Il terzo giorno, nella “terra degli eroi”, Mike Pence ha tracciato la rotta della volata dei repubblicani: la ripresa dell’America dei produttori, la legge e l’ordine nel paese, l’esercito più potente del mondo. La convention s’avvia al gran finale e chiuso il sipario si entra nell’ultima curva e poi sul rettilineo dell’elezione presidenziale. Pence ieri sera ha detto e dato la linea: “La scelta non è tra repubblicani e democratici, ma se l’America sarà ancora l’America“.
La politica è cinica, le campagne elettorali in America sono all’ultimo sangue, tranello e giungla quotidiana. Se accusi Trump di aver ucciso gli americani con il coronavirus, lui non porge l’altra guancia, risponde e di solito non è molto piacevole. Dunque se Joe Biden ha battuto Bernie Sanders nel duello in tv, qualcosa non va, è un tipo “in una strana forma”, non è più “Sleepy Joe”, l’addormentato, e allora prima del dibattito “chiederemo il test antidroga per me e per Biden“. Dibattito psichedelico. Lo chiese anche nel 2016 per Hillary Clinton, battuta già collaudata del copione trumpiano. Gioca, irride, spiazza, scandalizza, graffia, offende, butta tizzoni ardenti, Trump che fa Trump al peggio di Trump. Tremendo.
La storia è una corsa a tappe dove le pietre miliari del percorso sono i dati economici e l’imprevedibile cronaca quotidiana: la Fed cambierà strategia sui tassi di interesse, il presidente Jay Powell ha annunciato che “la Fed consentirà un’inflazione moderatamente superiore al 2% per favorire il lavoro e gli svantaggiati”; le richieste dei sussidi di disoccupazione la scorsa settimana sono calate ancora, 98 mila unità in meno, restano poco sopra il milione, il dato è positivo, ma ai repubblicani serve un’accelerazione della ripresa, questo non basta all’aggancio e al sorpasso; l’uragano Laura è passato da categoria 4 a 2 quando ha toccato terra, resta ancora una minaccia per il vento e le inondazioni sulla Louisiana e il Texas, ma non come annunciava il suo ruggito quando era sul Golfo; il movimento anti-razzista, la protesta contro la polizia (l’ultimo caso, in Wisconsin, è quello di Jakob Blake, era armato con un coltello, ma 7 proiettili alle spalle sono un problema che attendono un’indagine, un processo e una sentenza), è una forza di cui non si conoscono gli esiti politici, ma le violenze nelle città americane sono diventate carburante per la campagna dei repubblicani, questo potrebbe diventare un problema inatteso per i democratici che guidano la corsa elettorale capitalizzando la crisi del coronavirus
I repubblicani ieri sera hanno dipinto gli avversari come tolleranti di fronte al disordine, il Wall Street Journal – a cui non sfuggono mai i colpi di score e le nuance del messaggio presidenziale – lo fa notare impaginando le parole di Pence: “La settimana scorsa, Joe Biden non ha detto una sola parola sulla violenza e il caos che inghiottono le città di questo Paese. Avremo legge e ordine nelle strade di questo paese per ogni americano di ogni razza, credo e colore”.
Pence parla da Fort McHenry, a Baltimora, Maryland, un bellissimo bastione pentagonale situato a Locust Point, un luogo simbolico della storia americana: 1814, guerra anglo-americana, Baltimora, la ribelle, viene dipinta dagli inglesi come un “rifugio di pirati”, il forte viene attaccato dalla Royal Navy, fu una resistenza eroica che ispirò il poeta dilettante Francis Scott Key a scrivere “The Star Spangled Banner”, quello che divenne l’inno degli Stati Uniti d’America. Qui Pence ha tratteggiato l’America trumpiana con le radici dei padri fondatori, l’eroismo dell’indipendenza, l’immaginario della Fortezza America, sempre presente nella letteratura e nel cinema. Speranza e paura, luci e tenebra.
