Il sistema di accoglienza in Italia opera su due livelli: prima accoglienza, che comprende gli hotspot e i centri di prima accoglienza, e seconda accoglienza, il cosiddetto SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
la prima accoglienza dovrebbe servire a garantire ai migranti primo soccorso, a procedere con la loro identificazione, ad avviare le procedure per la domanda di asilo. Dovrebbero essere procedure veloci, per poi assegnare i richiedenti asilo ai progetti SPRAR.
I beneficiari del sistema di accoglienza sono aumentati a dismisura dal 2014, a causa del numero crescente di arrivi via mare in Italia di persone che fanno domanda di asilo, entrando quindi nel sistema di accoglienza.
Il programma SPRAR per funzionare bene garantendo una reale accoglienza e integrazione nel territorio, ha bisogno dell’adesione dei comuni, che i comuni diano cioè la loro disponibilità a gestire un progetto di accoglienza sul proprio territorio.
Moltissimi comuni non lo vogliono fare, nonostante per i progetti non vengano impiegati i soldi dell’ente.
Pertanto troppe domande, troppi pochi posti.
Per una soluzione rapida per gestire l’emergenze vengono attivati i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria).
La prima accoglienza è svolta in centri collettivi dove i migranti appena arrivati in Italia vengono identificati e possono avviare, o meno, la procedure di domanda di asilo. Qui ricevono le prime cure mediche, vengono sottoposti a screening sanitario, vengono identificati e fotosegnalati e possono richiedere la protezione internazionale (di fatto la grande maggioranza dei migranti che arrivano via mare lo fa). Ad oggi gli hotspot sono quattro: Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto.
Dopo una prima valutazione, i migranti che fanno domanda di asilo vengono trasferiti nei centri di prima accoglienza dove vengono trattenuti il tempo necessario per individuare una soluzione nella seconda accoglienza.
Purtroppo questo meccanismo non sempre funziona in maniera lineare.
In molti casi i migranti vengono condotti direttamente dal porto di sbarco al CAS.
Chi non richiede asilo viene portato nei centri CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) .
I richiedenti asilo vengono assegnati, secondo protocollo, alla seconda accoglienza, entrano cioè a far parte del programma SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
Essendo il programma SPRAR di piccole dimensioni rispetto al numero dei rifugiati di fatto quelli che arrivano in Italia vengono sempre più dirottati sui CAS.
Lo SPRAR è stato istituito con la legge 189 del 2002 (la cosiddetta Legge Bossi-Fini). Il sistema è coordinato dal Ministero dell’Interno in collaborazione con ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani. Gli enti locali che scelgono di aderire allo SPRAR possono fare domanda per accedere ai fondi ministeriali in qualsiasi momento, rispondendo ad un avviso pubblico sempre aperto.
Se la domanda viene valutata positivamente dal Ministero, l’ente locale riceve un finanziamento triennale per l’attivazione di un progetto SPRAR sul proprio territorio.
I progetti si basano sul principio dell’accoglienza integrata, che implica la costituzione di una rete locale (con enti del terzo settore, volontariato, ma anche altri attori) per curare un’integrazione a 360 gradi nella comunità locale, da realizzarsi attraverso attività di inclusione sociale, scolastica, lavorativa, culturale.
Oltre agli alloggi, gli enti gestori sono chiamati a fornire una serie di beni e servizi di base: pulizia e igiene ambientale (svolti anche dagli ospiti in autogestione); vitto (colazione e due pasti principali, meglio se gestiti in autonomia dagli ospiti); attrezzature per la cucina; abbigliamento, biancheria e prodotti per l’igiene personale; una scheda telefonica e/o ricarica; l’abbonamento al trasporto pubblico urbano o extraurbano sulla base delle caratteristiche del territorio.
Ed anche una serie di altri servizi per l’inserimento sociale: imparare la lingua , inserire i minori a scuola, fare sport o cultura.
Per fare tutto questo ci vuole personale. Gli enti gestori quindi assumono operatori che lavorino nei progetti a supporto dei richiedenti e rifugiati ospiti: personale di coordinamento e amministrazione, operatori sociali, psicologi, assistenti sociali, operatori legali, interpreti e mediatori culturali, insegnanti di lingua italiana, addetti alle pulizie, autisti, manutentori.
Il personale rappresenta di solito la spesa più importante nei progetti. La restante quota va all’attivazione di servizi per l’integrazione tra cui il tanto discusso il pocket money che va direttamente in mano ai beneficiari, e che possono spendere come desiderano. Si tratta di un contributo che va dagli 1,5 ai 3 euro al giorno, che incide per meno del 10% sul costo dei progetti.
I posti sono del tutto insufficienti a coprire la richiesta, che cresce sempre di più insieme agli sbarchi sulle coste italiane. Non sarebbe una questione di soldi ma probabilmente l’egoismo politico degli amministratori locali che impedisce al programma di entrare a regime, e costringe lo Stato a dirottare le risorse sull’accoglienza straordinaria (CAS).
A differenza dei progetti SPRAR, gestiti da enti non profit su affidamento dei comuni, i CAS possono essere gestiti sia da enti profit che non profit su affidamento diretto delle prefetture. Ogni prefettura territoriale pubblica quindi delle gare d’appalto periodiche per l’assegnazione della gestione dei posti in modalità CAS.
Come lo SPRAR, anche i CAS vengono finanziati con il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Le risorse vengono assegnate tramite gare d’appalto basate su una retta giornaliera per ciascun utente che indicativamente oscilla intorno a 35 euro a persona accolta al giorno.
Ogni anno l’Italia riceve dall’Unione Europea un contributo di circa 100-120 milioni di euro a cui vanno aggiunti i fondi distribuiti dalla Commissione Europea tramite i bandi del fondo FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione), che ammontano a circa 600 milioni di euro per il periodo 2014-2020.