di Pasquale Pasquino
La tesi dell’elezione diretta del premier ha due diversi e connessi risvolti, che vanno analizzati entrambi, per capirne la natura e i possibili effetti, tenendo conto del contesto italiano e del fatto che si tratta di una forma politica per ora solo abbozzata nella proposta del governo (manca infatti la definizione di una legge elettorale di accompagnamento per il capo del governo come anche per le due Camere, senza la quale quella proposta non ha gambe per camminare) e, inoltre, se si considera la circostanza di essere una struttura sostanzialmente inedita nel quadro dei moderni sistemi rappresentativi (l’esempio israeliano non è di buon auspicio).
Dal punto di vista giuridico-costituzionale, se l’elezione diretta del premier è accompagnata dallo scioglimento automatico del Parlamento che vota la sfiducia, essa significa l’annullamento del principio della responsabilità dell’esecutivo dinanzi al parlamento, quindi la negazione del controllo parlamentare rispetto al governo, sostituito dal “controllo popolare” attraverso nuove elezioni. Democrazia popolare (formula dal poco attraente passato) invece che parlamentare. Al di là della fraseologia comunista, si potrebbe qualificare questa forma di governo come bonapartismo o meglio gollismo, se ci affanniamo a cercare precedenti o paralleli – non del tutto improprio quello con la concezione della democrazia del generale De Gaulle, che nel 1962 l’impose, in parte e con un referendum di dubbia legittimità, alla costituzione parlamentare del 1958. Si osservi che l’indicazione del nome del premier sulla scheda elettorale e un sistema elettorale a doppio turno con ballottaggio, se nessuna coalizione raggiunge il 50%+1, resta invece compatibile con la democrazia parlamentare, se cade la norma simul stabunt, simul cadent.
D’altra parte, e dal punto di vista delle forze politiche (i partiti), l’elezione diretta sembra a prima vista difendibile, almeno nella prospettiva della stabilizzazione degli esecutivi, tenendo conto di tre possibili conseguenze sull’assetto del sistema politico, poiché si può far valere che essa permetterebbe:
1- di accrescere, grazie all’autorizzazione popolare, l’autorità del premier in seno alla coalizione di maggioranza,
2- di minacciare i potenziali sfiducianti interni alla maggioranza che verrebbero a perdere la loro posizione, grazie allo scioglimento delle Camere,
3- di far decidere ai cittadini i conflitti fra forze politiche attraverso elezioni invece che dal Presidente della Repubblica, dai partiti e dal Parlamento.
Relativamente a questi tre punti vanno però sollevate alcune obiezioni importanti.
Certo, l’elezione e dunque legittimazione popolare diretta – e non parlamentare – dà al Primo ministro un supplemento di autorità, ma (indipendentemente dalla confusa formulazione della proposta ultima del governo – frutto evidentemente di un compromesso ambiguo fra Giorgia Meloni e la Lega) questa accresciuta legittimazione non impedisce agli alleati del governo di coalizione di produrre una caduta del medesimo e, quindi, nuove elezioni, se i sondaggi mostrano una crescita di popolarità del partito della coalizione che fa cadere il governo. Non ci sono evidenze empiriche, per quanto ne so io, che gli elettori puniscano chi fa cadere il governo e porta il paese a nuove elezioni.
Questa osservazione indebolisce decisamente il secondo punto a favore dell’elezione popolare diretta. Dell’autorità o autorevolezza del leader si può dire, in sostanza, quello che affermava don Abbondio del coraggio: uno non se lo può dare – e nel caso in questione la risposta del Cardinal Borromeo non conta e l’autorizzazione popolare nemmeno. La volatilità elettorale ha distrutto diversi leader negli ultimi anni. Silvio Berlusconi l’autorevolezza di capo della maggioranza l’ha avuta da solo, senza norme costituzionali, e l’ha mantenuta a lungo insieme alla capacità di tenere insieme la sua strana coalizione fatta di secessionisti e di nazionalisti! E non gliel’ha data l’ingegneria costituzionale, ma le sue capacità di leader.
Infine, chiamare il corpo elettorale, ricorrendo a nuove elezioni, a produrre una soluzione in caso di conflitto fra partiti sembra illusorio oltre che poco ragionevole. Sono noti i casi di ripetute tornate elettorali in diversi paesi europei, come anche in Israele, che non hanno risolto i conflitti fra partiti e talvolta aggravati. Milioni di elettori non sono in grado di far emergere né compromessi né maggioranze né stabilità grazie ad un voto di singoli individui chiusi nelle cabine elettorali, come possono invece fare i partiti aiutati dalla mediazione del Presidente della Repubblica. Sicché il tentativo di stabilizzazione dell’esecutivo si può capovolgere in instabilità delle legislature, una malattia del sistema politico italiano scomparso dal radar della maggior parte dei novelli riformisti.