Lo sbarco sul pianeta: le missioni Viking
Mentre le sonde Mariner esploravano dall’alto il pianeta rosso svelando ogni volta nuovi particolari, alla Nasa si lavorava a una duplice ambiziosa missione: far arrivare sulla superficie di Marte due lander alla ricerca di organismi viventi.
La decisione era stata presa nel 1968, quindi prima dello stupefacente viaggio del Mariner 9, ma ben pochi alla Nasa erano davvero convinti che una missione volta specificatamente a trovare segni di attività biologica potesse servire a qualcosa. Soprattutto quando questa missione sarebbe stata particolarmente costosa.
Secondo i programmi, le due sonde cui diedero il nome Viking 1 e 2 sarebbero dovute partire nel 1973, in occasione di una favorevole posizione dei due pianeti; tuttavia, in seguito ai tagli del governo a causa della guerra nel Vietnam e alla poca affidabilità di alcuni strumenti scientifici non sufficientemente testati, le due sonde rimasero a terra. E con esse le speranze dei tecnici del Jpl, costretti, letteralmente, a restare a guardare le sonde russe che si stavano apprestando a invadere il pianeta in quell’estate del 1973.
I russi infatti decisero di vincere la battaglia dello spazio giocando sui grandi numeri.
Avevano già inviato con successo cinque missioni su Venere. Cinque, però, di una flotta di ben 19 sonde; per cui al loro attivo avevano anche quattordici missioni fallite su cui glissare abilmente.
Per Marte decisero di adottare, in piccolo, più o meno la stessa strategia, e tra il luglio e l’agosto del 1973 lanciarono ben quattro missioni: la Mars 4, 5, 6 e 7.
Ancora una volta Marte si rivelò una tappa ostile per la spedizione russa, e una dietro l’altra le sonde con la falce e il martello andarono incontro al fallimento.
Mars 4, che avrebbe dovuto orbitare intorno al pianeta, giunse sul pianeta il 4 febbraio 1974 ma fallì l’inserimento in orbita a causa di un malfunzionamento nel sistema di frenamento; Mars 5, arrivata il 12 febbraio, riuscì inviare dati sulla composizione dell’atmosfera e qualche immagine di una piccola porzione della superficie del pianeta per poi cessare ogni comunicazione dopo pochi giorni; Mars 6, invece, era stata predisposta per atterrare sul pianeta rosso ma, sebbene fosse riuscita a inviare informazioni durante la discesa per circa 224 secondi gran parte dei quali illeggibili, il contatto fu perduto all’accensione dei razzi frenanti; e infine Mars 7 il cui lander mancò clamorosamente l’obiettivo staccandosi troppo presto dalla parte orbitante che per conto non era riuscita a centrare l’orbita giusta.
Nonostante i grandi sforzi profusi, Marte restava per l’Urss un pianeta maledetto.
E di questo ne approfittarono subito gli Usa che per la successiva opposizione Terra-Marte del 1975 riuscirono ad approntare le due navi Viking.
Lo scopo delle missioni era di straordinaria importanza:
“La questione decisiva è la vita su Marte. Forse uno dei più importanti quesiti scientifici della nostra epoca”. (Gerald A. Soffen, responsabile missioni Viking).
Era per questo obiettivo che le Viking erano state approntate e per questa ricerca vennero lanciate rispettivamente il 20 agosto e il 9 settembre del 1975.
La Viking era composta da un modulo orbitante (orbiter) e un modulo di atterraggio (lander).
I due moduli erano fissati insieme a costituire un’unica navetta. Una volta giunta in orbita marziana, la sonda si sarebbe separata: mentre l’orbiter avrebbe iniziato a orbitare intorno al pianeta, il lander si sarebbe diretto verso la superficie del pianeta.
Questa operazione era comunque propedeutica a una fase iniziale condotta dal solo modulo orbiter con la quale si sarebbe analizzato attraverso riprese fotografiche il miglior sito di atterraggio per il lander.
Una volta in orbita marziana, infatti, le foto scattate dagli orbiter dei siti di atterraggio, che erano stati scelti in fase di programmazione con i dati inviati dal Mariner 9, avrebbero potuto mostrare eventuali caratteristiche morfologiche pericolose per l’atterraggio sfuggite in fase di progettazione.
In caso contrario, se tutto appariva come da programmi, si sarebbe dato avvio alla fase di distacco e discesa.
La grande flessibilità della programmazione delle sonde americane era la chiave di vittoria rispetto alle rigidamente programmate sonde sovietiche.
Una volta lanciata la sonda lander a circa sei chilometri dal suolo marziano si sarebbe aperto un paracadute mentre giunti a 1400 metri si sarebbero accesi tre razzi frenanti per rallentare ulteriormente una discesa altrimenti troppo veloce.
Secondo i programmi, il lander avrebbe dovuto prelevare campioni di suolo marziano con il suo braccio meccanico e analizzarli all’interno del laboratorio biologico di cui era munito stipato in un vano grande poco più di 30 cm.
