Uno sparo, gli agenti del Secret Service che arrivano e portano via il Presidente mentre parla con i giornalisti e vai con il plot in cinemascope.
“Excuse me?”, chiede Trump all’agente che gli si avvicina mentre è nella saletta per la conferenza stampa.
“Step outside,” intima l’agente.
“Oh,” commenta Trump che prende lesto l’uscita e viene condotto nello Studio Ovale.
C’è anche questo in America 2020, un fuori programma che eccede il cartellone ufficiale dello spettacolo, dunque poco dopo Trump torna dai giornalisti e… fa Trump: “Il mondo è un luogo spaventoso… ma le sembro impaurito?”.
Esaurito il paragrafo della pistolettata a Pennsylvania Avenue (la quarta in 26 anni, la prima con un presidente che risponde in diretta ai reporter), ci sono 80 giorni di campagna presidenziale e parecchie pedine non sono ancora andate a dama.
Joe Biden ha trascorso un altro fine settimana a ruminare pensieri sul nome per la vicepresidenza, Trump ha ripetuto per l’ennesima volta che il vaccino per il coronavirus ci sarà entro l’anno.
L’obiettivo del primo è smuovere i sondaggi che lo danno in frenata, il desiderio del secondo è di tirare fuori dal cilindro il coniglio della sorpresa d’ottobre per stendere il candidato dem in vantaggio.
La campagna di Biden in realtà non è irresistibile e il suo vantaggio è su livelli che non gli consentono di andare a letto come un angioletto. Come fa notare Michael McKenna su Real Clear Politics, Biden “il 5 marzo, era avanti di 5.5 punti. Il 5 maggio era ancora al 5.5%. Il 5 giugno è salito al 7.1%. Il 5 luglio era all’8.7%. In sintesi, il vantaggio di Biden si è mosso di circa 3 punti in uno spazio di 150 giorni, in una campagna che vede ancora 80 giorni alla fine”.
Nella media di Real Clear Politics sui “top battleground states”, gli Stati dove si gioca la presidenza, per Biden le cose sono ancora meno rassicuranti.
Il suo vantaggio medio negli Stati chiave (Wisconsin, North Carolina, Florida, Pennsylvania, Michigan, Arizona) è di soli 4.3 punti ed è in calo rispetto a una ripresa della curva della campagna di Trump. Guardate la media della Florida:
Ecco perché la scelta della vicepresidenza per Biden è un capitolo delicato, forse decisivo per la sua corsa. La scelta serve a riunire un partito diviso, a dare energia a un candidato che procede con una navigazione inerziale e non riscuote i favori dell’ala più progressista degli elettori. Biden deve scegliere una donna, deve cercarla tra le esponenti della Black America che per i dem è fondamentale (le pressioni del contesto storico sono enormi, i movimenti anti-razzisti di questi mesi hanno curvato lo spazio della politica americana e sarebbe la prima volta di una nomination alla vicepresidenza per una donna di colore), deve pesare bene il nome, le sue caratteristiche, i pro e i contro, anticipare le mosse di Trump e dei Repubblicani, perché la vicepresidente sarà anche un investimento per il futuro, una star nascente del Partito democratico e lui, Joe Biden, ha 77 anni, nel 2024 avrà 81 anni e non sarà candidato per un secondo mandato.
C’è un nome che ha le doti per calamitare l’attenzione degli elettori sulla campagna di Biden? Secondo l’Associated Press ci sono quattro candidate in gara: la senatrice della California Kamala Harris; l’ex capo della sicurezza nazionale Susan Rice; la deputata californiana Karen Bass e la senatrice dell’Illinois Tammy Duckworth. Sorprese? Sempre dietro l’angolo.
