AGI – Trump tutti i giorni, il resto è contorno. Dacci oggi il nostro Trump quotidiano per i democratici è peggio di un’alluvione, una calamità, come i due uragani diretti sulla costa del Golfo e gli incendi in California. È la campagna presidenziale del 2020, i colpi bassi sono regolari, il clima è da “The Rumble in the Jungle” (stadio di Kinshasa, 30 ottobre 1974, Muhammad Ali contro George Foreman). E poi i repubblicani possono sempre dire che nella convention dei democratici Biden c’era tutti i giorni, in forma talmente auto celebrativa che “The Week” ha impaginato un happy end funereo: “Se Biden non riuscirà a spodestare Trump a novembre, il suo necrologio politico sarà già stato scritto dal suo stesso partito”. Memento.
Trump ha cominciato a cuocere il piatto che nell’immaginario americano di solito mette tutti d’accordo a tavola, ma nel suo caso la metà scuote la testa. “Al sangue”. E tutti si chiedono: dov’è la carne? (“Where’s the beef?”, è uno slogan del 1984 della catena di burger Wendy’s, tanto pop che la domanda è entrata nell’uso comune). Dov’è la carne? La convention repubblicana sarà un racconto opposto a quello democratico giocato sulle tenebre di un’America tutta dark, in declino inesorabile, pronta a risorgere sotto la luce rassicurante di Joe Biden. La battaglia dello storytelling politico. Il programma di Trump è elementare (Watson): “Dove Joe Biden vede l’oscurità americana, io vedo la grandezza americana”. Facile, niente ombra, solo luce, la sua e quella degli altri è naturalmente spenta.
“Where’s the beef?”. Ci sarà, la vedremo tra qualche ora e possiamo scommettere che sarà cotta “al sangue”. Il menù è stato anticipato ieri da Trump, un assaggio della sua strategia: la “svolta terapeutica” per il coronavirus è l’uso del plasma dei convalescenti. Gli Stati Uniti ci stanno lavorando da tempo – hanno tracciato i casi e chiesto la donazione, telefonando a casa dei convalescenti – e dalla Casa Bianca è arrivato l’annuncio: “La Food and drug administration (Fda) ha dato l’autorizzazione urgente all’uso del plasma dei guariti per curare i malati colpiti dal virus cinese”.
Non è la sorpresa d’ottobre, ma Trump prepara il terreno per ridurre il distacco e muove tutti i pezzi a sua disposizione. Le pedine, una a una, stanno andando tutte a dama. Quindi “si tratta di un annuncio storico” e naturalmente “è la cura più urgente che possiamo usare in questo momento”, dunque bisogna “donare il plasma” per contribuire a questa cura”. I dem guardano in diretta, pensano a come rispondere alla sortita, cercano l’errore, Trump non ha ancora dato i numeri, ma… eccoli: “I test hanno dimostrato che il 35 per cento guarisce completamente con il plasma convalescente”. Gli esperti intorno a lui confermano. L’incrocio della scienza e della politica, sempre pieno di conseguenze inattese. Per tutti.
D’altronde, i dem hanno puntato la loro campagna sul coronavirus, le morti, la risposta (sempre cattiva, secondo i dem) della Casa Bianca, durante la convention è apparso il video della figlia di una vittima del coronavirus che dichiarava il suo appoggio a Biden perché il padre era morto di coronavirus. Battaglia durissima. Prossimo passo di Trump? Secondo il Financial Times ci sarà un’accelerazione della sperimentazione del vaccino che stanno sviluppando AstraZeneca e l’Università di Oxford. Nessun commento dalla Casa Bianca finora. La corsa al vaccino è questa corsa al primato dove in palio c’è la guida della prima potenza mondiale, il prestigio e l’influenza globale in un futuro che bussa alla porta.
Che convention sarà quella repubblicana? Lo scopriremo tra qualche ora, l’Air Force One di Donald Trump arriverà a Charlotte alle 11.45 locali (le 17.45 ora italiana), comincia un altro capitolo del romanzo di America 2020. Quella dei dem dopo una partenza difficile (un’impresa per chiunque) è andata migliorando nella regia e nel format, Joe Biden ha centrato un buon discorso, forse il migliore della sua lunghissima carriera, Kamala Harris ha mostrato l’energia che mancava.
