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COSA FARE PER L’AFRICA (E PER NOI)

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Di Federico Rampini

The Economist Intelligence Unit stima che quest’anno l’Africa sarà la seconda area più dinamica del Pianeta, con 12 tra le 20 nazioni a maggiore crescita economica. I Paesi della Comunità dell’Africa Orientale dovrebbero raggiungere tassi di sviluppo del 5-6% trainati dal settore dei servizi, come il commercio. I giganti americani delle carte di credito Visa e Mastercard si lanciano in acquisizioni di app digitali create da imprenditori africani: quasi mezzo miliardo di consumatori su quel Continente pagano col telefonino, usando piattaforme tecnologiche lanciate da talenti locali. Questi dati contraddicono la narrazione dominante in Italia: che vede l’Africa solo come un epicentro di sciagure, sofferenze, ingiustizie, dilaniata tra Apocalisse climatica e «bomba migratoria».
La conferenza ItaliaAfrica con molti leader di quel Continente in arrivo a Roma, e la presentazione del Piano Mattei, offrono l’occasione per un discorso più maturo, meno catastrofista e piagnucoloso. La Brookings Institution, autorevole think tank di Washington, ieri ha presentato il suo Foresight 2024 sull’Africa, impostandolo in chiave positiva.
Sottolinea che «l’Africa ha il 30% di tutte le risorse naturali e minerarie necessarie per la transizione energetica del Pianeta». Ricorda che è un Continente giovane in un mondo che invecchia. Pur partendo da livelli bassi, i suoi consumatori sono tra quelli che vedono aumentare più velocemente il potere d’acquisto. Sono alcune delle ragioni per cui l’Africa è corteggiata da tutti, attira investimenti non solo dalla Cina ma da Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Turchia, per fortuna anche dall’Unione europea.
Eppure anche di questo fenomeno abbondano a casa nostra le interpretazioni negative: in questa corsa all’Africa, confermata dal vertice di Roma, bisogna vedere a tutti i costi una «nuova colonizzazione»? Questa è una sindrome dell’Occidente contemporaneo, la versione aggiornata del vecchio eurocentrismo: vogliamo sentirci ancora l’ombelico del mondo, autoflagellandoci come colpevoli di tutte le calamità e sofferenze. Descrivere l’Africa come un’eterna vittima, inchiodata per sempre al passato coloniale, preda passiva di mire altrui, fa parte di questa ossessione. È una nuova forma di sottile razzismo, perché questo atteggiamento tratta gli africani — leader inclusi — come delle creature deboli e indifese, manovrate da altri. La verità è che esiste un protagonismo africano, nel bene e nel male.
Non a caso la straripante creatività artistica che dall’Africa invade il mondo, è spesso gioiosa, non disperata. Vedere per credere: i film di Nollywood (Nigeria, terza capitale mondiale del cinema) sono commedie allegre, anche se i nostri festival preferiscono premiare tragedie africane.
Quando le classi dirigenti di alcuni Paesi africani decidono di mettersi all’asta al miglior offerente, sanno benissimo quello che fanno. Trattarli come incapaci d’intendere e di volere, meritevoli solo di compassione, questo sì è un atteggiamento «coloniale». Alimenta l’opportunismo di alcuni leader del Continente che hanno imparato a giocare con i nostri complessi di colpa, sfoderano la propaganda anti-imperialista perché sanno che gode di buona stampa e aumenta il loro potere contrattuale.
Il summit italiano e il Piano Mattei sono l’occasione per impostare un discorso maturo e una relazione tra eguali. La visione pauperistica ci ha reso incapaci di cogliere le evoluzioni positive. Per esempio la «bomba demografica», da cui si fanno derivare proiezioni su un esodo biblico da Sud a Nord, sta evolvendosi com’era già accaduto in altre parti del mondo: la scolarizzazione delle ragazze e soprattutto l’urbanizzazione, hanno già cominciato a ridurre la natalità. L’Onu ha dovuto tagliare centinaia di milioni di abitanti «attribuiti» all’Africa futura in certe sue proiezioni, già superate da una realtà meno spaventosa. Poi smettiamo di parlare di Africa come fosse un blocco unico: sono 54 nazioni, un ventaglio di situazioni molto diverse tra loro, dai casi di buongoverno agli abissi di corruzione.
La nostra predilezione per l’Apocalisse, in questo caso l’Afrocalisse, ci ha avvinghiati a una cultura degli aiuti da superare: dopo l’indipendenza l’Occidente ha versato all’Africa venti volte l’equivalente del Piano Marshall per la ricostruzione post-bellica dell’Europa, con risultati molto deludenti. Gli africani oggi sono interessati a sperimentare qualche variante del modello di sviluppo asiatico: diversi Paesi orientali al momento della liberazione postcoloniale erano più poveri di loro, oggi sono balzati molto più avanti.
L’Italia affronta questa sfida con vantaggi e handicap peculiari. Non abbiamo un passato imperialista e coloniale ingombrante come quello della Francia quindi suscitiamo meno sospetti e diffidenze. Però il nostro tessuto economico dominato dalle piccole e medie imprese ha un’avversione al rischio, va aiutato ad affrontare mercati pieni di incognite. È ora di guardare l’Africa come una terra di opportunità, capace di attirare un’immigrazione alla rovescia: una nuova generazione di talenti professionali italiani va incoraggiata a cimentarsi con questo nuovo orizzonte. A Sud del Mediterraneo c’è bisogno dei nostri investimenti, delle nostre aziende, del nostro know how, più che della nostra pietà o indignazione. Non serve esportare un ambientalismo snob che predica decrescita felice e ricette anti-capitaliste; servono pragmatismo e soluzioni concrete ai bisogni energetici. Le materie prime vanno trasformate in loco, per creare lì occupazione e valore aggiunto.
Esiste una urgente domanda di sicurezza. L’America, che non ha rinunciato a contare su quel Continente, ha inviato di nuovo il suo segretario di Stato in missione in quelle terre che lo vedono spesso. L’ultima visita di Antony Blinken in Costa d’Avorio ha affrontato il problema dei golpe militari e delle minacce jihadiste. Legge e ordine sono ingredienti decisivi anche in Africa per garantire lo sviluppo. L’Italia su quel fronte non è un peso massimo e la sua azione deve inquadrarsi per forza in un contesto europeo.