Quanto conta un vicepresidente nella corsa elettorale? Può essere decisivo: nel 1960 John Fitzgerald Kennedy conquistò la Casa Bianca grazie alla scelta di Lyndon Johnson che gli assicurò la vittoria in Texas e alcuni Stati del Sud. I destini della Casa Bianca si intrecciano con la storia. Nel 1944 Franklin Delano Roosevelt scelse Harry S. Truman pensando anche al suo stato di salute precario e questa decisione poi assicurò all’America in guerra la successione a un grande presidente con un altro grande presidente. Il 20 gennaio del 1945 Truman divenne vicepresidente, restò in carica solo 82 giorni, il 12 aprile del 1945 (il giorno della morte di FDR) diventò presidente degli Stati Uniti. Fu l’uomo dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki. Era aperta la ferita di Pearl Harbor. Truman, “The Man from Independence”, ebbe il peso più grande. Fu l’orrore e la fine dell’orrore, la resa del Giappone e il “The End” sul film tragico della Seconda guerra mondiale, il sipario nero che cala sul quadrante del Pacifico.
La storia dei vicepresidenti è più importante di quel che si immagini, può essere ininfluente nella vittoria (e sconfitta), ma poi finisce per dare il tocco che manca alla presidenza, buona o cattiva che sia. Cosa sarebbe stata la presidenza di George W. Bush senza la presenza di Dick Cheney? E quella di Ronald Reagan senza George H.W. Bush (il padre), un uomo esperto e equilibrato, forgiato negli anni della guerra, profondo conoscitore della politica estera (fu ambasciatore alle Nazioni Unite e in Cina), ex direttore della Cia?
La campagna elettorale americana è una lotta di potere, influenza, denaro, relazioni, dominio degli Stati. Gerald Ford nel 1974 fece la scelta di Nelson Aldrich Rockfeller, un pezzo da novanta (a trent’anni già lavorava nell’ufficio di Franklin Delano Roosevelt), famiglia ricca, potentissima, da sempre nella politica americana, anticomunista, sempre meglio averlo alleato in casa che nemico fuori dal Giardino delle Rose della Casa Bianca. Fu la scelta giusta. E Rockefeller nonostante la sua potenza di fuoco finanziaria non riuscì mai a arrivare alla presidenza.
Michael Beschloss sul Washington Post ricorda che una delle coppie più affiatate alla Casa Bianca fu quella del 1976 tra Jimmy Carter e Walter “Fritz” Mondale, ma questo non bastò a fermare la coppia Bush-Reagan nel 1980 (sconfitta di Carter, un raro caso di presidente uscente che non viene riconfermato) e Mondale fu un pessimo candidato alla presidenza nel 1984 dove i Democratici subirono una pesantissima sconfitta, sempre contro Reagan-Bush.
I vicepresidenti si vedono poco, ma prima o dopo contano sempre. Biden deve risolvere un problema oggi e (forse) anche domani. Se vince, diranno che sarà merito della vicepresidente che l’ha rivitalizzato e spinto al traguardo; se perde, ha perso lui e diranno che resuscitarlo era impossibile.
In questa partita a scacchi Trump si esibisce in un concerto heavy-metal. Gli ordini esecutivi sull’economia puntano a forzare la mano del Congresso, l’obiettivo finale della Casa Bianca è quello di riaprire il tavolo del negoziato con i Democratici, cosa che ieri è sembrata possibile, con le dichiarazioni di Steve Mnuchin (“ritengo che un compromesso sia possibile. Ci sono molte cose su cui siamo d’accordo”) che aprono di nuova la porta della trattativa, ma senza cedere al contro-piano dei Democratici, definito “assurdo” dal segretario al Tesoro. Mai dire mai: con Trump l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e il programma dei sussidi finora alle casse del Tesoro è costato 250 miliardi di dollari.
In attesa di fatti nuovi, Wall Street continua a correre, nonostante il coronavirus sia un’incognita per l’autunno e le tensioni nella guerra del container siano tutte sul tavolo. In agenda c’è un round sul commercio fissato il 15 agosto tra Stati Uniti e Cina per rivedere i primi sei mesi dell’accordo commerciale di Fase 1 (che non sta andando bene, Pechino è largamente inadempiente sugli acquisti energetici previsti dal piano); gli ordini esecutivi di Trump sono visti dal mercato come la volontà dell’amministrazione di proseguire con le misure di supporto e un preludio per una stretta di mano questa settimana tra dem e repubblicani nell’arena del Congresso; la Borsa di Tokyo ha messo a segno un +1.88% che è il miglior guadagno giornaliero della settimana. Lo scontro con la Cina è forte, pieno di pericoli, ma a quanto pare non abbastanza da impedire agli investitori di cavalcare la fiducia nel futuro.
