Intervista a Enrico Morando a cura di Aldo Torchiaro – Il Riformista, 17 ottobre 2024
Enrico Morando, presidente di Libertà Eguale, economista cresciuto nel Pci e poi nel Pd, è stato tra l’altro viceministro dell’economia e delle finanze nei governi Renzi e Gentiloni.
Abbiamo letto i punti-chiave della manovra. Come la trova, come la definirebbe?
«Il Governo Meloni è affetto dalla sindrome del brevissimo periodo. Al punto che, la primavera scorsa, ha presentato un Documento di Economia e Finanza che non conteneva la tabella di finanza pubblica programmatica. Una scelta senza precedenti, se non per i Governi a fine mandato, obbligati ad agire “a legislazione vigente”. Non è una questione di forma: senza programmazione di medio-lungo periodo, i due problemi fondamentali del Paese -la produttività che non cresce e il debito pubblico troppo grande- non sono risolvibili. Poi sono arrivate le nuove regole europee: decisamente meno “stupide” di quelle del passato, esse obbligano ad assumere, per la programmazione di finanza pubblica, un orizzonte di medio termine, organizzandosi attorno ad una regola di evoluzione della spesa netta strutturale, per la durata di una legislatura e -se richiesto dal Paese in questione- anche oltre. Così il Governo è stato costretto a fare in pochi giorni quello che avrebbe dovuto fare -con il coinvolgimento del Parlamento- in quattro o cinque mesi. Quindi, definirei la manovra piuttosto improvvisata».
Vedo la tentazione di tassare gli extraprofitti delle banche. Coesistono due filoni, in questa maggioranza, uno più populista e uno più liberale anche in campo fiscale?
«Ecco un esempio di logica del brevissimo termine: se capisco, non è una tassa sugli extraprofitti (qualsiasi cosa voglia dire questo termine). È un’anticipazione ad oggi di tasse che gli istituti di credito e le assicurazioni dovranno pagare domani. Si può fare, ma le due“filosofie“ fiscali non entrano in gioco, almeno in questo caso».
La semplificazione dell’Irpef in tre aliquote e il taglio permanente del cuneo fiscale avrebbero potuto essere misure riformiste, in un governo di centrosinistra? Non trova che il terreno del fisco è stato a lungo il più scialbo, quando non scivoloso, per il Pd?
«La scelta del Governo Meloni di ridurre per un solo anno la pressione fiscale e contributiva sui lavoratori a reddito medio-basso era figlia della stessa logica: facciamo qualcosa nell’immediato, per il futuro si vedrà. È quindi un fatto positivo che ora il Governo renda permanenti questi sgravi, esattamente come fecero i Governi di centrosinistra a metà del decennio scorso. Una continuità che va apprezzata. Certo, questa non è la riforma fiscale, che non abbiamo realizzato noi e che, temo, non realizzerà neppure il Governo Meloni. Ci si potrebbe almeno limitare alla riforma del catasto, ma vedo che nella maggioranza ci si spaventa persino dell’adeguamento dei valori catastali di seconde case ristrutturate coi soldi dello Stato…».
Tagli su tutto ma sulla sanità vedo +3,7 miliardi. Una misura che deve compensare l’autonomia differenziata e mettere il Mezzogiorno in condizione di fare la sua partita?
«L’autonomia differenziata ha poco a che fare con lo stanziamento sul Fondo sanitario: le risorse aggiuntive (vedremo tra qualche giorno il dettaglio) servono per adeguare il Fondo all’aumento del Pil nominale. Sul sistema sanitario, vedo l’assenza di un qualsiasi indirizzo riformatore: stiamo costruendo nuove strutture, col PNRR, ma non si riscrive la Convenzione tra Stato e i medici di medicina generale. Chi lavorerà nelle nuove Case della salute? Chi opererà nei nuovi servizi di telemedicina?».
Sulla Difesa la manovra è prudente. L’adeguamento al 2% sul Pil come richiesto dalla Nato non viene esplicitato. Rimangono da vedere i dettagli. Cosa ne pensa?
«Non conosco i dettagli di questo “adeguamento“, ma so per certo che senza la costruzione di un sistema di difesa europeo, integrato nella Nato, e senza coerenti scelte di politica industriale, non caveremo un ragno dal buco. Bene cercare di avvicinarci al 2%. La vera domanda è: per ottenere cosa?».
Si torna a vagheggiare di quoziente famigliare. Esperimenti interessanti sono stati fatti anche nelle regioni rosse, in Emilia-Romagna. Ma non è che si va a finire, uso un paradosso, con la tassa sugli scapoli?
«Ho già detto che nella manovra c’è una scelta di stabilizzazione della decontribuzione, che condivido. Ma non c’è nessuna apertura verso una riforma più generale del sistema fiscale. Senza la quale, è inutile discutere di “quoziente familiare“ alla francese. Oltralpe, questa soluzione è inserita in un disegno di politica fiscale coerente con l’obiettivo di sostenere le famiglie più numerose. Qui siamo ancora ai bonus. Penso che gli scapoli possano dormire sonni tranquilli».
Il bonus ristrutturazioni rimane, ma al 50%. Ma poi le case ristrutturate devono cambiare classe catastale…
«Che le case integralmente rinnovate a spese dello Stato, con il superbonus al 110%, debbano vedere adeguati i loro valori catastali, è previsto dalla legge in vigore ed è assolutamente giusto. Le conseguenze fiscali, tra l’altro, si avranno -se si avranno- solo sulle seconde case. Per le case ristrutturate anche grazie a detrazioni più ‘normali’, tutto dipende dall’entità dell’investimento realizzato e dall’intensità della ristrutturazione».
Che voto darebbe a questa manovra, in tutta onestà?
«Il buono – l’assunzione di un orizzonte di medio periodo – deriva da una regola europea, non costruita per iniziativa del Governo Meloni. Il resto, a partire dai tagli lineari (che sono il contrario della revisione della spesa), per finire alla totale assenza di misure che favoriscano la crescita della produttività e dei salari (esempio: sostegno alla contrattazione di secondo livello), appare decisamente improvvisato. Voto: insufficiente».