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Di Federico Rampini · 27 Gen 2024

The Economist Intelligence Unit stima che quest’anno l’Africa sarà la seconda area più dinamica del Pianeta, con 12 tra le 20 nazioni a maggiore crescita economica. I Paesi della Comunità dell’Africa Orientale dovrebbero raggiungere tassi di sviluppo del 5-6% trainati dal settore dei servizi, come il commercio. I giganti americani delle carte di credito Visa e Mastercard si lanciano in acquisizioni di app digitali create da imprenditori africani: quasi mezzo miliardo di consumatori su quel Continente pagano col telefonino, usando piattaforme tecnologiche lanciate da talenti locali. Questi dati contraddicono la narrazione dominante in Italia: che vede l’Africa solo come un epicentro di sciagure, sofferenze, ingiustizie, dilaniata tra Apocalisse climatica e «bomba migratoria».
La conferenza ItaliaAfrica con molti leader di quel Continente in arrivo a Roma, e la presentazione del Piano Mattei, offrono l’occasione per un discorso più maturo, meno catastrofista e piagnucoloso. La Brookings Institution, autorevole think tank di Washington, ieri ha presentato il suo Foresight 2024 sull’Africa, impostandolo in chiave positiva.
Sottolinea che «l’Africa ha il 30% di tutte le risorse naturali e minerarie necessarie per la transizione energetica del Pianeta». Ricorda che è un Continente giovane in un mondo che invecchia. Pur partendo da livelli bassi, i suoi consumatori sono tra quelli che vedono aumentare più velocemente il potere d’acquisto. Sono alcune delle ragioni per cui l’Africa è corteggiata da tutti, attira investimenti non solo dalla Cina ma da Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Turchia, per fortuna anche dall’Unione europea.
Eppure anche di questo fenomeno abbondano a casa nostra le interpretazioni negative: in questa corsa all’Africa, confermata dal vertice di Roma, bisogna vedere a tutti i costi una «nuova colonizzazione»? Questa è una sindrome dell’Occidente contemporaneo, la versione aggiornata del vecchio eurocentrismo: vogliamo sentirci ancora l’ombelico del mondo, autoflagellandoci come colpevoli di tutte le calamità e sofferenze. Descrivere l’Africa come un’eterna vittima, inchiodata per sempre al passato coloniale, preda passiva di mire altrui, fa parte di questa ossessione. È una nuova forma di sottile razzismo, perché questo atteggiamento tratta gli africani — leader inclusi — come delle creature deboli e indifese, manovrate da altri. La verità è che esiste un protagonismo africano, nel bene e nel male.
Non a caso la straripante creatività artistica che dall’Africa invade il mondo, è spesso gioiosa, non disperata. Vedere per credere: i film di Nollywood (Nigeria, terza capitale mondiale del cinema) sono commedie allegre, anche se i nostri festival preferiscono premiare tragedie africane.
Quando le classi dirigenti di alcuni Paesi africani decidono di mettersi all’asta al miglior offerente, sanno benissimo quello che fanno. Trattarli come incapaci d’intendere e di volere, meritevoli solo di compassione, questo sì è un atteggiamento «coloniale». Alimenta l’opportunismo di alcuni leader del Continente che hanno imparato a giocare con i nostri complessi di colpa, sfoderano la propaganda anti-imperialista perché sanno che gode di buona stampa e aumenta il loro potere contrattuale.
