Maria Cristina Bertola si sofferma in questo articolo sull’etica della cura, un orientamento di pensiero nato dal femminismo che offre un diverso modo di guardare alla moralità, fondato sul valore della relazione, della condivisione e della vulnerabilità degli esseri umani.
di Maria Cristina Bertola
Una parola chiave
La parola “cura” è antica e possiede diverse sfumature di significato. La più immediata è quella che rinvia al campo della medicina, quindi, “cura” nel senso di rimedio o pratica volta a guarire da una malattia. Cura è però anche l’interessamento solerte per qualcuno o qualcosa, l’impegno o il pensiero rivolto verso un essere vivente o un oggetto di cui ci si occupa con sollecitudine; ancora, la cura evoca la protezione e l’attenzione per chi è più fragile o debole.
Ritroviamo la parola “cura”, in tutta la sua complessità semantica, nella tradizione filosofica attuale, volta, in un contesto globale destabilizzante e problematico, a elaborare strumenti interpretativi della complessità, a chiarificare il linguaggio con cui produciamo “narrazioni” di noi stessi, degli altri e delle cose, a individuare comportamenti in grado di migliorare la qualità della vita umana.
Oggi più che mai la parola “cura” è particolarmente significativa, per la dimensione di interconnessione globale in cui si sviluppa l’esistenza degli individui e si plasma la loro identità. Tale condizione richiede cura delle relazioni – di cui siamo intessuti e di cui non possiamo fare a meno –, responsabilità nei confronti degli altri – da cui dipendono le nostre vite, da un punto di vista fisico, affettivo, sociale –, rispetto delle diversità e della ricchezza degli stili di vita, dei bisogni e dei diritti, ancora in molti casi misconosciuti. Molto deve essere fatto per eliminare le discriminazioni, i pregiudizi, le violenze, i soprusi ancora perpetrati nelle nostre comunità, ma anche per evitare l’indifferenza delle maggioranze nei confronti di quanti non hanno ancora ottenuto un adeguato riconoscimento, e che si vedono interdetta la possibilità di esprimere materialmente e simbolicamente la propria personalità.
L’etica della cura
La ricerca di un modo nuovo, più responsabile, di guardare alle relazioni che ci legano agli altri è al centro dell’“etica della cura”, un orientamento di pensiero inaugurato dalla psicologa statunitense Carol Gilligan (nata nel 1936) e riconosciuto come «uno dei più interessanti contributi del pensiero femminista alla riflessione morale, ed anche un interessante paradigma morale in sé» (C. Botti, Cura e differenza, 2018). Nella sua opera principale, Con voce di donna (titolo originale In a Different Voice1, 1982), Gilligan offre le basi per un radicale ripensamento della morale che può risultare all’altezza delle problematiche attuali, in una prospettiva opposta rispetto a quella individualista dominante nelle nostre società. La concezione della studiosa nasce anche in risposta alle consolidate teorie sullo sviluppo morale di psicologi come Jean Piaget e Lawrence Kohlberg, secondo le quali le femmine hanno un senso morale ridotto rispetto ai maschi2. Gilligan ne riprende l’impostazione, individuando vari stadi dello sviluppo morale nelle ragazze, ma ribaltandone il quadro valutativo e riconoscendo nella loro forma matura (quella della «cura responsabile» dell’altro e di sé) un nuovo paradigma morale incentrato sull’«intuizione dell’esistenza dell’interconnessione».
Sulla base di numerose ricerche sul campo e di interviste a giovani di entrambi i sessi in merito a scelte morali complesse, l’autrice individua due differenti modelli etici. Il primo – preferito dai maschi – risulta più astratto, decontestualizzato, sensibile all’autonomia del soggetto: è «l’etica del diritto», della «giustizia formale», secondo cui la riflessione morale deve distanziarsi dalle situazioni concrete e particolari, per fare riferimento a principi ideali validi universalmente (la giustizia, la bontà, il dovere), a questioni teoriche (come si fa ad essere giusti, buoni, virtuosi?), a regole di comportamento assolute (non uccidere, non rubare). Il secondo tipo di etica – verso cui sembrano orientate le femmine – è maggiormente incentrato sulla «connessione» con gli altri nella loro particolarità, diversità e concretezza, sul riconoscimento dell’essenzialità dei legami e delle relazioni, sull’esigenza della loro presa in carico sollecita e premurosa: è l’«etica della cura», la quale risulta caratterizzata da una maggiore consapevolezza del ruolo che le relazioni hanno nella vita delle persone e dalla fiducia nella capacità umana di proteggerle. In questa prospettiva la morale assume una dimensione più ampia rispetto a quella formale della tradizione, venendo a includere esperienze proprie della vita concreta: gesti, parole, interazioni anche minime, attenzioni piccole e grandi che rivolgiamo all’altro preservando la qualità del tessuto relazionale in cui siamo immersi. L’umanità è vista come fragile, bisognosa, interdipendente e quindi vulnerabile: abbiamo bisogno degli altri, siamo permeabili alle loro emozioni e al loro giudizio, ci esprimiamo in orizzonti simbolici condivisi. Proprio per questo, dovremmo considerare gli altri non come nemici ma come simili, consapevoli che è proprio grazie a quella interdipendenza che ci rende vulnerabili che possiamo far fronte alla vulnerabilità stessa. L’ideale della cura si esprime allora in una «attività di relazione, nel vedere e nel rispondere ai bisogni, nel prendersi cura del mondo sostenendo la trama delle connessioni in modo che nessuno sia lasciato solo» (C. Gilligan, Con voce di donna).