I repubblicani faranno un mix di virtuale e reale, avranno fatto tesoro (forse) degli errori di chi ci ha provato prima. Resta il punto chiave della sceneggiatura scodellata in video: basterà raccontare la fosca e sinistra storia del declino americano per vincere la corsa alla Casa Bianca? La domanda avrà una risposta il 3 novembre, sul radar si muovono tanti oggetti più o meno identificati, i sondaggi, l’andamento dell’epidemia, la curva dell’economia, il contesto storico, lo spirito dei tempi che alla fine ha sempre l’ultima parola.
Sismografo? È sempre Wall Street a dare i numeri che pesano: gli indici futures sono in verde, il petrolio in rialzo. I mercati europei sono partiti gli indici sopra il 2%. Più si vede all’orizzonte la cura del coronavirus, più la Borsa accelera. E più nella mente dei democratici s’affollano i pensieri sulla strategia elettorale e cosa cambiare. Problema numero uno, evitare che Biden parli troppo: ha detto che è pronto a ordinare un altro lockdown in caso di risalita del virus, non proprio una dichiarazione pop per la Corporate America.
Gli investitori credono nella ripresa, nella cura del coronavirus, nella forza della crescita americana. Saranno ancora valide oggi le parole di Winston Churchill? “Gli Stati Uniti sono come una gigantesca caldaia, una volta accesi non c’è limite alla potenza che possono generare”. Vedremo, una cosa è chiara, visibile in tutti i sondaggi, la corsa alla Casa Bianca si gioca sull’economia. Segnali forti e deboli. Apple ha toccato la capitalizzazione di 2 mila miliardi di dollari, l’indice S&P 500 ha realizzato il nuovo record di sempre. Gli indici delle azioni hi-tech volano, quelli americani guidano la corsa, ma attenzione: i titoli dei FAANG (Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) non rappresentano tutto il mercato e dunque un’analisi di scenario che punta sui risultati eccezionali dei titani tecnologici rischia di essere un abbaglio, l’oasi nel deserto. I “favolosi cinque” di Wall Street sono di un altro pianeta. Sul taccuino del cronista resta il fatto del momento: i mercati anticipano, si comportano come i predatori carnivori, sentono l’odore del sangue.
I dati del coronavirus indicano un rallentamento dell’epidemia, lo scenario è aperto, con due possibili entrate/uscite. In questo momento siamo nella fase in cui la ripresa è sostenuta dalle misure economiche del governo, l’effetto della riapertura dopo i lockdown negli Stati, Trump ieri con l’annuncio sull’uso del plasma e i rumors sulla sperimentazione del vaccino ha anticipato la fase “pre-vaccino”, una ripresa che nello scenario migliore dovrebbe essere molto forte e in costante accelerazione fino alla terza fase, quella in cui il vaccino, la cura, diventa realtà operativa. Questo quadro naturalmente potrebbe mutare in un’altra fase depressiva: la cura non arriva, i casi di coronavirus aumentano, la riapertura delle scuole fallisce. Grafico di un report di Kpmg del 19 agosto:
Come andrà a finire? Nessuno può dirlo oggi con certezza. Quel che sappiamo è che la Borsa sta comprando la ripresa, fa il prezzo della riapertura dell’economia e il 73% degli economisti intervistati in agosto dal Wall Street Journal prevede uno “swoosh”, il rumore di una freccia che corre nell’aria:
Uno, due e tre. Andrà così? Tutti cercano di vedere il domani nella sfera. Per questo si leggono le dichiarazioni dei banchieri centrali con grande attenzione, sono loro a manovrare la catapulta del denaro. L’agenda della settimana ha un appuntamento (27-28 agosto) sempre importante, in questa fase della storia lo è ancora di più: il tradizionale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole, Wyoming, organizzato dalla Federal Reserve di Kansas City.