Il summit italiano e il Piano Mattei sono l’occasione per impostare un discorso maturo e una relazione tra eguali. La visione pauperistica ci ha reso incapaci di cogliere le evoluzioni positive. Per esempio la «bomba demografica», da cui si fanno derivare proiezioni su un esodo biblico da Sud a Nord, sta evolvendosi com’era già accaduto in altre parti del mondo: la scolarizzazione delle ragazze e soprattutto l’urbanizzazione, hanno già cominciato a ridurre la natalità. L’Onu ha dovuto tagliare centinaia di milioni di abitanti «attribuiti» all’Africa futura in certe sue proiezioni, già superate da una realtà meno spaventosa. Poi smettiamo di parlare di Africa come fosse un blocco unico: sono 54 nazioni, un ventaglio di situazioni molto diverse tra loro, dai casi di buongoverno agli abissi di corruzione.
La nostra predilezione per l’Apocalisse, in questo caso l’Afrocalisse, ci ha avvinghiati a una cultura degli aiuti da superare: dopo l’indipendenza l’Occidente ha versato all’Africa venti volte l’equivalente del Piano Marshall per la ricostruzione post-bellica dell’Europa, con risultati molto deludenti. Gli africani oggi sono interessati a sperimentare qualche variante del modello di sviluppo asiatico: diversi Paesi orientali al momento della liberazione postcoloniale erano più poveri di loro, oggi sono balzati molto più avanti.
L’Italia affronta questa sfida con vantaggi e handicap peculiari. Non abbiamo un passato imperialista e coloniale ingombrante come quello della Francia quindi suscitiamo meno sospetti e diffidenze. Però il nostro tessuto economico dominato dalle piccole e medie imprese ha un’avversione al rischio, va aiutato ad affrontare mercati pieni di incognite. È ora di guardare l’Africa come una terra di opportunità, capace di attirare un’immigrazione alla rovescia: una nuova generazione di talenti professionali italiani va incoraggiata a cimentarsi con questo nuovo orizzonte. A Sud del Mediterraneo c’è bisogno dei nostri investimenti, delle nostre aziende, del nostro know how, più che della nostra pietà o indignazione. Non serve esportare un ambientalismo snob che predica decrescita felice e ricette anti-capitaliste; servono pragmatismo e soluzioni concrete ai bisogni energetici. Le materie prime vanno trasformate in loco, per creare lì occupazione e valore aggiunto.
Esiste una urgente domanda di sicurezza. L’America, che non ha rinunciato a contare su quel Continente, ha inviato di nuovo il suo segretario di Stato in missione in quelle terre che lo vedono spesso. L’ultima visita di Antony Blinken in Costa d’Avorio ha affrontato il problema dei golpe militari e delle minacce jihadiste. Legge e ordine sono ingredienti decisivi anche in Africa per garantire lo sviluppo. L’Italia su quel fronte non è un peso massimo e la sua azione deve inquadrarsi per forza in un contesto europeo.

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Di Federico Rampini · 27 Gen 2024

