di Paolo Balduzzi e Chiara Mingolla
Le elezioni europee scaldano già la politica italiana tra nuove liste, obiettivi di consolidamento e possibili scambi di favori, come l’abbassamento della soglia di sbarramento. Perché invece non fissare standard europei validi in tutti gli stati Ue?
Come è cambiata la legge elettorale negli ultimi 44 anni
Qualche giorno fa la cronaca politica ha registrato un vivace dibattito relativo alle prossime elezioni europee. In concomitanza con l’annuncio di Matteo Renzi della nascita di una nuova forza politica (si dovrebbe chiamare “Il Centro”), è circolata l’ipotesi di un abbassamento della soglia di sbarramento dal 4 al 3 per cento.
La soglia di sbarramento è la percentuale minima di voti che una lista deve ottenere per poter accedere alla ripartizione dei seggi. Tra le fila della maggioranza, sia Lega che Forza Italia hanno ben presto dichiarato di essere contrari alla modifica, mentre Fratelli d’Italia sembra più incline al confronto, probabilmente perché sarebbe l’unico partito a trarre vantaggio dalla potenziale dispersione dei voti e dei seggi causata da una soglia del 3 per cento, tanto nelle file della minoranza quanto in quelle della maggioranza stessa. Le motivazioni non finiscono qui. Per qualcuno, infatti, l’abbassamento sarebbe un esplicito assist proprio a favore del partito di Matteo Renzi, i cui voti potrebbero tornare utili in futuro per approvare le riforme istituzionali promesse dal governo.
Ma come funziona la legge elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo? E quando è stata approvata? In Italia, il processo di nomina dei rappresentanti presso il Parlamento europeo è disciplinato dalla legge del 24 gennaio 1979, n.18. Si tratta di un sistema elettorale proporzionale, con possibilità di esprimere preferenze. Fino al 2009 non prevedeva una soglia di sbarramento esplicita, rendendo relativamente accessibile la rappresentanza a Strasburgo anche per i partiti più piccoli. Con la legge 10/2009, il Parlamento italiano ha introdotto una soglia di sbarramento del 4 per cento su base nazionale (articolo 21 comma 1-bis legge 18/1979). Il provvedimento venne votato da soli cinque partiti (Popolo della Libertà, Partito democratico, Lega Nord, Italia dei valori e Unione di centro); guarda caso gli unici che, pochi mesi dopo, avrebbero superato lo sbarramento. Da quel momento in avanti, più volte la legge è tornata sotto i riflettori. Uno dei passaggi più interessanti si è avuto dopo il 23 agosto 2016, quando il Consiglio di stato sollevò di fronte alla Consulta questioni di incostituzionalità proprio relative alla soglia di sbarramento. Per ironia della sorte, il processo ha avuto origine da un ricorso di Giorgia Meloni, il cui partito (Fratelli d’Italia – Alleanza nazionale) venne escluso dalla ripartizione dei seggi per pochi voti (ottenne il 3,7 per cento dei suffragi alle elezioni del 2014). A parere del Consiglio, infatti, la soglia avrebbe violato il principio democratico (art. 1 Cost.), il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e il principio di uguaglianza del voto (art. 48 Cost.), in assenza di motivazioni di interesse generale che potessero giustificarla. Con la sentenza n. 239/2018, la Corte costituzionale ha giudicato infondate tali obiezioni. Caso chiuso, quindi? A quanto pare, non ancora.
I criteri dell’Unione europea
Ma quanta libertà hanno gli stati membri sulle leggi che regolano l’elezione del Parlamento europeo? Le legislazioni nazionali devono rispettare alcuni criteri dettati dall’Unione. La normativa elettorale europea, introdotta nel 1976 e poi successivamente modificata, non contempla un sistema elettorale uniforme per tutti gli stati membri; contiene solo una serie di principi comuni che ogni stato deve applicare alla propria legge elettorale. Nella sua formulazione originale, la disciplina non prevedeva alcuna disposizione in merito alla percentuale di voti necessaria affinché un partito politico o una coalizione ottenesse il diritto alla rappresentanza nell’assemblea legislativa. Solo dopo le modifiche del 2002, l’articolo 3 consente agli stati di fissare una soglia minima per l’assegnazione dei seggi, a condizione che questa non superi il 5 per cento dei voti espressi. Oggi, sono 14 (su 27) i paesi che ne hanno fissata una, con valori che vanno dall’1,8 per cento di Cipro al 5 per cento di Francia e della maggior parti degli stati orientali (figura 1). Nel 2018, il Consiglio ha proposto ulteriori modifiche all’atto del 1976, che sarebbero dovute entrare in vigore prima delle elezioni europee del 2019, ma che ancora oggi, alla vigilia del voto di giugno 2024, risultano bloccate a causa della mancata approvazione di tre stati membri (Germania, Cipro e Spagna). Tra le principali novità, c’è proprio l’obbligo di una soglia di sbarramento compresa tra il 2 e il 5 per cento, ma solo per le circoscrizioni elettorali con più di 35 seggi. A complicare il quadro ci si è messo anche il Parlamento europeo. Nel maggio 2022, infatti, proprio l’Europarlamento ha chiesto l’abrogazione dell’atto elettorale del 1976 e la sua sostituzione con un nuovo regolamento. Lo scopo? Armonizzare una serie di norme applicabili alle elezioni europee, come l’età per votare o candidarsi, il calendario elettorale per le elezioni europee, i principi applicabili alla selezione dei candidati, anche dal punto di vista del genere, e la soglia di sbarramento. Per esempio, la proposta introdurrebbe una soglia di elettorato attivo a 16 anni e una di elettorato passivo a 18, procedure comuni per il voto postale o il voto all’estero, quote di genere obbligatorie, un unico giorno fisso per le elezioni (il 9 maggio, ogni cinque anni) e così via.
È tempo per una maggiore convergenza
Si tratta di misure ovviamente discrezionali ma che appaiono, in fin dei conti, ragionevoli. Se è vero che una normativa comune potrebbe limitare la libertà degli stati, allo stesso tempo aumenterebbe il grado di uguaglianza dei cittadini e dei partiti europei. Del resto, l’Europa ci ha abituati a processi di standardizzazione che hanno riguardato prodotti, servizi e processi negli ambiti più disparati. Perché quindi non uniformare anche la legislazione elettorale? Ma inutile contarci troppo. Per entrare in vigore, la proposta dovrebbe essere prima approvata dal Parlamento europeo a maggioranza dei suoi membri, poi adottata all’unanimità dal Consiglio e infine recepita da tutti gli stati, secondo i propri requisiti costituzionali. I dieci mesi che ci separano dalle urne appaiono sicuramente insufficienti per una simile rivoluzione.
Fonte: La Voce