Di Giovanni Cominelli
Giampaolo Rossi non è un giornalista famoso né, tampoco, un intellettuale di grido. Però, occupa nel sistema della comunicazione pubblica un ruolo importante: è stato indicato dal MEF come uno dei sei membri del CdA della RAI.
Trattasi di “intellettuale organico” della Destra al governo. Interessa qui un suo lungo tweet, di cui si riportano fedelmente alcuni pezzi. Dopo aver definito il Parlamento europeo come “pieno di maggiordomi di George Soros,” il noto ebreo demo-plutocratico ebreo, secondo i neo-Protocolli dei Savi di Sion, afferma: “La verità è che la democrazia in Occidente è in pericolo non a causa di Putin; ma a causa di un’élite tecnocratica, apolide e priva di legittimità, che sta distruggendo le identità nazionali, le sovranità popolari, il modo di vita e di produzione dei popoli europei. È in Silicon Valley che si progetta il superamento della democrazia, non a Mosca. Sono i visionari della Rete e del dominio della Tecnica a chiedere che la politica si faccia da parte e consegni il potere a industrie e multinazionali… Se proprio il Parlamento europeo vuole difendere la democrazia in Occidente la smetta di inventarsi nemici in Russia e affronti il vero tema del nostro tempo: quello del conflitto tra élite globalista e sovranità popolari”.
Si tratta di un paradigma culturale, e perciò politico, alternativo a quello democratico-liberale. Resta incerto se sia alternativo anche a quello della sinistra, giacché con la maggioranza di questa condivide l’avversione verso il capitalismo tecnologico nato nella Silicon Valley, del quale l’U.E. è sospetta catena di trasmissione.
Certamente il Rossi è in sintonia con il putinismo, con il lepenismo, con l’orbanismo. Anche con Trump? Chissà!? Per un verso Trump interpreta la resistenza identitaria del vecchio capitalismo della Rust Belt, ma, per l’altro, lui stesso e gli intellettuali che lo appoggiano in mancanza di peggio propongono un “cambio di regime”, da quello liberal-democratico ad una tecno-autocrazia/tecno-aristocrazia, che darebbe il colpo finale al vecchio capitalismo, che Trump pare difendere. Boh!
Scrivono i “Seven Thinkers”, cui “Politico” ha dedicato recentemente attenzione: “Le elezioni, anche se condotte legittimamente, non riflettono più la volontà del popolo, ma assomigliano alle elezioni dei regimi comunisti del Ventesimo secolo… solo i settantacinque milioni di cittadini che hanno votato alle ultime elezioni per Donald Trump sono dei veri americani… Gli Stati Uniti sono diventati due nazioni che occupano lo stesso Paese”. Insomma: dalla Rivoluzione americana all’Insurrezione americana, passando per una nuova Guerra di secessione americana.
Se il Rossi non arriva a tale radicalità calvinista-presbiteriana – chi ha voglia di fare guerre in Italia? – il punto di partenza è il medesimo: Popolo-Nazione contro il globalismo. La globalizzazione come il Complotto. Questo trumpismo all’italiana è, intanto, la piattaforma culturale e politica di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini.
Tuttavia, cavarcela da parte nostra, di fronte a questa piattaforma, con l’uso di categorie quali “fascismo” o “fascismo del XXI secolo” è una consolazione intellettuale da pusilli. Si chiede il politologo francese Marc Lazar, che conosce bene l’Italia: perché gente che fino a ieri votava PCI in Toscana, ora vota Meloni? Sono diventati fascisti? Improbabile!
È più produttivo, pertanto, saggiare la solidità delle categorie in uso su quella piattaforma. Il conflitto? Intanto, ce n’è più d’uno, a seconda dei punti cardinali di riferimento. Non pare, ad esempio, che in Asia, India, Cina o Indonesia, il conflitto principale sia quello tra “élite globalista” e “sovranità popolari”. Si tratta di una proiezione occidento-centrica, proposta, per di più, nel momento storico in cui l’Occidente sta perdendo peso specifico.