The Economist Intelligence Unit stima che quest’anno l’Africa sarà la seconda area più dinamica del Pianeta, con 12 tra le 20 nazioni a maggiore crescita economica. I Paesi della Comunità dell’Africa Orientale dovrebbero raggiungere tassi di sviluppo del 5-6% trainati dal settore dei servizi, come il commercio. I giganti americani delle carte di credito Visa e Mastercard si lanciano in acquisizioni di app digitali create da imprenditori africani: quasi mezzo miliardo di consumatori su quel Continente pagano col telefonino, usando piattaforme tecnologiche lanciate da talenti locali. Questi dati contraddicono la narrazione dominante in Italia: che vede l’Africa solo come un epicentro di sciagure, sofferenze, ingiustizie, dilaniata tra Apocalisse climatica e «bomba migratoria».
La conferenza ItaliaAfrica con molti leader di quel Continente in arrivo a Roma, e la presentazione del Piano Mattei, offrono l’occasione per un discorso più maturo, meno catastrofista e piagnucoloso. La Brookings Institution, autorevole think tank di Washington, ieri ha presentato il suo Foresight 2024 sull’Africa, impostandolo in chiave positiva.
Sottolinea che «l’Africa ha il 30% di tutte le risorse naturali e minerarie necessarie per la transizione energetica del Pianeta». Ricorda che è un Continente giovane in un mondo che invecchia. Pur partendo da livelli bassi, i suoi consumatori sono tra quelli che vedono aumentare più velocemente il potere d’acquisto. Sono alcune delle ragioni per cui l’Africa è corteggiata da tutti, attira investimenti non solo dalla Cina ma da Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Turchia, per fortuna anche dall’Unione europea.
Eppure anche di questo fenomeno abbondano a casa nostra le interpretazioni negative: in questa corsa all’Africa, confermata dal vertice di Roma, bisogna vedere a tutti i costi una «nuova colonizzazione»? Questa è una sindrome dell’Occidente contemporaneo, la versione aggiornata del vecchio eurocentrismo: vogliamo sentirci ancora l’ombelico del mondo, autoflagellandoci come colpevoli di tutte le calamità e sofferenze. Descrivere l’Africa come un’eterna vittima, inchiodata per sempre al passato coloniale, preda passiva di mire altrui, fa parte di questa ossessione. È una nuova forma di sottile razzismo, perché questo atteggiamento tratta gli africani — leader inclusi — come delle creature deboli e indifese, manovrate da altri. La verità è che esiste un protagonismo africano, nel bene e nel male.
Non a caso la straripante creatività artistica che dall’Africa invade il mondo, è spesso gioiosa, non disperata. Vedere per credere: i film di Nollywood (Nigeria, terza capitale mondiale del cinema) sono commedie allegre, anche se i nostri festival preferiscono premiare tragedie africane.
Quando le classi dirigenti di alcuni Paesi africani decidono di mettersi all’asta al miglior offerente, sanno benissimo quello che fanno. Trattarli come incapaci d’intendere e di volere, meritevoli solo di compassione, questo sì è un atteggiamento «coloniale». Alimenta l’opportunismo di alcuni leader del Continente che hanno imparato a giocare con i nostri complessi di colpa, sfoderano la propaganda anti-imperialista perché sanno che gode di buona stampa e aumenta il loro potere contrattuale.
Il summit italiano e il Piano Mattei sono l’occasione per impostare un discorso maturo e una relazione tra eguali. La visione pauperistica ci ha reso incapaci di cogliere le evoluzioni positive. Per esempio la «bomba demografica», da cui si fanno derivare proiezioni su un esodo biblico da Sud a Nord, sta evolvendosi com’era già accaduto in altre parti del mondo: la scolarizzazione delle ragazze e soprattutto l’urbanizzazione, hanno già cominciato a ridurre la natalità. L’Onu ha dovuto tagliare centinaia di milioni di abitanti «attribuiti» all’Africa futura in certe sue proiezioni, già superate da una realtà meno spaventosa. Poi smettiamo di parlare di Africa come fosse un blocco unico: sono 54 nazioni, un ventaglio di situazioni molto diverse tra loro, dai casi di buongoverno agli abissi di corruzione.
La nostra predilezione per l’Apocalisse, in questo caso l’Afrocalisse, ci ha avvinghiati a una cultura degli aiuti da superare: dopo l’indipendenza l’Occidente ha versato all’Africa venti volte l’equivalente del Piano Marshall per la ricostruzione post-bellica dell’Europa, con risultati molto deludenti. Gli africani oggi sono interessati a sperimentare qualche variante del modello di sviluppo asiatico: diversi Paesi orientali al momento della liberazione postcoloniale erano più poveri di loro, oggi sono balzati molto più avanti.
L’Italia affronta questa sfida con vantaggi e handicap peculiari. Non abbiamo un passato imperialista e coloniale ingombrante come quello della Francia quindi suscitiamo meno sospetti e diffidenze. Però il nostro tessuto economico dominato dalle piccole e medie imprese ha un’avversione al rischio, va aiutato ad affrontare mercati pieni di incognite. È ora di guardare l’Africa come una terra di opportunità, capace di attirare un’immigrazione alla rovescia: una nuova generazione di talenti professionali italiani va incoraggiata a cimentarsi con questo nuovo orizzonte. A Sud del Mediterraneo c’è bisogno dei nostri investimenti, delle nostre aziende, del nostro know how, più che della nostra pietà o indignazione. Non serve esportare un ambientalismo snob che predica decrescita felice e ricette anti-capitaliste; servono pragmatismo e soluzioni concrete ai bisogni energetici. Le materie prime vanno trasformate in loco, per creare lì occupazione e valore aggiunto.
Esiste una urgente domanda di sicurezza. L’America, che non ha rinunciato a contare su quel Continente, ha inviato di nuovo il suo segretario di Stato in missione in quelle terre che lo vedono spesso. L’ultima visita di Antony Blinken in Costa d’Avorio ha affrontato il problema dei golpe militari e delle minacce jihadiste. Legge e ordine sono ingredienti decisivi anche in Africa per garantire lo sviluppo. L’Italia su quel fronte non è un peso massimo e la sua azione deve inquadrarsi per forza in un contesto europeo.

Fonte: Corriere