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Aborto. La storia della 194. Una legge non perfetta, ma degna di un paese civile

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La legge 194 festeggia domani i suoi quaranta anni. Si pone come parte integrante di una vera stagione riformista della sanità. Le questioni problematiche sono sostanzialmente tre: l’aumento, nel corso dei decenni dell’istituto dell’obiezione di coscienza a livelli non tollerabili per il sistema, il problema delle donne migranti e la persistenza di sacche consistenti di aborto clandestino. Una legge non perfetta, ma degna di un paese civile

21 MAG – Si celebrano i quaranta anni della legge sull’aborto denominato “interruzione volontaria della gravidanza”. Legge importante perché ha sancito un cambiamento culturale importante sul tema della sessualità e dell’autodeterminazione in merito alle scelte procreative delle donne. Ricordiamo la situazione precedente dominata dalla clandestinità delle pratiche abortive.

Fino al 1978, l’interruzione volontaria della gravidanza era considerata un reato. Nel “codice Rocco” erano previsti una serie di reati tra cui “l’aborto di donna consenziente”, l’aborto di donna “non consenziente”, “l’autoprocurato aborto” e la “istigazione all’aborto”. Del tutto in linea con la concezione culturale dell’epoca era l’attenuante della “causa d’onore” che permetteva la diminuzione delle pene per chi commetteva i reati previsti per l’aborto per “salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto”. In questo caso le pene venivano diminuite dalla metà ai due terzi.

Ricordiamo che il codice penale puniva il “procurato aborto” secondo il linguaggio dell’epoca o, secondo il linguaggio del codice, l’aborto di donna consenziente: le sanzioni erano sia chi cagionava l’aborto sia la donna che consentiva l’aborto. Nel 1975 la Corte costituzionale depenalizzò il c.d. aborto terapeutico stabilendo che non poteva esistere “equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”.

Le questioni che influenzarono il dibattito
Vi furono numerosi fattori che influenzarono l’approvazione della legge. Nel contesto e nel dibattito internazionale vi fu la fondamentale sentenza della Corte suprema statunitense Roe vs Wade che collocò il diritto di aborto all’interno del diritto alla privacy e negò lo statuto di “persona” al feto. La Corte americana sancì, quindi, il principio del diritto della libera scelta della donna sulla propria sfera di intimità.

A livello nazionale un deciso ruolo lo ebbe il disastro ambientale di Seveso. Il 10 luglio del 1976 in seguito a un incidente accaduto all’industria Icmesa – di proprietà della multinazionale svizzera Hoffman-La Roche – di Meda si verificò la fuoriuscita di una nube di diossina che investì una grande area che coinvolse i comuni di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno. E’ stato il più grande disastro chimico italiano di sempre coinvolgendo ambiente e popolazione.

La diossina è una sostanza tossica per gli animali e teratogeni per l’uomo, in grado quindi di provocare effetti di alterazione dei feti.
Il ministero della Giustizia autorizzò le interruzioni, pur in assenza di una legge, in seguito proprio alla depenalizzazione parziale operata dalla Corte costituzionale.

Di particolare rilievo politico furono le parole del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti (un politico di decisa ispirazione cattolica): “I gravi pericoli che incombono sulle gestanti con la decisione che deve essere posta in capo alle donne che ritengano di dover interrompere la maternità”. La maggior parte degli aborti venne svolto presso la Clinica Mangiagalli di Milano e alcuni presso l’ospedale di Desio.

Il movimento femminista
Da un punto di vista politico però la pressione maggiore venne dall’esplosione del movimento femminista. “Aborto libero e gratuito” era uno slogan del femminismo emancipazionista degli anni settanta. Esprimeva più concetti e non necessariamente coerenti tra di loro.
L’autodeterminazione era posta come un caposaldo di tutta l’attività politica e rafforzata da un altro slogan che rivendicava la proprietà del proprio corpo – “L’utero è mio!” – che rappresentava una forte cesura rispetto alle concezioni precedenti.