Prima di fare un altro passo avanti verso lo scenario del voto, facciamo due passi indietro, entriamo nella storia americana passata e remota. Che cosa è la vicepresidenza degli Stati Uniti? Nel film “Vice” (2018) la biografia di Dick Cheney è trasfigurata tra l’errore e l’orrore, la pellicola nella regia e scrittura di Adam McKay è militante nell’eccesso e nell’ossesso (sempre contro e mai contrarian, naturalmente, a Hollywood i repubblicani non esistono), i personaggi sono disegnati a colpi di spray proprio per tenere il passo di una cavalcata al fulmicotone nelle stanze del potere, Washington DC, il Congresso e la Casa Bianca.
L’interpretazione di Christian Bale e Amy Adams è vibrante – è stupendo il dialogo a letto tra i coniugi Cheney, in puro stile shakespeariano, un tuono che ti catapulta da Hollywood al Globe Theatre. Arte, sia ringraziato il cielo per la sua esistenza. A un certo punto della storia, arriva quello che Cheney non si aspettava più e forse non lo interessava: la vicepresidenza nel ticket con George Bush jr. Telefonata, offerta sottintesa, clic. Dick chiude il telefono e va dalla moglie. Lynne lo fa secco con un colpo d’ascia: “Sappiamo che il vicepresidente non conta niente”. Per una volta Cheney non seguirà il consiglio di Lynne e correrà per la Casa Bianca con Bush jr. Sarà un potente vicepresidente, la prassi quotidiana della teoria giuridica “dell’esecutivo unitario”.
I presidenti sono gelosi del loro scettro, all’inizio dell’avventura del potere esecutivo americano. L’ascesa dalla posizione di vice a quella di presidente è difficile. Riuscì al primo colpo a John Adams (1796) che prese il posto di George Washington. Poi la storia si complica fino al quasi impossibile. Va in buca sempre in caso di morte. Adams e il suo vice Thomas Jefferson, erano in competizione, Adams governava con l’ombra di Jefferson alle spalle. Il quale salì regolarmente sul trono dopo Adams (1800). L’impresa riuscì anche a Martin Van Buren (1836), a John Tyler (1841, con la morte di William Henry Harrison per tifo, dopo soli 31 giorni di presidenza, la più breve della storia americana), a Andrew Johnson (1864), a Millard Fillmore (1874, dopo la scomparsa di Zachary Taylor), a Chester A. Arthur (1881, il suo presidente, James A. Garfield, fu assassinato), a Theodore Roosevelt (1900), a Calvin Coolidge (1923, dopo la morte del presidente Warren G. Harding), a Harry Truman (1945, dopo la scomparsa di Franklin Delano Roosevelt), a Lyndon Johnson (1963, con l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy) a Gerald Ford (1974, con le dimissioni di Richard Nixon per lo scandalo Watergate), a George H. W. Bush (1988, successore di Ronald Reagan giunto al second term). Dal 1789 a oggi, dopo 231 anni di storia, i vicepresidenti che sono diventati presidenti sono solo 13.
Franklin Delano Roosevelt affermava con un sorriso da nido di vespe: “Non faccio mai sapere alla mia mano destra cosa fa la mia sinistra”. I vicepresidenti si adeguano, qualche volta tramano, la maggior parte del tempo stanno alla finestra. Per decenni è andata così, fino a quando non si è tornati a un vai e vieni tra numero uno e numero due e i vicepresidenti hanno (ri)cominciato ad essere un soggetto politico e un prolungamento dell’azione del presidente. Cheney e Biden questo sono stati, Joe qualche giorno fa spiegando perché aveva scelto Kamala Harris ha ricordato come nella presidenza Obama fosse quello che “nella stanza aveva l’ultima parola”. Mike Pence appartiene a quest’ultima covata di vice operativi sul campo politico.
