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A quale tradizione appartiene Donald Trump?

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di Alessandro Maran

Su Tablet Magazine, la rivista (conservatrice) ebraica online “che parla del mondo” (https://www.tabletmag.com/about#about-us), Walter Russell Mead, columnist del Wall Street Journal e membro dell’Hudson Institute, delinea (in due parti) una teoria jacksoniana del trumpismo immergendosi nella “utter disruption” che il presidente eletto Donald Trump ha provocato nella coalizione del «Grand Old Party», il Partito repubblicano, inalterata almeno dal 1980 (https://www.tabletmag.com/sections/news/articles/rebel-yell-part-one).
“Il primo e per molti versi il più duraturo risultato politico di Donald Trump – scrive Mead – non è l’umiliazione del Partito democratico che ha rovesciato in due delle ultime tre elezioni presidenziali. È la sconfitta devastante che ha inflitto all’establishment repubblicano che ha marginalizzato e disperso. Il nostro ex e futuro presidente non vincerà ogni battaglia con ciò che resta del vecchio establishment repubblicano, e in politica nulla è eterno. Ma dal 5 novembre 2024, ‘l’uomo del Queens’ ha raggiunto un dominio del Partito repubblicano che nessun precedente presidente repubblicano ha mai avuto”.
Per cominciare, Mead colloca Trump nel contesto storico. Come altri, Mead paragona il presidente eletto ad Andrew Jackson, il populista democratico del sud che è stato il settimo presidente degli Stati Uniti dal 1829 al 1837 e ha diretto la violenta espulsione dei nativi americani dal sud-est del paese. David Roos spiega su History.com che Jackson, nato da immigrati scozzesi-irlandesi nella Carolina del Sud, prima della sua presidenza non era un funzionario statale esperto bensì un eroe militare della guerra del 1812. “L’outsider che si candida contro gli ‘insider di Washington’ è diventato una figura familiare ad entrambi gli schieramenti”, scrive Roos. “Ma negli anni ’20 dell’Ottocento non esisteva un candidato anti-establishment e populista, finché non lo inventò Andrew Jackson” (https://www.history.com/news/andrew-jackson-populism).
“Fino a poco tempo fa”, scrive Mead su Tablet, il GOP presentava due campi ben identificati: “C’era il Partito repubblicano prevalentemente liberale radicato nel nord-est e rappresentato da personaggi come Nelson Rockefeller e Mitt Romney, e c’era il movimento repubblicano della Sunbelt guidato da Ronald Reagan (…) Donald Trump chiaramente non rientra in questo modello, e il suo ingresso nella politica presidenziale repubblicana nel 2015 ha rivelato l’esistenza di potenti forze all’interno della coalizione repubblicana di cui i suoi leader nominali sapevano poco o nulla”.
Queste forze, scrive Mead, includono “le complesse culture politiche degli ex democratici del sud e dei repubblicani reaganiani etnici della Rust Belt operaia. Almeno dai tempi della guerra civile, i populisti jacksoniani si sono sentiti profondamente estranei all’establishment nazionale invadente e potente. Lo spettro di un governo wokitarian squilibrato allineato con i media dominanti, le grandi università e imposto attraverso le politiche di gestione del personale delle “corporazioni woke” e dei “generali woke” è esattamente il tipo di cosa che, storicamente, ha innescato ondate di ribellione popolare e populista, in particolare ma non esclusivamente tra i jacksoniani. È una paura propria della cultura anglo-americana che risale alla Riforma: una cospirazione satanica volta a distruggere la libertà, ridurre le persone in schiavitù, disarmarle e consegnarle ai piani spietati di un’élite internazionalista”.
“Esiste però davvero questa ‘tradizione jacksoniana’? è utile farne uso per studiare l’evoluzione della politica estera americana? A mia conoscenza non vi è uno storico serio – della politica estera statunitense o dell’era jacksoniana – che vi faccia riferimento o che usi le cose scritte da Mead”, scriveva qualche anno fa Mario Del Pero. Cose, proseguiva Del Pero “che piacciono invece evidentemente ai commentatori colti e ad alcuni politologi, sempre alla ricerca di categorie statiche ed essenzialiste, appunto, da mettere al servizio di comparazioni diacroniche molto forzate e di un presentismo talora (e di certo in questo caso) alquanto grossolano. Presentismo che porta a cercare di spiegare questo Presidente per il tramite di analogie con un’epoca in cui gli Usa avevano una popolazione di 12milioni di abitanti, erano un pigmeo militare, dovevano ancora annettere od “organizzare” più di metà del loro attuale territorio nazionale, e i loro confini occidentali si fermavano al Missouri, all’Arkansas e al Michigan (ammessi nell’Unione nel 1836 e 37). Un paese la cui politica estera si esplicava principalmente nelle relazioni con le popolazioni native e nella celebre (e brutale) azione di Jackson contro le ‘nazioni civilizzate’ del Sud, a partire ovviamente dai Cherokees”.