di Danilo Di Matteo
Leggo in esergo a un libro del filosofo Giacomo Marramao: “Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. E la morte di Ottaviano Del Turco ci sprona a farlo ardere, quel fuoco. Un passo indietro. Alle elezioni politiche del 1953, il Psdi (da un anno aveva assunto tal nome) scese al 4,5%: da lì la celeberrima constatazione da parte di Giuseppe Saragat di “un destino cinico e baro”. Da lì, però, anche un nuovo slancio unitario con il Psi e una più coerente politica sociale condensata dalla triade “case, scuole e ospedali” (nulla di più attuale). Così Del Turco, politico e artista autodidatta che aveva conosciuto la fatica e il sudore, negli anni Ottanta era una delle icone della sinistra e del riformismo italiano. Ricordo come fosse ieri quando, al funerale di Enrico Berlinguer, nel 1984, da numero due della Cgil, dinanzi a un popolo comunista piuttosto tiepido, sottolineò: “la Cgil, la nostra Cgil”. E i compagni applaudirono con convinzione. Sì, mi piaceva la sua oratoria. Di più: la sua voce. Sarà un mio vezzo da “esteta”, ma tendo ad attribuire importanza alla voce: la sua era dolce e suadente. E riusciva ad ascoltare, come ebbi modo di constatare, anni dopo, in occasione di un incontro pubblico, a Chieti, con lui e con Giuliano Amato.
In seguito, un destino cinico e baro, paradossale, aggiungerei, si è accanito anche su di lui, che certo ne era corresponsabile, forse dando spazio a persone che non l’avrebbero meritato. Torniamo sempre al punto: un malinteso machiavellismo. Come dire: i mezzi che si impossessano dei fini. Quel volto cinico della politica e del potere che fa spesso la grandezza e la miseria dei leader, e non di rado ne provoca la caduta.
Del resto, proprio negli anni Ottanta vi era chi scorgeva in lui una sorta di “cavallo di Troia” escogitato da Bettino Craxi per giungere a controllare il maggior sindacato italiano, relegando i comunisti a un ruolo subalterno. I fatti, tuttavia, di rado si piegano alle intenzioni di questa o quella persona, per quanto influente. E i fatti ci suggeriscono che leader come Luciano Lama e Ottaviano Del Turco avrebbero potuto incarnare quel riformismo di popolo che così spesso vado invocando.
E qui possiamo situare un’altra citazione tratta da un libro di Marramao: una delle dimensioni della memoria è costituita dalla “memoria-archivio, che conserva il non-funzionale, l’escluso, il ‘superato’, ma con esso anche ‘il repertorio delle occasioni perdute’, le alternative emarginate e sconfitte della storia individuale e collettiva o le possibilità inattuate, ‘sommerse’ e rimaste allo stato di latenza”.