Il 12 marzo del 1909 venne ucciso a Palermo il poliziotto italo-americano Joe Petrosino. Era in missione segreta in Sicilia per cercare di recidere i legami tra la Mafia e la Mano Nera che consentivano ai peggiori pregiudicati di espatriare negli Stati Uniti. Il tenente di polizia italo-americano è oggi parte dell’elenco delle 1031 vittime innocenti delle mafie stilato dall’associazione
«Io dico sempre che quando un emigrato italiano non è andato a finire in manicomio, o non è diventato un gangster, è un miracolo […] La prima generazione, per necessità di vita e per mancanza di istruzione s’era dovuta adattare nelle grandi città a mestieri considerati avvilenti dal popolo americano, come quelli del raccoglitore di stracci, del cameriere, del barbiere, del lustrascarpe, a cui per disgrazia eran pure dedite genti di colore, come cinesi o negri». Nel volume I trapiantati (1963) il giornalista Giuseppe Prezzolini affronta la «grande tragedia» dell’emigrazione negli Stati Uniti mettendo a nudo i gangli della società americana in cui agli inizi del XX secolo comparve il termine “mafia”. Essa stava a indicare «quel che in lingua italiana si chiamava racket, ossia l’associazione di delinquenti allo scopo di estorcere tributi illegali dalle attività della nazione, talune illegali esse stesse», scrive Prezzolini.
Agli albori del fenomeno mafioso, nella New York della grande emigrazione c’era la Mano Nera, una sigla apparsa nel 1903 «in calce a lettere estorsive indirizzate a uomini d’affari italiani, colpendo l’opinione pubblica e gli stessi malintenzionati tanto da essere riproposta negli anni seguenti e in molte altre città in un crescendo di minacce, attentati dinamitardi, rapimenti e assassini», scrive lo storico Salvatore Lupo. Inizialmente la Mano Nera era un marchio utilizzato in diverse varianti grafiche da gruppi isolati di malviventi per contrassegnare le “lettere di scrocco” e incutere timore alle vittime. In seguito sarebbe divenuto l’emblema di qualcosa di più strutturato e radicato.
Il delitto del barile
«I cosiddetti membri della Mano Nera non hanno niente d’invincibile, e verrà il giorno, io spero, che cominceremo a trovarne qualcuno penzolante da un lampione o fatto a pezzi per strada», dichiarò il sergente Petrosino al New York Herald nel febbraio del 1903. Il 14 aprile nel quartiere italiano di New York una donna rinvenne un barile all’interno del quale fu trovato il cadavere di un uomo in mezzo alla segatura. Il malcapitato era stato ucciso a coltellate e mutilato dei genitali che gli erano stati infilati in bocca. Il caso venne affidato a Petrosino, il miglior investigatore sulla piazza. La sigla “W. T.” impressa sul coperchio del barile e la presenza di polvere bianca e dolce all’interno portarono il detective a indagare sulla fabbrica di dolciumi Wallace e Towney, che riforniva alcuni locali tra cui La Stella d’Italia, un ritrovo poco distante gestito dal siciliano Pietro Inzerillo. Il posto era una sorta di copertura per traffici illeciti, frequentato da numerosi gangster. Petrosino entrò nel locale e, senza dare nell’occhio, prelevò un campione di segatura. Lo fece esaminare e si rivelò identico a quello trovato nel barile. Ciò significava che l’omicidio era stato commesso lì oppure il barile era stato “confezionato” in quel posto.
Il detective si concentrò sulla banda di Giuseppe Morello, originario di Corleone, che la voce pubblica indicava come capo della Mano Nera. Ne facevano parte Ignazio Lupo, che era il più istruito e al contempo spietato, e Giuseppe Fontana, già noto alle cronache italiane. Condannato qualche anno prima come esecutore materiale dell’omicidio del presidente del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo, Fontana fu rocambolescamente assolto per insufficienza di prove insieme al presunto mandante, il deputato palermitano Raffaele Palizzolo. C’erano poi il killer professionista Tommaso Petto e Vito Cascio Ferro, un uomo enigmatico appena arrivato dalla Sicilia.
Ma a chi apparteneva il corpo trovato nel barile? Petrosino provò a interrogare Giuseppe Di Primo, un falsario che aveva avuto a che fare con Morello e che si trovava recluso nel carcere di Sing-Sing. Gli mostrò la foto dell’ucciso e Di Primo vi riconobbe il cognato Benedetto Madonia. Secondo l’interrogato Madonia si era recato da Morello per reclamare del denaro, ma qualcosa era andato storto ed era stato ucciso brutalmente. Lesto il detective trasse in arresto tutti gli appartenenti alla “banda Morello” che però dopo pochi giorni vennero rilasciati previo pagamento di una cauzione fissata a 16mila dollari.
A Tommaso Petto venne ritrovato un orologio che si rivelò essere di Madonia, perciò s’ipotizzò che fosse proprio lui l’esecutore materiale. Il processo si concluse in un nulla di fatto. Fontana, Petto e altri sodali furono rilasciati. Morello e Lupo, messi in carcere per un breve periodo con l’accusa di fabbricazione e spaccio di moneta falsa, tornarono liberi. Don Vito Cascio Ferro fuggì prima a New Orleans per poi vedersi costretto al rientro in Italia nell’autunno del 1904. Scrive Petacco: «Tutti i conoscenti lo riverivano con la consueta deferenza […] Grazie alla sua influenza in Sicilia e in America, don Vito diventò in breve tempo il cardine dell’alleanza fra due organizzazioni criminose: la Mafia e la “Mano Nera” […] Fu in quel periodo che l’astro di don Vito raggiunse vette altissime nel firmamento della Mafia».
