 nell’agosto 1814, al comando del generale Giuseppe Thaon di Revel di Sant’Andrea, i Carabinieri Reali diventano oltre 2.000 nel 1816, distribuiti sul territorio attraverso un’articolata struttura di compagnie, luogotenenze e stazioni. Sono soldati scelti, reclutati su base volontaria fra coloro che sanno leggere e scrivere, di provata moralità e di ancor più provata affidabilità politica». Nel 1816, un regolamento ne precisa ulteriormente le incombenze: ispezioni quotidiane nelle campagne e nei centri abitati, sorveglianza del vagabondaggio, perquisizioni nelle osterie e nelle locande, scioglimento di adunate sediziose, compiti di polizia militare, scorta di funzionari statali in missione, vigilanza sulle organizzazioni sovversive e sui depositi di armi e, soprattutto, raccolta continua di informazioni che permettano alle autorità governative di prevenire qualsiasi movimento di opposizione.

Va ricordato che erano tempi difficili. Dopo la Rivoluzione francese tutti i precedenti equilibri erano saltati. Il malcontento (diffuso in tutta Europa) si era trasformato in aperta ribellione contro le autorità costituite. Tutti gli Stati avvertirono come primario il bisogno di difendersi contro i possibili nemici interni, oltre che da quelli esterni.

Negli anni Trenta del secolo scorso, uno storico del Risorgimento, Romolo Quazza, fotografò il ruolo che il Carabiniere fu chiamato a svolgere: «Primo soldato dell’armata, tutore della sicurezza e della legalità, il carabiniere reale deve essere per tutti un modello. Nell’uniforme, nelle armi, nella cavalcatura, nel portamento, egli deve esprimere distinzione e superiorità, essere a un tempo la forza dell’ordine che incute timore e il militare scelto del re che suscita ammirazione. In un’epoca in cui il consenso si raccoglie attorno ai simboli piuttosto che ai discorsi scritti o parlati, il carabiniere viene a costituire un’immagine di organizzazione, di affidabilità e di potere immediatamente percepibile a tutti. La sua eleganza, il suo atteggiamento dignitoso e severo, la sua autorità sono il ritratto stesso della monarchia, il messaggio che esce dalle stanze barocche di Palazzo Reale e si diffonde nelle strade della città, nelle campagne, nei villaggi più remoti, dove il re non andrà mai di persona. Difensore o repressore, garante o nemico, il carabiniere è comunque simbolo dell’ordine sabaudo e della sua solidità, percepito come superiore, rigido, implacabile: è il soldato da ammirare nell’eleganza della sua divisa, il custode della giustizia cui rivolgersi per riparare un torto, il gendarme da temere per la sua severità, modellato volta a volta dalla coscienza popolare secondo le esigenze del momento, ma sempre colto come braccio armato della monarchia e del potere».

L’ORGANIZZAZIONE. Il 2 agosto 1814 il conte Thaon di Revel fu nominato Comandante del Corpo dei Carabinieri Reali e Presidente Capo del Buon Governo del Regno di Sardegna. Diciotto giorni più tardi, considerato il peso dei due incarichi, il sovrano affidò al conte Luigi Ignazio Provana di Bassolino il compito di organizzare la nuova istituzione. Provana vantava un eccellente stato di servizio militare, e si dimostrò rapido ed efficiente. Concluse la prima fase della strutturazione del Corpo in poco più di due mesi. Per soddisfare le esigenze di tutela dell’ordine pubblico e di lotta alla criminalità, furono costituite nel volgere di poche settimane le Stazioni, che – ancora oggi, dopo quasi due secoli – rappresentano il nucleo territoriale al quale la cittadinanza può fare riferimento costante per chiedere l’intervento dei Carabinieri. Quel nucleo che ha esaltato la contiguità fra l’Arma e la popolazione. E che ha contribuito a stringere un legame molto solido fra gli uomini della Benemerita e la cittadinanza.

Fonte: carabinieri.it