di Gianni De Iuliis
Ṣaddām Ḥusayn ʿAbd al-Majīd al-Tikrītī (28 aprile 1937 –30 dicembre 2006) è stato un politico e militare iracheno, leader assoluto dell’Iraq in un regime considerato dittatoriale dal 1979 al 2003, quando fu destituito durante la seconda guerra del Golfo in seguito all’invasione anglo-americana. Fu giustiziato il 30 dicembre 2006, a seguito di una sentenza di condanna a morte pronunziata da un tribunale speciale iracheno e confermata in appello per crimini contro l’umanità. La sua esecuzione ha destato scalpore e polemiche in tutto il mondo, anche per via dello scherno che i suoi carnefici gli riservarono in punto di morte.
In seguito alla sua deposizione in Iraq vi fu un marcato aumento delle violenze settarie che ben presto si trasformò in una guerra civile, la quale continuò a più riprese fino a culminare nel 2014 con la formazione dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS).
Nonostante l’emergere di una violenta e sanguinosa insurrezione condotta dalla resistenza irachena sunnita con azioni di guerriglia (ovvero, secondo un altro punto di vista, l’insorgere di gruppi terroristici dediti ad azioni terroristiche), tra cui spiccò per violenza l’organizzazione guidata da Abū Musʿab al-Zarqāwī, leader di al-Qaida in Iraq, l’ex presidente iracheno fu catturato il 13 dicembre 2003 da soldati statunitensi in un villaggio nelle vicinanze di Tikrīt, in un piccolo buco di ragno scavato sotto terra, durante l’Operazione Alba Rossa.
Fu sottoposto a processo dal 19 ottobre 2005 presso un tribunale speciale iracheno assieme ad altri sette imputati (tutti ex gerarchi del suo regime, tra i quali era presente anche il suo fratellastro), accusato di crimini contro l’umanità in relazione alla strage di Dujail del 1982, in cui morirono 148 sciiti. Il 5 novembre 2006 fu condannato a morte per impiccagione, ignorando la sua richiesta di essere fucilato. Il 26 dicembre 2006 la condanna fu confermata dalla Corte d’appello.
Le reazioni internazionali alla sentenza furono fortemente contrastanti. Stati Uniti e Gran Bretagna manifestarono la loro soddisfazione, mentre l’Unione europea, a ranghi compatti, colse l’occasione per ribadire il suo secco no alla pena di morte, spalleggiata da Amnesty International e da Human Rights Watch.