Italian branch
Si diceva fari vagnari u pizzu, far bagnare il becco. Era il sistema con il quale la mafia siciliana legava a sé i proprietari di attività commerciali che, in cambio di una “protezione fissa”, erano costretti al pagamento di una vera e propria imposta. Quei pochi che non pagavano vedevano andare letteralmente in fumo le proprie botteghe. Secondo Petacco la nuova “prassi” era arrivata a New York grazie a mafiosi come don Vito: «Evitate di mandare in rovina la gente con richieste assurde di denaro. Offrite invece la vostra protezione, favorite la prosperità dei loro commerci ed essi non solo saranno felici di pagare il pizzu, ma vi baceranno le mani per la gratitudine». Contro tale sistema ricattatorio, che nel gergo della malavita newyorchese assunse impropriamente il nome di racket, si mosse il Consiglio comunale di New York che nel 1905 diede il via libera alla formazione dell’Italian branch.
La “squadra italiana” era formata da pochi e fidati agenti agli ordini di Petrosino e si dedicava a un’intensa attività di spionaggio e schedatura dei malviventi italiani. Il nuovo capo della polizia Theodore Bingham, amico di Teddy Roosevelt, si fidava molto delle attività della squadra e di Petrosino, che nel 1906 venne promosso tenente. Nel suo primo rapporto Petrosino gli manifestò la necessità «di una legge che permetta di arrestare o di espellere come cittadini indesiderabili quegli individui che risultano ricercati o pregiudicati nei rispettivi paesi d’origine». Una norma del genere venne approvata nel luglio del 1907 ma con una forte limitazione: l’espulsione avveniva solo se l’incriminato era residente da meno di tre anni. In realtà i criminali come Morello erano negli Stati Uniti da molto più tempo. Si pensò quindi di “eradicare il male” alla radice sfruttando l’abilità di Petrosino.
Il progetto di Bingham era quello di finanziare con denaro privato un “servizio segreto” che venne annunciato nel dicembre del 1908. Quanto agli obiettivi di questa “squadra dalle caratteristiche speciali”, l’archivista Anna Maria Corradini lascia intendere che «forse non a caso la diffusione della notizia della formazione del servizio segreto venne a coincidere proprio con l’imminente partenza del poliziotto per l’Italia». Petrosino si recò in Sicilia per cercare di recidere i legami tra organizzazioni criminali italiane e americane e, in particolare, indagare sul sistema di concessione dei passaporti ai pregiudicati. Pochi mesi prima d’imbarcarsi sul piroscafo Duca Di Genova, sua moglie Adelina Saulino, sposata nel 1907, aveva dato alla luce Adelina Bianca Giuseppa.
Piazza Marina
Genova, Roma, Napoli, Padula, Messina e infine Palermo furono le tappe della missione di Petrosino in Italia sotto falso nome. La segretezza del viaggio fu però violata dall’Herald ancor prima che il poliziotto mettesse piede su suolo italiano, cosa che avvenne il 21 febbraio 1909. La notizia divulgata dal capo della polizia newyorchese mise in allerta quei criminali italiani che avevano “agganci” con quelli americani. A Roma Petrosino incontrò esponenti del governo Giolitti e il capo della polizia italiana, il quale scrisse a questori e prefetti di offrire al collega la massima collaborazione. Petrosino arrivò a Palermo il 28 febbraio e alloggiò all’Hotel de France, in piazza Marina. La sera del 12 marzo «quattro colpi di pistola di cui tre simultanei e uno isolato, rompevano fragorosamente il silenzio che gravava su piazza Marina», scrive Petacco.
Un marinaio che si trovava a passare di lì dichiarò di aver visto un uomo corpulento staccarsi dalla cancellata del giardino e stramazzare al suolo mentre due individui di dileguavano nell’oscurità. «Come ho fatto comunicare verbalmente alla S.V. Ill.ma iersera, verso le 20.45 nella parte più oscura di Piazza Marina, fu ucciso con due colpi di rivoltella al viso un individuo sui quarantacinque che fu poscia identificato per il sig. Petrosino Giuseppe [che] il 6 andante si era presentato dal Governo degli Stati Uniti di verificare se il rilascio dei passaporti in Italia fosse conforme alle leggi e ai trattati […] gli feci presente che dati gli odi che la malavita nutriva verso di lui, era opportuno che si fosse tenuto guardingo ed avesse accettato una speciale sorveglianza sulla sua persona». Così il questore di Palermo, Baldassarre Ceola, scrisse al procuratore generale del re. Il documento, pubblicato dall’archivista Anna Maria Corradini, è il primo atto delle indagini della polizia palermitana.
Ai funerali a New York parteciperanno circa 250mila persone, tra cui il presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Il processo per l’uccisione di Petrosino non superò la fase istruttoria: i quindici accusati, tra cui Vito Cascio Ferro, considerato il mandante del delitto, furano rilasciati nell’estate del 1911. Lo storico John Dickie scrive che «molti anni dopo, quando sotto il fascismo, una condanna mise fine alla sua carriera, Cascio Ferro fu intervistato in prigione. Dichiarò di aver ucciso un solo uomo in tutta la sua vita; e, disse, “l’ho fatto disinteressatamente”. Queste parole enigmatiche vennero intese come riferite al più famoso omicidio cui il suo nome fosse stato associato: quello di Joe Petrosino». Ciononostante non ci furono prove per incriminare il boss di Bisacquino provvisto di un alibi. L’omicidio è a oggi impunito. Joe Petrosino è il primo uomo delle forze dell’ordine a comparire nell’elenco delle 1031 vittime innocenti delle mafie stilato dall’associazione Libera e letto ogni 21 marzo in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno.
Di Matteo Dalena – fonte: https://www.storicang.it/a/joe-petrosino-contro-mano-nera-seconda-parte