AGI – L’ulteriore riduzione della presenza militare in Afghanistan e Iraq è l’ultimo capitolo di due operazioni militari che rappresentano, insieme, la più lunga e la più costosa campagna ad aver coinvolto le forze armate statunitensi nel dopoguerra. Sono infatti passati oltre 19 anni da quando, in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre, gli Usa attaccarono i talebani in Afghanistan accusandoli di fornire copertura ad Al Qaeda.
È l’inizio dell’operazione “Enduring Freedom”, costata finora agli Usa, secondo i dati del Pentagono, 587,7 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti i 197,3 miliardi di dollari dell’operazione “Freedom’s Sentinel”, che nel 2015 ne ha preso il posto (il costo complessivo dell’intera “guerra al terrore”, si legge sul sito della Difesa Usa, si avvicina agli 1,6 trilioni di dollari).
I risultati sul terreno sembrano arrivare in fretta. Dopo i primi attacchi aerei sulle postazioni talebane, le truppe occidentali e i loro alleati afghani conquistano una dopo l’altra le roccaforti del regime, che capitola il 9 dicembre 2001 con la resa di Kandahar e la fuga in motocicletta del loro leader, il Mullah Omar. Poco prima anche il capo di Al Qaeda, Osama bin Laden, aveva lasciato il suo nascondiglio sotterraneo di Tora Bora e un governo di transizione era stato installato.
È però solo l’inizio di un logorante e difficilissimo tentativo di stabilizzare una nazione dove i talebani continuano a controllare vaste aree e milizie fedeli ad Al Qaeda non cessano di seminare terrore. L’8 agosto 2003 inizia la missione della Nato, dopo che l’allora capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, aveva definito conclusa la fase dei “combattimenti su larga scala”.
Mentre il Paese tenta una faticosa ricostruzione, Bin Laden continua a farsi vivo con messaggi diffusi da località ignote e la violenza riesplode in tutto il suo furore nel 2006, anno segnato da centinaia di attentati suicidi e attacchi con esplosivi, nel complesso il quintuplo del 2005. La coalizione alleata inizia a mostrare crepe, con alcuni Stati che non nascondono più il desiderio di tirarsi fuori, mentre il consenso dei talebani prospera sul numero di vittime civili causato dalle operazioni occidentali.
Nel 2009 il nuovo presidente Usa, Barack Obama, non può che promettere un impegno sempre più risoluto in Afghanistan, annunciando l’invio di altri 17 mila soldati da aggiungere ai 37 mila già presenti. A fine anno i militari statunitensi dispiegati nella nazione sono diventati 68 mila. E Obama è costretto ad annunciare l’invio di altri 30 mila uomini, un’escalation resa necessaria da un’insorgenza talebana ormai fuori controllo.
Dopo il vertice Nato del novembre 2010 che aveva fissato per il 2014 la cessione del controllo del Paese al governo di Kabul, la svolta arriva nel maggio 2011 con l’uccisione di Bin Laden. Obama si impegna a ritirare le 30 mila truppe aggiuntive e a Washington il dibattito inizia a concentrarsi sulla fine della missione. La situazione è però così instabile che passeranno altri tre anni prima che il presidente Usa stili un calendario per il ritiro del grosso delle truppe. Ritiro che è in larga parte concluso quando alla Casa Bianca arriva Donald Trump.
Gli uomini sul campo sono ora scesi a 9 mila, accompagnati da un numero analogo di contractor. La ripresa degli attacchi suicidi spingono però il nuovo presidente a valutare un nuovo aumento degli effettivi, sulla base delle condizioni sul terreno. Nel gennaio 2018 i talebani lanciano un’offensiva che causa la morte di 115 persone nella capitale. Trump decide di concentrarsi sul prosciugamento delle risorse finanziarie delle milizie, distruggendo le coltivazioni di oppio e tagliando l’assistenza militare al Pakistan, accusato di sostenere gli estremisti. I talebani accettano così di sedersi al tavolo della pace. Le storiche trattative iniziano a Doha nel febbraio 2019.
Costata 730,6 miliardi di dollari, anche l’operazione Iraqi Freedom era sembrata aver raggiunto subito il suo obiettivo per poi rivelarsi un sanguinoso pantano dal quale gli Usa non sarebbero usciti per lungo tempo, sopportando costi umani decisamente più elevati (quasi 4.500 morti contro i circa 2.400 caduti in Afghanistan).
Accusando il dittatore Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa di cui poi non sarebbe stata trovata alcuna traccia, le truppe statunitensi invadono la nazione araba il 20 marzo 2003. Il regime collassa presto e il 1 maggio successivo George W. Bush dichiara la missione compiuta. E’ solo un’illusione. L’esercito di Baghdad viene sciolto e centinaia di migliaia di uomini con una formazione militare si ritrovano per strada.
Molti di loro alimenteranno la cruenta guerra tra fazioni che inizierà a straziare il Paese e parecchi ingrasseranno le file dell’estremismo sunnita, combattendo tra le file di Al Qaeda prima e dell’Isis poi. E, se tutto il mondo si era stretto intorno all’America dopo l’11 settembre 2001, le migliaia di vittime civili perite in operazioni come la presa di Fallujah e gli abusi contro i prigionieri nel carcere di Abu Ghraib generano un’ondata di condanna globale, causando un deterioramento dell’immagine internazionale degli Usa con pochi precedenti.
Nel 2006 l’elezione di un governo a guida sciita e l’esecuzione di Saddam Hussein non fanno che rinfocolare la rabbia dei sunniti. La svolta arriva nel febbraio 2007 con la nomina del generale David Petraeus a comando della missione. Petraeus recluta con successo uomini della comunità sunnita nelle file delle forze impegnate contro Al Qaeda ma l’attenuarsi delle violenze è temporaneo. L’attacco terrorista contro i villaggi yazidi del 19 agosto 2007 è uno degli episodi più cruenti del conflitto. Bush non può far altro che inviare altre truppe e la presenza militare Usa in Iraq raggiunge un picco di 170 mila uomini.
Se quando Obama arriva alla Casa Bianca può iniziare a parlare di ritiro è grazie anche allo sforzo di pacificazione nazionale del primo ministro iracheno Nuri al-Maliki, che nei mesi precedenti aveva richiamato nelle istituzioni i baathisti dell’ex regime e aveva lanciato una campagna di repressione delle milizie sciite di Moqtada al- Sadr, dimostrando alla minoranza sunnita di non essere un premier di parte.
Il 30 giugno 2009 inizia il ritiro delle truppe Usa dalle grandi città. L’obiettivo di Obama è mantenere un contingente non superiore alle 35 mila persone per addestrare l’esercito locale e gestire la transizione. Il 31 agosto 2010 il presidente degli Stati Uniti dichiara la fine delle operazioni di combattimento, dopo sette anni di guerra che hanno causato la morte di oltre 100 mila civili iracheni.
Il 18 dicembre 2011 gli ultimi soldati della missione “Iraqi Freedom” tornano a casa. Un risveglio temporaneo prima di ricadere in un incubo ancora più agghiacciante, quello del califfato nero dell’Isis che sarebbe sorto sulle rovine di Iraq e Siria.
Vedi: Afghanistan e Iraq, un'operazione per gli Usa lunga 19 anni
Fonte: estero agi