AGI – Prima emergenza, aiutare chi vuole fuggire. Seconda, far sopravvivere chi deve restare. Terza, questa non più in Afghanistan ma nell’Europa che pur lascia trasparire l’insofferenza, portare in Occidente i profughi. Ma a monte di tutto, anche per le organizzazioni non governative cattoliche o cristianamente ispirate che agiscono nel paese asiatico, c’è l’interrogativo: restare?
Difficile anche per loro dare una risposta chiara rapida e netta: l’affezione dice che il rischio va corso, la ragione il contrario. Non si tratta, spiegano tutte, solo di un esercito di guerriglieri che arriva alla capitale dopo una lunga marcia tra i monti. Come, ad esempio, i tigrini che arrivarono ad Addis Abeba nel 1991.
I talebani, è risaputo ma non verrà mai ripetuto abbastanza, sono portatori dell’applicazione più rigida di quella che loro ritengono sia l’interpretazione corretta dell’Islam. Gli effetti perversi della loro teocrazia sono stati già sperimentati. Questa volta, si teme, non ci sarà scampo nemmeno per il più piccolo dei cacciatori di aquiloni.
Non stupisce, quindi, la decisione dei Gesuiti, certo non disabituati anche al martirio nelle terre asiatiche: hanno stabilito lo sgombero dopo 16 anni di presenza ininterrotta del loro Refugee Center. Più precisamente hanno sospeso a tempo indeterminato le attività e ora a Kabul ci sono due Padri indiani in attesa di essere rimpatriati, insieme a quattro suore missionarie della Carità.
Le suore di Madre Teresa di Calcutta, si è ricordato per anni, erano in città ancor prima dell’invasione sovietica del 1979, e nemmeno i talebani ebbero il coraggio di torcer loro un capello. Segno che stavolta c’è davvero di che temere.
Si guardi alla quantità, per prima cosa, se si vuole giudicare la presenza dei volontari catollici in Afganistan, ma poi si guardi anche alla qualità. Nel senso che i numeri sono piccoli, ma bastanti a incidere su diversi piani in una società per la quasi totalità musulmana, ma non certo impermeabile alle testimonianze concrete di solidarietà. Anche quelle portate nel nome del Dio di uno dei popoli del Libro.
E pazienza se in tutto l’Afghanistan esiste una sola chiesa cattolica consacrata e se questa si trova, sperabilmente inviolata, all’interno del comprensorio dell’ambasciata italiana.
Ancora più significativa della decisione dei gesuiti, però, quella analoga della Carita: anch’essa costretta ad annunciare la sospensione delle attività. Loro, i volontari della Caritas, sono arrivati vent’anni fa e si sono impegnati in programmi incentrati sugli aiuti di urgenza, riabilitazione e sviluppo, la costruzione di quattro scuole nella valle del Ghor, il ritorno di 483 famiglie di rifugiati nella valle del Panshir con la costruzione di 100 alloggi tradizionali per le famiglie più povere e assistenza alle persone disabili.
Adesso quel che resta di tanto impegno si riunisce a Quetta, nel vicino Pakistan, in una riunione dedicata ad un solo interrogativo: che fare nel futuro più immediato. Anche perché si calcola che proprio nella regione di Quetta, a ridosso del confine, si concentreranno come già in passato le masse dei profughi.
All’interno delle strutture della Caritas internationalis, in Afghanistan, operavano cinque realtà collegate: Caritas italiana, americana, irlandese, olandese e tedesca. Oltre ai progetti nel Panshir il finanziamento di una scuola per bambini sordomuti gestita dall’Anad (Associazione nazionale afghana sordomuti) alla periferia di Kabul: 110 bambini per 20 tra insegnanti e staff tecnico.
Caritas e Anad sono impegnate anche su scala nazionale nella formazione del personale docente. In più c’è la presenza in due distretti della provincia meridionale di Ghor, nel sud, tra le zone più inaccessibili dell’Afghanistan e teatro di gravi violazioni di diritti umani.
