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Da Corbyn a Starmer, la svolta riformista del Labour

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di Massimo Ungaro

All’inizio Keir Starmer si era presentato quasi come un Corbynista, del cui governo ombra era stato ministro per la Brexit, quando ha vinto per un pelo il congresso del Labour nel 2020 col 56% dei voti. Sembrava dover essere sostanzialmente un Jeremy Corbyn in giacca e cravatta, ma alla fine si è rivelato tutt’altro.
Una volta eletto ha messo in pratica una radicale svolta riformista del Labour, un partito che resta inchiodato all’opposizione da oltre 13 anni per costruire una valida alternativa ai Tories alle elezioni politiche tra meno di un anno. Il Labour di Starmer parte da un cuore di proposte squisitamente progressiste – l’aumento del 5% dell’aliquota sui redditi più alti, il potenziamento della sanità pubblica, l’abolizione delle leggi restrittive degli scioperi, l’abolizione della Camera dei Lords – corredate da altre misure che richiamano il New Labour blairiano: politiche a sostegno della crescita e delle aziende, una politica estera a favore della Nato, conti pubblici in ordine, tolleranza zero contro il crimine (rievocando il celebre slogan ‘tough on crime, tough on the causes of crime’), una selezione meritocratica dei dirigenti basata sulla competenza. Insomma, un ritorno del tutto inaspettato di quella terza via riformista che Corbyn aveva cacciato dal Labour.
Oltre alle proposte, Keir Starmer sta promuovendo una nuova narrativa, non soltanto trattando temi come il patriottismo, la famiglia e la difesa – temi storicamente abbastanza assenti dal radar della sinistra inglese – ma anche tentando di riabilitare Tony Blair, una figura che rimane inviso agli ambienti più massimalisti che come al solito preferiscono dimenticare chi gli abbia condotti per ben tre volte consecutive alla vittoria. Un processo facilitato dalla sonora sconfitta di Corbyn nel 2019, a causa di un massimalismo staccato dalla realtà mentre sul tema Brexit Corbyn ebbe l‘imperdonabile colpa di non aver voluto difendere l’UE come progetto progressista, quando invece andava spiegato, specie al ceto medio impoverito del nord degradato e post-industriale, che la Brexit era un progetto regressivo che andava contro i loro stessi interessi.

Cambiare la linea politica del partito non è stato semplice per Starmer che è arrivato fino a espellere Corbyn in reazione alle varie accuse di antisemitismo e dopo il rifiuto di Corbyn di definire Hamas come un’organizzazione terroristica. Manovre che sembrano estreme ma che sono le conseguenze dell’altissima litigiosità dietro le quinte tra correnti radicalmente diverse tra loro ma costrette a convivere nello stesso partito per via di una legge elettorale estremamente maggioritaria come quella britannica. Malgrado le accuse di essere il cavallo di Troia di Blair, gli sforzi di Keir Starmer stanno dando frutti: nel 2020 il Labour era 10 punti sotto i Conservatori nei sondaggi, oggi si trova quasi 20 punti sopra. Un risultato strabiliante che però è dovuto anche alla gestione disastrosa dei Tories di questi ultimi anni, dalla irresolutezza della May agli scandali di Boris Johnson e la debacle di Lizz Truss, premier per 44 giorni, e infine il governo di Sunak, giovane Premier competente che però non piace alla base del partito e che viene percepito come distante dalla gente comune.

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