La vicepresidenza di Pence è stata silenziosa e più potente di quanto si pensi. Non come quella di Dick Cheney – e di segno e sostanza contrari rispetto a quella di Biden – ma con un’influenza silente ed efficace che è stata favorita dalla roboante figura di Trump. I titoli sono per The Donald, il va e vieni nell’amministrazione è stato di Mike più di quanto la carica donasse in partenza. Pochi hanno fatto caso alla carica che Pence associa a quella di vicepresidente, egli è anche il capo della task force sulla crisi del coronavirus, il ruolo più impegnativo dell’amministrazione è il suo, come ha fatto notare James Jay Carafano su The National Interest “è come se Franklin Delano Roosevelt avesse affidato lo sbarco in Normandia a Henry Wallace”. Non è successo ieri e in fondo nemmeno oggi. C’è la testa di Trump in gioco, non quella di Pence.
Ci sono molti modi per dipingere un politico, spesso si fatica a trovare la sequenza giusta, il taglio del carattere, il punto di vista e il registro linguistico per un soggetto. Dopo aver riempito un taccuino di appunti sulla terza giornata della convention repubblicana, chiuso il pc e posata la penna, alla fine la miglior descrizione di Mike Pence l’ha fatta lui, Mike Pence: “Sono un cristiano, un conservatore, un repubblicano. Esattamente in quest’ordine”. Dove il pilastro che mantiene la sequenza è nella chiosa finale, “in quest’ordine”.
Alla Casa Bianca giocano a Risiko in due, il disordinato e quello quadrato. Pence è quello quadrato. Lo è fin troppo, fino all’ottusità e alla bigotteria, dicono i suoi detrattori, ma i dem dovrebbero conoscere la lezione, l’America non è la somma di quanti progressismi ci sono nel paese, esiste una parola chiamata “tradizione”. In questa amministrazione la rappresenta Pence e lo fa con una sicurezza che dovrebbe far stare in campana Kamala Harris. Appuntamento fissato per il 7 ottobre a Salt Lake City, Università dello Utah, dibattito tra i due candidati alla vicepresidenza. Passaggio delicato dove si gioca un pezzo importante della corsa alla Casa Bianca.
La serata della convention ha offerto tutto quello che serve in politica: gioco da fondo campo di dritto e di rovescio, discesa sotto rete e punto. Sono gli US Open della politica. Kellyanne Conway ha ricordato a tutti che è uscita dalla Casa Bianca ma non dal Partito repubblicano e la sua zampata sul voto alla fine ci sarà perché “questo è il presidente che conosco ed è quello che ci vuole per i prossimi 4 anni”, e ricomparso in scena un soggetto smarrito dalla convention democratica, l’American dream, un paese composto dalle “hardworking families”, compare la parola americana, “engine”, che evoca il vapore, la turbina, la potenza, il motore della “mainstreet economy”, quella fatta dalle piccole e medie imprese che stanno riprendendo a marciare.
Il partito democratico compare in opposizione a questo racconto e giocando sulla frase che divenne l’icona dell’impresa di Apollo 13 “losing is not an option”, l’America rurale compare con la figura di un’imprenditrice agricola, camicia a scacchi e balle di fieno, l’evocazione di un mondo che non è inanimato, in quiete, bucolico, ma intento a trasformare i prodotti dell’America per gli americani.
È la grande metafora della trasformazione declinata in tutti i passaggi della convention. Si sposa con la parola esplorazione e protezione, difesa. Con Pence la prima è la nuova corsa allo spazio (il progetto Space Force è suo), la seconda è “l’aumento dei fondi per la spesa militare” e un continuo richiamo al sacrificio degli uomini e delle donne che lavorano nella Difesa. Su tutto questo scenario sventola la bandiera. Pence è un conservatore che non si fa scalfire dalle accuse di bigotteria che gli piovono dai dem, ha un’educazione religiosa, è un praticante (non a caso attacca Joe Biden dicendo che “è un cattolico solo di nome“) le cui mosse vanno guardate con attenzione, quello che fa rappresenta un pezzo dell’America che non compare sui giornali e nei media mainstream, ma poi vota esattamente come gli altri. Sorpresa.
E allora quando Pence dice di essere “cristiano, conservatore e repubblicano. Esattamente in quest’ordine”, i democratici lo devono prendere sul serio per evitare la sorpresa finale, quella del 3 novembre. Ancora lo spazio, lo sbarco sulla Luna (altro luogo del mito americano), facce di soldati, volti della guerra lontana dalla frontiera del Nuovo Mondo, la patria, Fort McHenry dall’alto, questo piccolo pentagono sulla costa del Maryland che ne evoca uno immenso a Washington DC, il Pentagono, il cuore della potenza americana.