Il movimento femminista ebbe anche un merito legato al miglioramento delle tecniche abortive fino a quel momento legato al “raschiamento”. In clandestinità furono praticati numerosi aborti con la tecnica dell’aspirazione con il c.d. metodo Karman. La curiosità, spesso sottaciuta, è relativa al fatto che Harvey Karman non fosse un medico. L’inventore della maggiore tecnica chirurgica sugli aborti era uno psicologo: tecnica che veniva insegnata poi alle donne dei gruppi di self-help per praticare direttamente le interruzioni clandestine. Ricorrenti sono le polemiche sulla celebre foto di Emma Bonino ritratta mentre pratica un aborto con una pompa da bicicletta usata in luogo dell’allora proibitivo (da un punto di vista dei costi) aspiratore. Eugenia Roccella – allora femminista radicale oggi portavoce del Family day – scrisse un libro (Aborto: facciamolo da noi, Napoleoni, 1975) per insegnare alle donne dei gruppi femministi la tecnica abortiva. L’aborto come pratica autogestita e come pratica politica.

Liberalizzazione e legalizzazione
“Aborto libero” come slogan evocava la liberalizzazione delle pratiche abortive. Ricordiamo che il dibattito per superare il regime sanzionatorio verteva sostanzialmente sue due direttrici: la liberalizzazione e la legalizzazione. La liberalizzazione prendeva spunto dalle teorie femministe che riconoscevano e riconoscono, in capo alla donna, l’aborto come diritto civile e trovava la sua massima espressione nei principi della sentenza della Corte suprema americana.

Per legalizzazione invece si intendeva quel processo legislativo che prevedeva la depenalizzazione parziale e la regolazione di termini, procedure, requisiti, diritti e doveri per interrompere la gravidanza. Si espressero a favore della legalizzazione la gran parte dei partiti laici dell’epoca.
Quando il 22 maggio 1978 venne approvata – non senza difficoltà – la legge 194 fu chiaro l’impianto legato alla legalizzazione.

La soluzione adottata con la legge 194 scontentò i fautori della liberalizzazione e dell’autodeterminazione. L’impianto normativo non riconosce, infatti, formalmente l’autodeterminazione ma sposa un’impostazione di carattere sanitario. Il diritto di abortire quindi, come diritto, non viene riconosciuto, ma il diritto alla interruzione di gravidanza viene subordinato a determinate condizioni. La donna può abortire solo se “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. Si sanitarizza la richiesta ma non la si subordina realmente alle condizioni di salute, quanto meno nei primi 90 giorni di gestazione. Anni dopo Carlo Flamigni accusò la legge di “ipocrisia”.

Nel 1981 la legge ha resistito, con un deciso consenso popolare, alla richiesta di abrogazione e, successivamente, a numerose richieste di incostituzionalità. L’impianto dunque ha retto e, sostanzialmente ha funzionato.

I nodi da risolvere
Le questioni problematiche sono sostanzialmente tre: l’aumento, nel corso dei decenni dell’istituto dell’obiezione di coscienza a livelli non tollerabili per il sistema, il problema delle donne migranti e la persistenza di sacche consistenti di aborto clandestino. L’obiezione di coscienza ai numeri attuali crea molti problemi alle strutture e pone difficoltà di accesso alle procedure abortive. Si aggiunge a questo una certa intolleranza all’utilizzo delle procedure farmacologiche. Istituto certamente da riformare. Sulle donne migranti è necessaria un’attività di prevenzione e di sostegno in quanto ormai, anello debole della catena. I numeri dell’aborto clandestino calcolati dall’Istat e contenuti nell’ultima relazione ministeriale sembrano intollerabili: si stimano mille interruzioni mensili.

Conclusioni
La legge 194 festeggia dunque i suoi quaranta anni. Si pone come parte integrante di una vera stagione riformista della sanità. Si somma infatti alla legge sulla chiusura dei manicomi e alla nascita del Servizio sanitario nazionale.  Una curiosità da sottolineare: firmarono la legge Giovanni Leone (presidente della Repubblica, Giulio Andreotti (presidente del consiglio), Tina Anselmi (ministro della sanità), Francesco Bonifacio (guardasigilli) e altri ministri come Tommaso Merlino e Filippo Maria Pandolfi. Tutti politici democristiani. D’altra parte era in carica il governo monocolore Andreotti.

La legge 194 ha avuto una forte conferma durante il referendum abrogativo proposto dal Movimento per la vita nel 1981 – oltre il 68% di No all’abrogazione – e ha subito numerosi attacchi anche recenti.

Una legge non perfetta, ma degna di un paese civile.

di Luca Benci fonte@ quotidianosanita.it/