In un ambito simile si è mossa l’ “Associazione pro bambini d Kabul”, guidata da membri di circa 15 congregazioni religiose, femminili e maschili; ha come scopo l’assistenza ai bambini con handicap mentali. Chissà ora che succederà.
Se rilevare la presenza di religiosi cattolici è cosa relativamente facile (sono registrati, abbastanza ben rintracciabili), discorso diverso è quello delle Ong. Perché alla presenza di quelle di chiara ispirazione cattolica si aggiunge quella, molto cospicua, delle organizzazioni non governative laiche dove presenti sono volontari cattolici. E poi il confine tra carità e generosità esisterò pure, ma vallo a delineare.
Da dieci anni chirurghi si alternano nelle fatiscenti strutture sanitarie afgane grazie, ad esempio, a “Emergenza sorrisi”. “Learn”, che agisce o almeno agiva a Kandahar, non è certo cattolica, ma i rapporti con la presenza cattolica ci sono e sono forti, dato l’obiettivo comune che è quello di promuovere il ruolo della donna nella società afgana.
Simona Lanzoni ha usato i media vaticani per farsi sentire. Vicepresidente di Pangea onlus, associazione italiana che dal 2003 opera in Afghanistan in progetti a favore delle donne e che in quel Paese ha una trentina di collaboratici di varie età, racconta che le volontarie ora vivono nascoste, che difficilmente riescono a comunicare e che, nel frattempo, in pochissime ore, hanno distrutto la documentazione della loro attività degli ultimi anni. Nelle mani sbagliate potrebbe trasformarsi presto in una lista di proscrizione.
Arianna Briganti, vicepresidente della Nove Onlus, è in costante contatto con le colleghe che si trovano in Afghanistan. “La domanda fondamentale – spiega – è come far uscire di casa e far arrivare all’aeroporto le persone più vulnerabili, donne non sposate, bambine e ragazzine. Il sistema bancario è completamente bloccato, non si riescono a inviare soldi, neanche per consentire alle famiglie del nostro team di mangiare”. Ma questo è l’immediato, tutto il resto è un’incognita.
Padre Matteo Sanavio, rogazionista, presidente di “PBK – Pro Bambini di Kabul”, cerca di guardare un po’ più lontano, anche se è difficile. Difficile per via anche di un passato recente, con la pandemia di covid che aveva già bloccato moltissime attività, mentre ora bisogna gestire l’emergenza ma nel futuro trovare un canale di dialogo con il nuovo potere, perché la solidarietà non può fermarsi. Soprattutto in tempi di pandemia.
Anche perché va aprendosi un secondo fronte, quello dell’accoglienza nei paesi in cui si riverserà l’ondata dei fuggitivi. Molti governi nicchiano sordamente ostili; in pochi si sono detti pronti ad accogliere.
Ma i flussi migratori, quando fuggi dai talebani, non sono cosa che si fermi con un manipolo di guardie di frontiera.
Ci sarà da gestire, inglobare, aiutare, inserire. La Comunità di Sant’Egidio ha già chiesto, con il pieno sostegno delle chiese protestanti italiane, corridoi umanitari straordinari.
Il suo presidente, Marco Impagliazzo, ha avanzato tre proposte. La prima: “sospendere tutte le espulsioni già decretate dai Paesi europei”. La seconda: “superare il criterio di inammissibilità derivante dal principio del Paese terzo sicuro (la Turchia) applicato in Grecia per i cittadini afghani”.
Infatti “nei campi, nelle isole e nelle città greche ci sono oggi migliaia di afghani le cui domande, sulla base di questo principio, non potranno nemmeno essere presentate”. La terza: “riesaminare le domande rigettate, in considerazione della grave situazione afghana. Di fronte a un dramma come quello in corso, tante visioni e impostazioni ristrette devono cadere”. Anche se Kabul deve essere sgomberata, di lavoro da fare ce n’è sempre abbastanza.
Source: agi