Alcune femministe hanno visto nelle teorie di Gilligan una riaffermazione, seppure inconsapevole, di una prospettiva “binaria” di tipo patriarcale, la quale impone stereotipi del maschio (caratterizzato dalla razionalità) e della femmina (connotata dal sentimento) che fungono anche da modelli di comportamento. Altre studiose – ad esempio Caterina Botti – evidenziano invece come Gilligan (lei stessa autocritica verso alcune affermazioni equivocabili della sua prima opera) non intenda proporre un’etica delle donne o un’etica femminile, ma un diverso modo di guardare alla moralità a partire dalla consapevolezza – questa sì femminile – del ruolo essenziale e costitutivo che le relazioni hanno nella vita delle persone3. L’etica della cura si proporrebbe in questo senso come un’alternativa alla morale tradizionale: una visione morale che – pur accettando la dimensione della giustizia formale – risulterebbe fondata sull’idea di un soggetto non più separato dagli altri, autosufficiente e concentrato sul perseguimento del proprio interesse, ma intrinsecamente dipendente dagli altri (anche nella definizione della sua stessa identità), bisognoso di cura e al tempo stesso capace di curarsi degli altri; un soggetto in cui la dimensione relazionale risulta primaria e fondamentale.
Cura filosofica e pandemia
L’etica della cura ha offerto spunti interessanti alla riflessione filosofica sviluppatasi in seguito alla diffusione nel 2020 della pandemia di Covid-19, un evento epocale che ha toccato nel profondo le coscienze di tutti, sollevando molti interrogativi e questioni fondamentali, e ponendo gli individui in un’insolita condizione di solitudine e di spazio riflessivo.
In questa circostanza si è molto discusso sul ruolo della filosofia di fronte all’emergenza sanitaria. In una società che si credeva iper-sicura, al riparo nella propria illusione di onnipotenza scientifico-tecnologica – dimentica del fatto che la vera scienza si misura continuamente con il dubbio, e procede per tentativi ed errori –, il dilagare del virus ci ha costretti a prendere atto della nostra fragilità: ha mostrato le nostre comunità vulnerabili di fronte a qualcosa di imprevedibile e ignoto. In tale frangente, la filosofia ha potuto riaffermare le sue peculiari potenzialità di “cura”, permettendoci, in particolare, di capire quanto la fragilità stessa possa risultare un valore, perché rende empatici alle sofferenze altrui, più consapevoli del bisogno che abbiamo gli uni degli altri, consci del fatto che prendersi cura di sé e della propria anima non può essere disgiunto dal prendersi cura degli altri e della società.
È in linea con questa prospettiva Lucia Vantini, attiva nella Comunità Filosofica Diotima (Università di Verona) e impegnata, in essa, ad approfondire e a sviluppare il pensiero femminile. In un ciclo di conferenze dedicato alla pandemia e alle sue conseguenze (il “Grande Seminario di Diotima”, ottobre 2020), Vantini ha sottolineato come il virus abbia agito da «reagente», facendo emergere problematiche già presenti nella nostra società ma trascurate o rimosse, molte delle quali connesse proprio alla disattenzione per le fragilità – dei singoli, delle relazioni sociali, dell’ambiente. Ne sono esempi, a suo avviso, la sottrazione di risorse alla sanità pubblica, costante negli anni passati (senza preveggenza per i rischi a cui è esposta la parte debole della società), e l’ancora insufficiente supporto a coloro che svolgono attività di cura (cioè di assistenza a persone non autosufficienti come malati, disabili, anziani), fragili essi stessi e spesso lasciati soli a gestire situazioni gravose; ma anche il saccheggio delle risorse naturali, in cui è palese il venir meno di una prospettiva di “cura”. Situazioni alle quali, secondo Vantini, «si è pensato poco e male», e che la pandemia ha semplicemente reso esplicite.
Alla luce di queste considerazioni, la filosofa sottolinea come sia da tematizzare in modo costruttivo il ritorno alla “normalità” dopo l’evento pandemico, un ritorno sicuramente necessario per non amplificare le ripercussioni economico-sociali dei lunghi periodi di confinamento e di isolamento nelle proprie abitazioni, imposti dai governi per contenere il contagio e ridurre la pressione sulle terapie intensive degli ospedali. In un momento di “interruzione della storia”, come quello pandemico, è emerso però anche il bisogno di tornare a quei valori fondamentali che esigono di essere difesi e affermati, dirigendosi verso la dimensione del “con”, della condivisione, opposta a quella individualistica dell’“io”, della libertà individuale, tipica di una società egoista e competitiva.
Fonte: https://it.pearson.com/