La Baronessa di Carini – vero e proprio eponimo dei film tratti dalla letteratura popolare siciliana del XVI secolo – tra cinema e televisione
di Franco La Magna
Divenuto consapevolmente, nel breve volgere di pochi anni, racconto per immagini e postosi spasmodicamente alla ricerca di soggetti, il cinema delle origini (che nella letteratura individua il suo “naturale” alleato) non impiega molto a scovare e impadronirsi di uno dei più conosciuti e accurati poemetti popolari anonimi, scritto nel XVI secolo in dialetto siciliano e raccolto dal “cunto” d’un cantastorie. Pubblicato per la prima volta nel 1870 dal demoetnoantropologo isolano Giuseppe Salomone Marino, la tenebrosa vicenda della Baronessa di Carini vanta addirittura circa 400 controverse varianti che Salomone Marino – nel corso dei suoi appassionati studi – riesce faticosamente a rinvenire e di cui egli stesso poi, tra il 1870 e il 1914, ne scrive ben tre versioni.
Tuttora oscuro (c’è chi addirittura lo colloca nelle leggende) l’amaro e straziante caso della povera baronessa di Carini, narra di donna Laura Lanza di Trabia – andata sposa senza amore a soli 14 anni nel 1543 al barone Vincenzo La Grua Talamanca – che delusa dalla vita matrimoniale e divenuta amante del cugino Ludovico Vernagallo – nel dicembre del 1563 viene scoperta e uccisa insieme all’amante (complice il marito) dal potente padre don Cesare Lanza, barone di Trabia e conte di Mussomeli (già perdonato da Carlo V per un precedente omicidio). Dalla cruenta e fosca storia dell’amore proibito tra l’infelice Laura e Ludovico, la Cines ne ricava una breve (ma allora la durata si limitava intorno a 15’) e notevolmente modificata versione cinematografica, “La Baronessa di Carini” (1910) di cui resta ignota la regia. Il film è un vero e proprio eponimo (a meno di miracolosi ritrovamenti) tratto dalla letteratura siciliana, da allora prodiga di soggetti per la spregiudicata e straripante settima arte, subito accusata di tradire la fonte letteraria, salvo poi letterati e drammaturghi (vergognosi di tale inconfessabile relazione adulterina, ma subito pronti a fornicare quando se ne presenti l’occasione) a ripiegare su più accomodanti posizioni con clamorose sconfessioni dettate da guadagni insperati e ragguardevoli (caso Verga docet).
Vicenda d’amore e morte, di eros e thanatos – sempiterno binomio atto a blandire la ghiotta curiosità dei primi pubblici cinematografici – “La Baronessa di Carini” prodotta dunque dalla romana Cines (allora la più importante casa cinematografica italiana) viene presentato al pubblico il 24 ottobre 1910, ma con significative varianti rispetto all’originale. Così la sinossi ricavata dal Catalogo della stessa Cines: “Caterina, figlia del barone di Carini, rifiuta l’amore di uno scudiero di suo padre perché ama segretamente un gentiluomo, acerrimo nemico del barone. Lo scudiero, geloso e vendicativo, svela ogni cosa al barone di Carini, il quale, accecato dall’ira, fa sorprendere e uccidere i due giovani amanti”. L’ellissi narrativa, necessaria per comprimere la vicenda in pochi minuti (la lunghezza è di appena 244 m.), elimina drasticamente sia il matrimonio che il lungo arco di vita coniugale della donna (venti anni), salvando solo lo spunto iniziale.
Storicamente i fatti ebbero uno svolgimento tuttora non del tutto chiarito. Alla fosca e cruenta vicenda di donna Laura Lanza seguì, poi, una conclusione sconcertante, generalmente taciuta. Compiuto l’omicidio, dopo un primo bando e sequestro di beni adottato dal viceré, don Cesare Lanza si rivolse al re Filippo II spiegando d’aver colto i due amanti in flagrante adulterio chiedendo perdono, ottenendolo con la restituzione di tutti i beni. Anche il barone La Grua (subito convolato a nuove nozze) fu assolto con formula piena. “L’aristocrazia del tempo – scrive il Dentici – era al di sopra delle leggi e della giustizia”. Sull’omicidio questa la chiusa del memoriale di discolpa di Lanza indirizzato al re: “…trovaro li ditti baronissa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati”.
Eccettuato uno stravagante accostamento al film “Fenesta ca lucive…” (1926) di Mario Volpe e Armando Fizzarotti – che secondo uno spericolato volantino pubblicitario del tempo (curiosamente errato anche sul blasone) si ispirerebbe “molto liberamente alla composizione musicale che ricorda l’idillio della Contessa di Carini…” – per lungo tempo, nonostante la straordinaria fortuna e diffusione popolare, non ripreso dal grande schermo (per quanto non è da escludere che altri film ne abbiano tratto ispirazione), il remoto fatto di sangue in anni più recenti ha trovato però nella televisione nuove, stravaganti, consacrazioni mediatiche. Una prima volta con “L’amaro caso della Baronessa di Carini” (1975) regia di Daniele Danza (ispirato alla ballata popolare siciliana) con Ugo Pagliai, Jeanet Angren, Adolfo Celi, Paolo Stoppa, Vittorio Mezzogiorno, Enrica Bonaccorti e il catanese Guido Leontini, andato in onda in prima serata in quattro puntate dal 23 novembre 1975, ambientato nella Sicilia del 1812 dove un giovane funzionario del regno viene inviato per un’indagine sul feudo del barone di Carini e dove vive una donna che sembra la reincarnazione delle baronessa, uccisa tre secoli prima. La storia si conclude con l’assassinio dei due sfortunati amanti.
Altra versione è un pasticciato remake, sempre ispirato alla vicenda originaria e allo sceneggiato diretto da Danza, “La Baronessa di Carini” (2007) di Umberto Marino, miniserie con Vittoria Puccini, Luca Argentero e i siciliani Enrico Lo Verso, Lucia Sardo e Lando Buzzanca, in onda il 14 e 15 ottobre 2007 su Rai Uno, anche questa ambientata nell’800 (1860) e trasformata in una bizzarra storia di reincarnazione pencolante tra Fogazzaro e il genere giallo-thriller, ma questa volta felicemente conclusa con la fuga dei due amanti attraverso il passaggio segreto segnato dall’impronta della mano insanguinata della sventurata Laura.