di Alfonso Pascale
Nella campagna elettorale per le europee, i grandi temi strategici non sono ancora emersi. Un nuovo rapporto tra agricoltura e ambiente è la risposta che i cittadini si attendono dinanzi alle sfide che la crisi climatica, i conflitti bellici, le migrazioni e la rivoluzione tecnologica ci pongono.
Finora il dibattito pubblico sui temi ambientali ha riguardato prevalentemente un dilemma: riconoscere o no la crisi climatica e la sua origine antropica.
Questa battaglia culturale è stata vinta. Non ci sono più partiti negazionisti. Anche le destre estreme sono ambientaliste. E non c’è da sorprendersi: l’ambientalismo affonda le sue radici nel conservatorismo. Tra i filoni culturali che dettero origine al nazismo ci fu anche una componente ecologista.
La giornalista Francesca Santolini, nel suo ultimo lavoro “Ecofascisti. Estrema destra e ambiente” (Einaudi 2024), ha svolto un’indagine accurata sul nesso tra questione climatica e ascesa dei nazionalismi a livello mondiale.
Le destre nazionaliste condividono le preoccupazioni per la crisi climatica. Ma la imputano ai flussi migratori dal Sud del mondo. E così tornano a proporre, in forme nuove, il loro violento armamentario ideologico, fatto di complottismo, pregiudizio antiscientifico, xenofobia e razzismo.
In Italia, per fortuna, a destra non c’è solo il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, a cui si deve la levata di scudi contro la carne coltivata, la proposta di inserire in Costituzione la tutela dei prodotti simbolo dell’identità nazionale e l’adozione, nel linguaggio corrente, dell’espressione “sostituzione etnica” per descrivere i fenomeni migratori.
C’è anche l’Istituto Stato e Partecipazione, in cui operano studiosi come Gian Piero Joime e Sandro Righini. Nella ricerca “Tradizione ecologica. L’agroalimentare italiano e la sfida della sostenibilità” (Eclettica Edizioni 2021), essi affrontano il tema con un approccio innovativo che connette scienza, tecnologie, sviluppo locale e competizione globale.
Per questo la cultura liberaldemocratica deve esprimere una posizione sui temi ecologici che possa distinguersi nettamente sia dall’ambientalismo radicale e catastrofista, sia da quello sciovinista. Ma aperta al dialogo con altre culture politiche.
Come raggiungere gli obiettivi di neutralità carbonica entro il 2050?
Tenendo insieme sviluppo, salvaguardia della biodiversità e lotta alla povertà e alle disuguaglianze.
Le politiche ambientali non devono avere intenti punitivi. Ma essere capaci di accompagnare i cittadini e le imprese verso un cambiamento graduale delle abitudini.
Ci vuole un approccio scientifico e non ideologico. Un approccio che guardi all’ecologia come opportunità di crescita economica e di creazione di valore e non come imposizione dirigistica di divieti e balzelli burocratici.
Non si può lottare il cambiamento climatico senza crescita economica. Senza contenere i nazionalismi. Senza completare l’integrazione europea con una riforma dei trattati. Senza sconfiggere le autocrazie che aggrediscono le democrazie liberali. E senza costruire un nuovo ordine mondiale, che comporti anche una riforma degli organismi internazionali.
In agricoltura, la transizione ecologica passa per la riduzione dell’uso di mezzi chimici. È un percorso per gran parte già fatto dagli anni Novanta ad oggi. E bisogna continuare a farlo. Ma le percentuali di riduzione non possono essere dettate da visioni ideologiche. Devono, invece, avere una base scientifica. Bisogna proporre agli agricoltori alternative serie.
C’è, ad esempio, l’agricoltura conservativa che andrebbe valorizzata. Si semina direttamente su terreni non lavorati. Senza ridurre la produttività. E si conserva la fertilità del suolo coltivato.
Bisognerebbe poi, finalmente, aprire le porte alle biotecnologie.
Nella campagna pavese, due scienziati dell’Università di Milano, Vittoria Brambilla e Fabio Fornara, hanno avviato la prima sperimentazione in campo aperto di piantine di riso geneticamente editate TEA (Tecniche di evoluzione assistita) per resistere a parassiti come il brusone (una malattia fungina) senza usare fitofarmaci.
Il permesso scade a fine anno, ma prorogabile in attesa delle nuove regole europee.
Le vecchie regole riguardano i rilasci sperimentali di OGM vietati 20 anni fa. E continuano a valere anche per le piante che non contengono geni estranei.
La sicurezza alimentare non può fare a meno dell’intensificazione sostenibile.
La sicurezza alimentare non è solo “food safety”, cioè sicurezza igienico-sanitaria, ma anche (e soprattutto) “food security”, cioè sicurezza di avere cibo sufficiente.
E per avere cibo sufficiente si deve produrre di più, utilizzando meno fattori produttivi come acqua, fertilizzanti e fitofarmaci.
La politica ambientale e la sicurezza alimentare sono politiche strategiche, come la politica estera, la difesa, le migrazioni. Per queste politiche ci vuole l’approccio sovranazionale e non più intergovernativo.
Per ciascuna di queste materie va definito cosa deve rientrare nella sovranità unionale e cosa deve rimanere alla sovranità statale e le due sovranità devono agire autonomamente senza interferenze reciproche. Per la Pac bisognerebbe andare ad uno sdoppiamento tra quello che solo l’Ue deve fare e quello che solo lo Stato deve fare, in base al principio di sussidiarietà.
Mentre la sicurezza alimentare (nella sua duplice valenza di “food security” e “food safety”) dovrebbe essere una politica di competenza esclusiva unionale e, dunque, finanziata dal bilancio europeo, il sostegno al reddito dovrebbe essere una competenza esclusiva statale, finanziato dal bilancio degli Stati membri.
Non è accettabile che politiche considerate strategiche per l’Unione si risolvano in una ridistribuzione tra gli Stati membri. È paradossale che si emetta debito comune per 800 miliardi (Next Generation Eu) senza dedicare un euro a progetti comuni.
Per fare in modo che tutto funzioni bene, il bilancio unionale deve essere indipendente dagli Stati membri, cioè alimentato da risorse proprie mediante la fiscalità diretta e l’emissione di debito comune. E la programmazione delle politiche non deve durare sette anni, come è adesso, ma cinque, tra un’elezione e l’altra del Parlamento europeo.
In questo modo, il cittadino europeo potrà distinguere quale istituzione è responsabile di una determinata politica. E sarà invogliato a partecipare al voto per poter premiare o punire chi ha compiuto le scelte politiche che riguardano lui e la collettività.