Capaci è la “cosa più importante, quella da dove nasce tutto, le stragi, l’input”. Matteo Messina Denaro, nel verbale depositato oggi all’udienza preliminare, in corso a Palermo, contro la maestra Laura Bonafede, allude, accusa, ragiona – ovviamente a modo suo – su possibili retroscena sconosciuti o che gli stessi inquirenti non vorrebbero scoprire a proposito dell’attentato in cui furono uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Per rendersi più credibile, mescola anche il discorso sull’eccidio del 23 maggio 1992 con il presunto depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, del 19 luglio successivo: “Perché vi siete fermati a La Barbera (Arnaldo, il superpoliziotto ritenuto al centro dell’intrigo, ndr), La Barbera era all’apice di qualcosa. Se fosse vivo ci sareste arrivati o vi sareste fermati un gradino prima?”. Lui, il defunto capomafia di Castelvetrano, è invece sicuro di possedere la verità, con i suoi mezzi discorsi in cui dice tutto e niente: “Sto dicendo la verità… Tutti questi, chiamiamoli pentiti, hanno detto, sì, qualche pezzo di verità, gli hanno fatto fare dei processi, va bene; ma ognuno ha portato acqua al suo mulino, poi”. Insinuazioni su insinuazioni, anche con riferimento all’atteggiamento di alcuni collaboratori, pronti a dire ciò che gli interlocutori si aspettano o – peggio – vorrebbero sentirsi dire: “Poi, se per portare acqua al suo mulino (i pentiti, ndr), dicono cose anche che possono coincidere con quello che cercate voi o con quello che interessa a voi, ben venga, giusto? Voi vi siete accontentati che il giudice Falcone sia stato ucciso perché ha fatto dare 11 ergastoli, 11/12 ergastoli, nel maxi processo, credo”. E gli scenari diventano complessi, confusi, fumosi. Per dire e non dire, lasciando soluzioni che possono essere le più disparate. O che soluzioni non sono affatto. (AGI)
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