L’incontro si tiene dal 1978, per la prima volta nella storia sarà virtuale, titolo: “Navigare nel prossimo decennio, implicazioni per la politica monetaria”. Nave, mappa e bussola. Viviamo tempi in cui l’impresa è da Magellano che solca il mare del Capo di Buona Speranza, il “capo delle tempeste”.
Il meeting di Jackson Hole ha spesso anticipato gli eventi del mercato, plasmato le decisioni politiche. Nei primi anni Ottanta vi fu un duro scontro tra l’economista premio Nobel James Tobin e Paul Volcker, allora presidente della Federal Reserve. Tobin il 15 agosto del 1982 pubblicò un articolo sul Washington Post intitolato “Stop Volcker from Killing the Economy”. Più chiaro di così.
Tobin sosteneva l’idea di una Federal Reserve meno autonoma (che non significa meno forte), una politica monetaria coordinata con il governo federale (tutti elementi che risuonano anche oggi con l’amministrazione Trump). Quanto è importante questo dibattito in apparenza puramente accademico? Più di quanto si immagini, come disse Martin Feldstein, presidente del National Bureau of Economic Research dal 1978 al 2008, e consigliere economico di Ronald Reagan: “Questa serie di incontri dà davvero forma al pensiero della politica. Alcuni parlano di un consenso di Washington; io a volte parlo del consenso di Jackson”.
Dopo Volcker, toccò nel 2005 alla politica monetaria di Alan Greenspan (presidente della Fed dal 1987 al 2006) una grigliata a Jackson Hole. E nel 2007, mentre si celebrava la cavalcata di Wall Street, fu sempre a Jackson Hole che si discusse un tema in apparenza fuori dall’agenda, una cosa marginale: “Housing, Housing Finance and Monetary Policy”. Poi scoppiò la bolla immobiliare dei mutui subprime e la faccenda prese la direzione del…crash.
Le parole più attese in questa edizione sono naturalmente quelle di Jerome H. Powell, presidente della Federal Reserve, uno che ha attirato i fulmini di Trump ma si è battuto bene durante la crisi. Finora Powell si è espresso con grande chiarezza, prudenza, realismo e verità. Una serie di suoi interventi nei mesi scorsi sono stati di grande importanza per sapere e per capire cosa sta succedendo nella crisi del coronavirus.
“Al sangue”. Finora Biden ha gestito la cottura di Trump lasciando al coronavirus il compito di bruciare ogni speranza del presidente, che sia il collasso economico a tirarlo giù dal trono. Scelta che per ora paga, Biden è in testa nella media nazionale e negli Stati chiave in vantaggio. Non al sicuro, non in una posizione di assoluto comfort perché lo scenario sul quale puntano i dem sembra in fase di mutazione, forse in maniera non così veloce da consentire a Trump l’aggancio e il sorpasso, ma il tema è sul tavolo degli strateghi democratici.
Gli stregoni dei sondaggi si sono fermati durante la convention dei dem, l’evento di Milwaukee ha bisogno di tempo per essere misurato, pesato e messo nero su bianco, i numeri arriveranno, un’ondata, nelle prossime ore. Di solito i candidati dopo le convention ricevono una spinta positiva ed è probabile che questo accada ancora.
Gli ascolti televisivi dei dem non sono stati brillanti, ma siamo in una terra incognita, prima volta della convention virtuale. Il vantaggio di Biden nella media di Real Clear Politics è sempre quello (+7,6%), il problema è che Biden il 22 giugno scorso era a quota +9,8% e la sua regata ha bisogno di vento per arrivare fino in fondo e vincere. I dem sperano che soffi forte grazie alla scelta di Kamala Harris. Anche questo sarà visibile tra qualche giorno.
“Al sangue”. Kellyanne Conway ha anticipato il menù della convention repubblicana: “Vogliamo sicuramente migliorare l’umore cupo e aspro di questa settimana della convention democratica, abbiamo bisogno di essere sollevati. Abbiamo bisogno di sentire più ottimismo e speranza”. Si gioca sui significati opposti: luce e tenebre, disastro e ottimismo. America in crisi, America grande, “Buy American” e “America First”. Problema sull’agenda della Casa Bianca: Trump nel momento chiave della campagna perde il contributo di questa donna energica e intelligente, leale e combattiva (fin troppo, per gli avversari), Kellyanne Conway.