Alimentate da un generatore nucleare da cinquanta watt, trecentomila transistor, duemila parti elettroniche, trentasette valvole in miniatura le Viking avrebbero dovuto dare risposta al grande quesito marziano.
I dati ricavati, e le immagini scattate dagli apparecchi fotografici, sarebbero poi stati inviati tramite un’antenna all’orbiter che a sua volta li avrebbe spediti a terra.
Oltre che fare da ponte il modulo orbitante avrebbe dovuto compiere misurazioni atmosferiche oltre a riprendere numerose immagini del pianeta. Tra queste foto, una ha avuto particolare fortuna ed è divenuta una sorta di simbolo legato ai misteri marziani: “The Face”, il volto di Marte.
Il 19 luglio del 1976, dopo un viaggio di quasi 800 milioni di chilometri, il Viking 1 entrò in orbita marziana e il giorno successivo il lander si posò sulla regione chiamata Chryse Planitia. Sedici giorni dopo il secondo centenario dell’Indipendenza americana, la Nasa potè festeggiare un grande risultato: la sonda, nelle sue due componenti, lavorava meravigliosamente inviando al centro di ascolto a terra una quantità di dati e di meravigliose immagini senza precedenti. Il Jpl poteva giustamente festeggiare un risultato storico.
Il successo fu replicato il 3 settembre con l’arrivo sul pianeta del Viking 2 che atterrò nella regione chiamata Utopia Planitia.
La ricerca delle vita su Marte era pronta per iniziare.
Mentre gli orbiter eseguivano misure sulla temperatura e l’atmosfera di Marte inviando a terra numerosissime spettacolari immagini del pianeta, i lander portarono a termine tre esperimenti biologici effettuati con i sei dispositivi per la ricerca di composti organici di cui erano dotati
Tre giorni dopo l’inizio degli esperimenti, Harold Klein, capo équipe dei biologi del Viking, annunciò in conferenza stampa che esistevano “almeno prove preliminari della presenza di un materiale superficiale molto attivo” e che certi risultati “sembrano indicare un’attività biologica”.
Uno dei più grandi ed entusiasti sostenitori del programma di ricerca di attività biologica su Marte fu senza alcun dubbio Carl Sagan.
Membro del team del Viking, fu strenuo difensore della possibilità che Marte presentasse forme di vita, addirittura in grado di lasciare “file di orme intorno al Viking, lasciate durante la notte…”, e per un certo periodo ebbe un alleato altrettanto entusiasta nel credere che la vita potesse svilupparsi ed evolversi in ambienti tanto ostili come quello marziano: Wolf Wishniac.
Microbiologo della University of Rochester e membro del team di biologi del Viking, Wishniac aveva elaborato fin dagli anni Cinquanta un test per la ricerca di microrganismi in ambienti estremi. Il test sarebbe dovuto partire a bordo del Viking 1, ma la “trappola di Wolf”, come venne ribattezzato il dispositivo, fu eliminata dalla missione per ridurre i costi del programma.
Sconfortato ma deciso a non mollare, il biologo testò il suo apparato in un’ambiente altrettanto ostile: l’Antartide.
Nel biennio 1971-1972 si recò nelle aride regioni australi per effettuare i suoi esperimenti.
Incoraggiato dai quei risultati tornò in Antartide l’anno successivo. Il 10 dicembre 1973 giunse in una zona presso la catena montuosa Asgard per ritirare le sue trappole. Fu l’ultima volta che fu visto vivo. Come ebbe modo di raccontare Carl Sagan in una delle sue puntate di Cosmos, il suo corpo venne ritrovato diciotto ore dopo alla base di un precipizio di ghiaccio.
Nonostante i grandi entusiasmi di Sagan, le esperienze maturate con le sonde Mariner nel divulgare notizie indussero alla cautela e presto, nonostante la scoperta di una inattesa ed enigmatica attività chimica sul suolo marziano, gli scienziati giunsero alla conclusione che non vi erano segni chiari ed evidenti della presenza di microrganismi in prossimità del punto di atterraggio delle sonde.
In una relazione ufficiale pubblicata dalla rivista Science nel 1976 si poteva leggere “Non è stata raggiunta alcuna conclusione in merito alla presenza di vita su Marte”.
L’11 aprile 1980 il Viking Lander 2 inviò gli ultimi dati mentre il Viking Lander terminò la sua ultima trasmissione due anni dopo, l’11 novembre 1982.
Nonostante non siano riuscite a rispondere al quesito per cui erano state create, le sonde Viking sono state uno dei più grandi successi della storia delle esplorazioni spaziali, e i dati da loro recuperati hanno contribuito enormemente alla conoscenza del Pianeta Rosso.
La prima fase del programma di esplorazione marziana terminò con le Viking.
Era ormai arrivato il tempo dei voli dello Shuttle e il Pianeta Rosso avrebbe dovuto aspettare due decenni prima di tornare in auge.
Fonte: torinoscienza.it/