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AMBIENTE E COSTI CHI PAGA?

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Di Lucrezia Reichlin

Una delle ragioni per cui, in Europa e in Italia, la determinazione a rispettare gli obbiettivi sulla riduzione delle emissioni di carbonio si sta indebolendo, è il fatto che la transizione energetica comporta dei grandi costi. Certo, se ci si rinunciasse, i costi sarebbero molto più elevati e l’esistenza umana sul pianeta sarebbe addirittura minacciata. Ma non parlare dei costi della transizione è un errore perché rende più difficile costruire il consenso necessario ad affrontarla. Per troppo tempo si è raccontato che il passaggio da un sistema energetico all’altro sarebbe stato un «win-win» non solo a transizione compiuta ma anche nel breve/medio periodo. Poiché risulta sempre più evidente che questo non corrisponde alla realtà e che inoltre i costi non sono equamente distribuiti, sta emergendo un negazionismo dettato dalla paura e purtroppo incoraggiato in modo cinico da qualche parte politica.
Le rivoluzioni energetiche che si sono susseguite nella storia — il passaggio al carbone e poi dal carbone agli idrocarburi — hanno comportato profonde trasformazioni del sistema produttivo con riallocazione di lavoro e capitale tra diversi settori e così sarà il passaggio all’energia rinnovabile. Inoltre, la nuova rivoluzione dovrà essere compiuta in un periodo molto più breve che nelle precedenti. È impensabile poterlo fare senza il consenso della società e senza lucidità e orizzonte lungo delle politiche pubbliche.
Infatti, anche se questo processo dovrà coinvolgere il settore privato, il pubblico ha un ruolo molto importante da svolgere nell’orientamento di investimento e consumo. L’europa ha finora puntato sulla tassa sul carbonio e su regole che limitano le emissioni o ne rendono obbligatoria la rendicontazione. A livello nazionale sono stati introdotti sussidi e incentivi, ma anche se si sono fatti progressi sull’installazione delle rinnovabili, siamo indietro rispetto agli obbiettivi, in ritardo nella produzione delle attrezzature necessarie alla transizione verde e allo stesso tempo impauriti dal costo della accelerazione del ritmo di marcia.
È chiaro che abbiamo bisogno di strumenti multipli. La tassa sulle emissioni corregge la cosiddetta esternalità di prezzo (cioè il fatto che il prezzo dell’energia tradizionale non tiene conto del costo dell’inquinamento e quindi induce a consumarne in eccesso), ma incide sui settori più fragili della società e quindi mina il consenso alle politiche verdi. In Francia, per esempio, ha provocato la rivolta dei «gilet gialli». Inoltre, la tassa sul carbonio non risolve il problema della necessità di costruire nuove infrastrutture per la energia alternativa. Se le macchine elettriche in circolazione sono poche non c’è convenienza a investire in colonne di ricarica. Ma, assenti queste ultime, nessuno compra macchine elettriche. Questa è la tipica situazione in cui si ha bisogno di investimenti pubblici. In generale, la trasformazione radicale del nostro sistema di trasporti o delle abitazioni, è impensabile senza di essi. Oltre a questo, si ha bisogno di una pianificazione territoriale per la installazione degli impianti che tenga conto delle ricadute negative per i territori e compensi chi ne sostiene i costi, cosa essenziale per vincere le resistenze che si sono verificate in Italia e non solo.
Ma a livello macroeconomico, un problema di cui si parla meno è che, nei prossimi dieci anni, la sostituzione da energia sporca a energia pulita nella produzione comporterà una diminuzione della produttività. Per un Paese come l’italia che ha già crescita della produttività bassa questo non è poco e ha implicazioni, tra l’altro, per i salari.
Molto di quello che si deve fare da qui al 2030 non richiede nuova tecnologia ma trasformazione del modo di produrre e costituisce quindi un costo per le imprese. Nel futuro, l’effetto negativo sulla produttività potrà essere compensato dal progresso tecnologico che renderà possibile una trasformazione più efficace della elettricità in calore, più efficiente lo stoccaggio e quindi permetterà una maggiore scala nella produzione e consumo dell’energia verde. Su questo si giocherà la corsa alla leadership tecnologica globale. Checché ne dica Trump, gli investimenti in ricerca e sviluppo sia del settore privato che di quello pubblico nell’energia verde hanno già superato di molto quelli negli idrocarburi. La corsa è cominciata da tempo, ha già ottenuto molti risultati e alleggerirà i costi della transizione nel futuro. Tuttavia, non ridurrà i costi da qui al 2030.
Per affrontarli, il mix delle politiche pubbliche deve includere sia tasse che sussidi e trasferimenti, investimenti in infrastrutture e in ricerca e sviluppo e regole. Al netto, l’insieme peserà sul bilancio pubblico e inevitabilmente comporterà più debito. Poiché molte delle cose da fare andrebbero realizzate a livello europeo, sarebbe auspicabile avere uno strumento sovra-nazionale, come sostenuto dal rapporto Draghi.
Da un punto di vista puramente economico, come ha scritto recentemente Olivier Blanchard, in questo caso nuovo debito si giustifica perché non costituisce un impegno ricorrente. Sarebbe una tantum per dare una forte spinta iniziale alla trasformazione del settore energetico che poi si possa auto-sostenere con meccanismi di mercato.
La sequenza nell’uso degli strumenti è anch’essa importante. Per evitare la reazione negativa di lavoratori, imprese e famiglie alla transizione è meglio introdurre sussidi prima, finanziati a debito e tasse dopo per ripagarlo. Questa è per esempio la strada intrapresa dal Giappone. Ma perché questo impegno a ripagare il debito sia credibile, è necessario avere una «governance» adeguata.
Governi instabili e con vita corta non hanno la credibilità per guidare questo processo e l’incertezza che questo crea disincentiva il contributo del settore privato. È allora forse arrivato il momento di pensare a qualcosa di più radicale, come per esempio l’istituzione di un organismo europeo che possa agire con una certa autonomia dalla politica pur essendo soggetto a valutazione e controllo dal Parlamento, un po’ sul modello di una banca centrale. Se il riscaldamento climatico costituisce una sfida esistenziale bisogna pensare non solo in termini di obbiettivi di riduzione delle emissioni, ma anche a come si fa per raggiungerli.

Fonte: Corriere