“Ben cotta”. A questo punto era arrivata la storia familiare di Kellyanne Conway dopo 4 anni di Casa Bianca con The Donald. Lei lascia e la notizia è importante perché grande è stato il suo ruolo nella vittoria di Trump nel 2016, negli equilibri dell’amministrazione, nel vai e vieni delle porte girevoli della Casa Bianca, nella durissima battaglia tra il presidente e il sistema del mainstream media che è in gran parte elegante, colto, compassionevole e naturalmente democratico.
“Less Drama, More Mama”. Chiosa con un tocco che è un buon titolo di giornale Kellyanne Conway: lascerà la Casa Bianca alla fine del mese. Fu lei (e non Steve Bannon) la campaign manager del voto del 2016 che consegnò a Trump la vittoria. “Less Drama, More Mama”, scrive Conway nella dichiarazione d’addio. Prima i figli, Kellyanne lascia. Non ci credono in molti – una trama classica a Washington DC – i patti rotti in politica non si sposano (o divorziano) quasi mai con i piatti rotti. Ma gli elementi ci sono tutti. C’è una figlia ribelle – i giovani lo sono sempre, per loro e nostra fortuna – che twitta contro la madre di averle niente meno che “rovinato la vita”. Colpo di cannone di Claudia Conway via twitter: “Il lavoro di mia madre mi ha rovinato la vita, tanto per cominciare. È straziante che lei continui a percorrere quella strada dopo anni passati a guardare i suoi figli soffrire. Egoista. È tutta una questione di soldi e di fama, signore e signori”. E Kellyanne non sta a guardare. Bye, Donald.
La politica è una grande passione che fa soffiare il “Vento di passioni” (celluloide che pulsa, regia di Edward Zwick, premio Oscar per la fotografia nel 1994). Dunque tirava un’ariaccia a casa, così la coppia ha tirato i remi in barca. Con il marito, George Conway, hanno litigato spesso (forse troppo) su Trump – lei lo consiglia, lui si oppone, lei lo sostiene, lui vuol farlo cadere, lei gli ha regalato lo scettro, lui gli donerebbe una squillante sconfitta – ma a un certo punto i due hanno deciso di fermare la guerra dei Roses all’ombra di The Donald: ci sono i figli, c’è la pandemia, sarà un anno scolastico difficile, con le lezioni tra il virtuale e il reale. Questa è la versione ufficiale, non abbiamo altri elementi per scrivere il contrario, e quello che è visibile è doloroso per qualsiasi famiglia.
Le dichiarazioni di Kellyanne sono di ringraziamento per il presidente e orgoglio per il lavoro svolto alla Casa Bianca. Così i coniugi Conway fanno la doppia mossa: George molla il Lincoln Project, il gruppo conservatore che si oppone a Trump, prende “una pausa da Twitter” mentre Kellyanne esce dalla villa al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Addio? Forse è solo un arrivederci per tutti, ma per ora è la fine della partita a risiko. Scelta di coppia: “Non siamo d’accordo su molte cose – spiega Kellyanne Conway nella sua dichiarazione – ma siamo uniti su ciò che conta di più: i bambini. I nostri quattro figli sono adolescenti, iniziano un nuovo anno accademico, alle medie e al liceo, a distanza per almeno qualche mese. Come milioni di genitori in tutto il Paese sanno, i bambini “che vanno a scuola da casa” richiedono un livello di attenzione e di vigilanza così inusuale come in questi tempi. Questa è la mia scelta e la mia voce. Col tempo annuncerò i progetti futuri. Per ora, e per i miei amati figli, sarà meno dramma e più mamma”. Lacrime per tutti. Sulla scacchiera di Trump è caduto il pezzo più pregiato.
L’ha detto anche Kamala Harris: “Mia mamma è la persona più importante della mia vita”. La mamma è sempre la mamma. Vale anche per i repubblicani.
Vedi: America2020: la corsa di Wall Street e la cottura di Trump
Fonte: estero agi