Quanto alle cause del conflitto, se ci limitiamo all’Occidente storico, non è difficile stilarne un elenco, è semmai più complicato metterle in fila per gerarchia di importanza. Procedono, infatti, per intersezione, più che per logica lineare.
La prima è certamente il passaggio dalla società industriale all’economia della conoscenza. È cambiato il modo di produrre. Sta arrivando uno tsunami tecnologico mai visto prima: l’avvento dell’I.A. è destinato a sconvolgere la produzione, i servizi, le vite. Non ci sono più grandi masse operaie concentrate in pochi posti e territori. Fine della lotta di classe. Globalizzazione dell’economia, dei consumi, della comunicazione, delle culture. Riorganizzazione dei modi di produrre e di consumare attorno a “digital empires”.
Sradicamento e dissoluzione di culture etniche. Fine dell’ordine geopolitico di Yalta, ascesa di nuove potenze. Crisi demografica: pochi giovani, molti anziani. Disruption generazionale: nel ’68 i giovani guardavano lontano, più avanti, ma nella stessa direzione dei padri. Oggi guardano altrove. Siamo di fronte alla disintegrazione del mondo, del “mio” mondo e dunque del mondo. In questo elenco di cause, non compaiono né Soros né Draghi. Trattasi di complotto globale? La Storia non ha soggetto, è un’interazione caotica e casuale.
Non è del tutto azzardato istituire un confronto tra il passaggio che le generazioni contemporanee stanno attraversando e quello che si dispiegò a partire dal 1492, alla fine del Medioevo, con la scoperta dell’America: la fine della Res-publica medievale, la messa in movimento di enormi forze produttive, la rottura di statiche relazioni tra gli esseri umani, l’emergere di forme di capitalismo commerciale e industriale, l’uscita dal sistema tolemaico, le guerre di religione, i nascenti stati nazionali, le guerre commerciali su scala mondiale, le colonie, la guerra dei Trent’anni… A storie simili, d’altronde, alludono Marx e Engels nel famoso Manifesto del febbraio 1848.
Noi ci troviamo oggi allo stesso tornante, ma un po’ più su nella spirale diacronica della storia. E perciò ricompaiono le stesse tentazioni intellettuali: il passato come paradiso terrestre cui tornare, il futuro come paradiso terrestre da costruire. Conservatori e utopisti rivoluzionari/insurrezionisti tornano ad affrontarsi, ciascuno avendo molte ragioni e molti torti.
Reazionari cristiani, wokisti, pacifisti new-age, teologi climatico-apocalittici, adoratori dell’identità di popoli e di gruppi minoritari, totalitari millenaristi, post-umanisti e trans-umanisti, candidati alla salvezza del mondo, retori di sempre nuove apocalissi… Chi ci salverà? Il Popolo, la Nazione?
Ecco perché, in questo contesto di cambiamenti tumultuosi e drammatici è necessario adottare, come suggerisce Albert Camus, nei suoi “Saggi postumi”, “un pensiero politico modesto, cioè liberato da ogni messianismo e sgombro dalla nostalgia del paradiso terrestre”.
Del ponte gettato dal pensiero sul fiume limaccioso in piena della storia umana, ci sono tre pilastri da conservare, sì “da conservare”, del nostro passato culturale: la dignità inviolabile della persona umana, sotto qualsiasi cielo; un regime politico-istituzionale che la garantisca: è la democrazia liberale; l’idea della redimibilità e della salvezza.
Il seme di questa speranza è stato gettato nella storia delle civiltà dall’Ebraismo e dal Cristianesimo. È stato il motore dell’Occidente storico. Questo seme sta sepolto dentro ciascuno di noi. Non preannuncia un nuovo paradiso terrestre, ma spinge a rendere più vivibile la terra che calpestiamo, per gli anni a ciascuno dati. Ora, la piattaforma culturale del governo Meloni-Salvini c’entra con questo lascito? Ottima, si intende, la citazione di Prezzolini che Giorgia Meloni ha esibito a New York, in occasione dell’investitura a “Global Citizen” (sic!) da parte di Elon Musk. Ma il passato che Prezzolini invitava a conservare è lo stesso di Trump, Putin e compagnia cantando?