L’Asia è il fronte da tenere d’occhio sul radar. La Borsa di Hong Kong presenta il caso più clamoroso di reazione degli investitori a una repressione di regime. Dopo l’arresto dell’editore Jimmy Lai, le azioni di Next Digital quotate nella Borsa di Hong Kong hanno fatto un balzo stratosferico (fino a +668%), è l’effetto di una campagna d’acquisto lanciata dagli attivisti pro-democrazia. La capitalizzazione del gruppo editoriale è passata da 238 milioni di dollari a 2.9 miliardi. Xi Jinping gioca duro, ordina il giro di vite, cerca di spegnere il dissenso a Hong Kong, ma la risposta dimostra quanto i movimenti dell’ex colonia britannica siano dotati di forza, consenso e creatività.
Il fronte dell’Asia per la campagna presidenziale americana è un terreno che non si può abbandonare, il “virus cinese” (come lo chiama Trump) è solo l’innesco di una serie di iniziative per contenere le azioni di Pechino, è in corso il classico “show of force” tra potenze. Gli Stati Uniti mettono al bando TikTok e WeChat, lanciano un piano per la sicurezza delle Reti che ha come bersaglio Pechino, sanzionano la governatrice di Hong Kong Carrie Lam e altri funzionari, la Cina risponde colpo su colpo, con l’arresto plateale di una figura di spicco che sostiene i movimenti pro-democrazia come Jimmy Lai, con sanzioni su esponenti di primo piano del Senato americano come Ted Cruz e Marco Rubio.
Xi Jinping è uscito rafforzato dalla pandemia, Trump cerca di limitarne l’azione che da settimane è in fase accelerata. Il prossimo obiettivo del regime cinese è Taiwan, un target dichiarato dal presidente cinese in ogni appuntamento che serve a ribadire la strategia geopolitica della Cina. Così gli Stati Uniti hanno inviato un loro esponente politico in visita ufficiale nell’isola, il ministro della Salute Alex Azar ha incontrato la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen. È la prima visita di una delegazione del governo americano dal 2014, quella di più alto profilo dal 1979, anno della rottura delle relazioni diplomatiche. Perché Trump invia il ministro della Salute? È sempre il “virus cinese” a battere il chiodo che serve a appendere il quadro. Taiwan non è stata invitata alla 73esima sessione dell’Assemblea mondiale della sanità, l’organo legislativo dell’Oms, c’è il veto della Cina. Basta e avanza per dipingere il quadro.
Durante il vertice il ministro degli Esteri Joseph Wu ha lanciato l’allarme: “La Cina continua a fare pressione su Taiwan perché accetti le sue condizioni politiche, condizioni che trasformerebbero Taiwan nella prossima Hong Kong”. Quello che gli Stati Uniti cercano di evitare ben sapendo che Taiwan è un passaggio delicato, può aprire la porta di un conflitto armato.
La mossa di Trump è un avviso a Xi Jinping, il quale a sua volta, in questo gioco di simbolismi e messaggi a distanza, ieri ha fatto decollare gli aerei da caccia J-11 e J-10, missione confermata dal Global Times che la commenta come una “forte risposta alla mossa degli Stati Uniti”, con un ulteriore avviso sull’avvio di “operazioni militari su scala ancora più ampia, come le esercitazioni missilistiche a est dell’isola di Taiwan e vicino a Guam”.
Siamo ai giochi di guerra. Speriamo in un finale da War Games, quando il supercomputer scopre la verità del conflitto termonucleare e si rivolge così a David: “Strano gioco. L’unica mossa vincente è non giocare. Che ne dice di una bella partita a scacchi?”.
Vedi: America2020: pistole a Washington, giochi di guerra a Taiwan
Fonte: estero agi