“Four more years” dice un Pence che rivela passo sicuro, ironia, si diverte a fare a sportellate con i democratici (“hanno trascorso quattro giorni a attaccare l’America, parlando di una stagione di tenebre, dove Biden vede l’oscurità, noi vediamo la grandezza”), cita la mamma (tutti citano la mamma, dem e repubblicani) e rivela che “segue la politica da molto vicino e ogni tanto ho il sospetto che per lei nel ticket Trump-Pence non sia il suo favorito” e vai con “grazie mamma” e “I Love You”. C’è tutto il romanzo americano in queste giornate insonni, il taccuino del cronista si riempie di parole, tizzoni d’immagini, schegge di discorsi fiammeggianti, tra il “ritorno nello spazio degli astronauti americani”, i soldati feriti (applausi, tutti in piedi), il missile Hellfire che ha eliminato a Baghdad il generale iraniano Qassem Soleimani, il master and commander della Forza Quds, braccio militare delle operazioni internazionali, della guerra coperta (e alla luce del sole) dell’Iran, la pioggia di fuoco che ha polverizzato la fuga del macellaio dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, e dunque “non sareste al sicuro nell’America di Joe Biden”, cita il grande Bob Gates, primo segretario della Difesa di Obama, che diede di Biden questo sobrio giudizio: “Si è sbagliato su quasi tutte le principali questioni di politica estera e di sicurezza nazionale negli ultimi quattro decenni”. La guerra con i missili, la guerra con “il virus che viene dalla Cina” e “entro la fine dell’anno avremo il vaccino” e “riapriremo le scuole”. Pence la mette giù senza giri di parole, va dritto al punto: “Come pensate di rilanciare l’economia? Con un politico di carriera?”.
Sono argomenti che nei presunti salotti colti sono guardati con il sopracciglio alzato, ma sono esattamente quello che fa la differenza tra lo storytelling politico efficace e l’Harmony da salotto elegante. Uno studioso dell’Università di Austin, Texas, Roderick Hart, ha pubblicato un libro (“Trump and Us. What He Says and Why People Listen”, Cambridge University Press) sull’analisi del linguaggio di Trump, ne viene fuori il ritratto non di un raffinato narratore – The Donald non è un tessitore di trame epiche, picchia con il martello e non ha il cesello – ma di un uomo che ha fiuto per quello che pensa, sente, emoziona l’uomo della strada. Potrebbe non funzionare più nel 2020, gli elettori sono chiamati a scegliere tra la rassicurante assenza di Joe Biden e la presenza elefantiaca di Trump che scartavetra la realtà, come nell’aneddoto citato nel libro, quello della ruspa cinese e quella americana. Trump racconta: “Un mio amico compra macchinari da scavo, ma siccome la Cina ha svalutato la sua moneta, per la prima volta nella sua vita compra attrezzature da Komatsu”. Trump chiede all’amico: “Qual è la differenza?” E l’amico risponde che è tutta nel prezzo, anche se “Caterpillar sono migliori, ma anche questa è abbastanza buona”. Conclusione di Trump: “Caterpillar sta succedendo a tutti noi”. La ruspa, l’America trasformatrice, l’effetto wow del linguaggio nel bene e nel male.
Stanotte si chiude, avremo il penultimo Trump quotidiano (lo show andrà avanti tutti i giorni, fino al 3 novembre e anche dopo, molto dopo); l’attesa sciabolata della figlia Ivanka; il corrosivo Rudy Giuliani; il capogruppo dei senatori repubblicani, Mitch McConnell, il senatore Tom Cotton, veterano dell’esercito laureato ad Harvard. Finalmente è andata, sipario, nero, fischi e applausi… No, mancano due mesi di campagna presidenziale, non hanno toccato il fondo, stanno tutti scavando.
Vedi: America2020: Final day, è sempre il penultimo Trump quotidiano
Fonte: estero agi